Comunicare in rete riguardo a cose che ci sono molto care, che ci fanno soffrire, è impresa davvero ardua, rischiosa. E visto che ormai anche ciò che si pubblica sui giornali e in luoghi pubblici finisce immediatamente in rete, quanto sto per dire è applicabile ovviamente non solo a blog e post di vario genere, ma anche a opinioni espresse su rotocalchi, settimanali e periodici di qualsiasi sorta.

La rete alimenta le emozioni, a scapito non solo dei ragionamenti più pacati e complessi, ma anche del necessario “distanziamento” dalle nostre ispirazioni e pulsioni più immediate a parlare. Per questa ragione, pur cadendo talvolta negli stessi errori che critico (nessuna auto-glorificazione è mai possibile, per carità!), e pur essendo una persona dall’intensa attività di riflessione, cerco di limitare molto la quantità di messaggi che trasmetto su Internet, e quando lo faccio cerco sempre di essere lungo e articolato, senza scrivere di getto, leggendo e rileggendo ciò che voglio condividere. Anche per questo non ho un account Twitter e ho aperto invece un blog, in cui non scrivo quotidianamente né in maniera breve e lapidaria.

Vorrei perciò prendere spunto da un articolo di MichaelDavide Semeraro comparso un paio di giorni fa, sia per spiegare come la comunicazione sia un problema gravissimo nella chiesa, che ha mietuto e continua a mietere troppe, inutili vittime, sia per chiarire alcuni punti sui cambiamenti generazionali di cui ho parlato tra gli ospiti di Bose e nel cattolicesimo italiano più in generale.

Inizio col dire che Semeraro interagisce di fatto a più riprese con i miei scritti, senza mai citarne né la fonte né l’autore, ma alludendo solo a “generiche voci”. Non è peraltro l’unico: lo storico Massimo Faggioli, che (beato lui) ha molto tempo da dedicare alla sua intensissima attività di postatore seriale di apoftegmi post-moderni e stilettate a 360°, senza mai citarmi una sola volta mi ha attaccato a più riprese su Facebook nell’arco di pochi giorni (anzi poche ore). Non faccio nomi e cognomi per intento puramente polemico, ma proprio perché qui sta uno dei vizi di base della comunicazione “chiesastica”: la mancanza di chiarezza e di correttezza. Perciò citerò esplicitamente non solo le idee che critico, ma anche i latori di tali idee, non come giudizio morale o mancanza di rispetto nei loro confronti, ma per ragioni di trasparenza e onestà nella comunicazione, e per dare loro (se lo desiderano) la possibilità di rispondermi con altrettanta onestà intellettuale.

Semeraro, al quale do atto di esprimersi in maniera serena e articolata, senza veleni (da vero figlio di san Benedetto), esordisce nel suo La Pasqua di Bose prendendo le difese della chiesa (cattolica) e degli istituti religiosi e monastici, dei quali “da più parti è stato denunciato il silenzio”, e spiegando in termini di virtù monastiche una simile scelta. Premesso che nessuno ha accusato i monasteri di tacere (e perché mai, