Nel mio ultimo contributo ho parlato del rapporto tra monachesimo e ricerca dell’eudaimonia, vale a dire della realizzazione di una piena fioritura delle nostre vite a partire da qualche principio in grado di dar loro forma. Nel suo straordinario libro Esercizi spirituali e filosofia antica, il grande studioso e filosofo francese Pierre Hadot (1922-2010) spiegava come proprio questo fosse lo scopo fondamentale della ricerca filosofica nell’antichità greca: “Ogni scuola filosofica rappresenta una forma di vita, specificata da un ideale di saggezza. A ogni scuola corrisponde dunque un atteggiamento interiore fondamentale”. Subito dopo, però, l’autore si affretta a sottolineare: “Ma soprattutto, in tutte le scuole saranno praticati esercizi destinati ad assicurare il progresso spirituale verso lo stato ideale della saggezza”.

La parola chiave di tutto ciò è áskēsis, “esercizio”. Non a caso, parlando dell’etimologia del termine monaco abbiamo visto come con esso si alluda – tra molte altre cose – a un asceta itinerante. Con un caveat importante, però: che si eviti di sovrapporre alla parola “ascesi” tutte quelle stratificazioni di senso che l’hanno resa un termine inviso a molte culture e insopportabile perfino in seno alla stessa vita religiosa, a motivo dell’inutile coloritura doloristica, autopunitiva ed eroica che l’ascesi ha assunto e assume tuttora in talune tradizioni (pseudo?) religiose.

Monache e monaci adottarono molto presto la simbologia e il vocabolario della filosofia greca e latina proprio perché ritenevano la loro ricerca qualcosa di molto affine alla ricerca del “saper vivere” propria degli antichi saggi ellenici. Soprattutto, però, compresero che le virtù necessarie al raggiungimento dell’eudaimonia, di una vita “secondo un buon spirito”, andavano praticate, esercitate con applicazione e metodo.

I primi a sottolineare come fosse necessario esercitarsi per educare lo spirito all’acquisizione delle virtù e al dominio sulle passioni erano stati probabilmente i cinici e gli stoici. I pitagorici, da parte loro, furono quelli che collegarono in maniera più marcata (e in un certo senso “nuova”) l’idea di esercizio con la pratica religiosa, che permeava ogni dimensione della loro ricerca dell’umano e non solo del divino.

L’intuizione di base è in fin dei conti piuttosto semplice. Noi tutti, se dobbiamo riprenderci da un serio infortunio fisico, non abbiamo difficoltà a comprendere come sia necessario un cammino di “ri-abilitazione”, ovverosia esercitarsi per tornare a padroneggiare delle abilità, delle capacità, in maniera pressoché automatica, “abitudinaria”. E qualora una sportiva desideri migliorare le proprie performance, sa bene che solo con allenamenti regolari e sostenuti, con la continua ripetizione di esercizi, potrà sperare di eccellere nella propria disciplina. Ebbene, la stessa cosa vale per tutto ciò che appartiene alla sfera dello “spirito” (intelligenza, volontà, libertà, affetti, emozioni, e così via): l’esercizio aiuta a costruire, rafforzare e ripristinare anche le nostre facoltà mentali e spirituali. 

Il modo concreto di affinare le virtù – che, ricordiamolo, significa “forze”, “capacità” – non trova peraltro concordi le varie scuole di pensiero dell’antichità. Da una parte vi è chi, come gli stoici, propone esercizi incentrati sul controllo di sé ricorrendo alla gestione delle forze negative che ostacolano le virtù; dall’altra vi sono quanti, come ad esempio gli epicurei, ritengono decisiva, nella lotta contro il “male”, la valorizzazione e il potenziamento delle forze positive che ci abitano.

I primi grandi maestri della spiritualità cristiana, ovverosia le monache e i monaci del deserto egiziano, palestinese e siriaco, praticavano in maniera particolare quella forma di ascesi, di esercizio, chiamata lotta contro i loghismoí, i “pensieri” malvagi. A cosa alludevano? Al fatto che la mente umana è costantemente attraversata da ispirazioni e spunti che possono risultare fortemente deleteri, per noi stessi e per gli altri. Già la Prima lettera di Giovanni, peraltro, invita a “mettere alla prova gli spiriti” (1Gv 4,1), e cioè a imparare a discernere tra i pensieri e le ispirazioni presenti per un motivo o per l’altro nella nostra mente tra ciò che è foriero di bene e quanto invece non giova e può addirittura distruggere, sia noi sia gli altri. Gli anacoreti del deserto, che vivevano in solitudine, erano più esposti rispetto agli altri esseri umani alla pura forza dei pensieri, e dunque impararono e insegnarono alle generazioni loro contemporanee e a quelle future come combattere i pensieri.

La strategia, il metodo fondamentale di lotta spirituale che ci hanno trasmesso, consiste da un lato nell’imparare a riconoscere le principali forze distruttive che invadono la mente umana. Secondo la nota classificazione di Evagrio Pontico – vero genio ante litteram dell’analisi psicologica – rientrano tra questi spiriti o pensieri malvagi la gola, la lussuria, l’avarizia, l’ira, la tristezza, l’acedia, la vanagloria e la superbia. Tuttavia, siccome si tratta di “nemici” o tentazioni la cui forza non va mai trascurata, i padri e le madri del deserto invitano a combattere quelli che nella tradizione latina saranno chiamati i “vizi capitali” cercando di sviluppare la loro controparte positiva, i pensieri virtuosi, fino a farli diventare un vero e proprio habitus che contrasti in maniera decisiva le ispirazioni distruttive e maligne. Per dirla con un esempio concreto, se impariamo a fare della mitezza un’abitudine, quando il pensiero dell’ira cercherà di fare breccia in noi ci saremo dotati di una difesa molto efficace per impedire all’ira di prevalere.

Filosofi, filosofe, monaci e monache cercano dunque di diventare sapienti, di acquisire conoscenze e abilità pratiche che consentano loro di affrontare qualsiasi situazione, prevista o imprevista, con la giusta disposizione e prontezza d’animo. Gran parte della loro ascesi, del loro esercitarsi, è orientato a questo scopo. Ed è per questo motivo che tutte e tutti avvertiamo il bisogno sia di praticare nelle nostre vite alcuni elementi di disciplina monastica che ci aiutino a crescere verso la realizzazione di noi stessi, sia di entrare in contatto con quante e quanti mostrano (a prescindere dalla loro “professione”) di saper padroneggiare almeno in parte tale disciplina.

Tra gli elementi della disciplina monastica che conservano una pregnanza particolare anche in un mondo in cui il divino non è più un fattore rilevante vi è perciò sicuramente una ripresa e una rilettura in chiave moderna e odierna dell’ascesi. Tutti i religiosi e le religiose l’hanno sempre considerata fondamentale per le loro vite, in ogni tempo, esperienza religiosa e angolo del mondo. Oggi dobbiamo tuttavia liberare la pratica ascetica da inutili elementi di esaltazione del dolore o dell’eroismo di chi la compie, e ancor più dalla malsanissima idea che sarebbe necessario mortificarsi o punirsi per qualcosa. Bisogna inoltre liberarsi da ogni pratica irredimibile. Infine, alla luce degli studi e delle discipline moderne che ci aiutano a capire meglio la nostra umanità e la nostra psiche, dovremmo pensare a nuove pratiche capaci di trasformare le nostre disposizioni fino a renderci capaci di una vita veramente eudaimonica.

Tornando a Hadot e alla filosofia greca, però, è importante non dimenticare che, accanto all’ascesi come controllo di sé, vi è un ulteriore esercizio, forse ancor più fondamentale: quello della mente e della ragione che viene definito dai greci melétē – “meditazione” – e che conserverà un nome analogo in tutta la tradizione  cristiana. Vista la notevole gamma di sfumature e significati assunti da tale vocabolo nella lingua italiana, ma soprattutto in ragione della sua enorme importanza negli esercizi necessari per acquisire saggezza secondo la tradizione spirituale monastica, dedicheremo il prossimo contributo a chiarirne i contorni e le possibili declinazioni odierne.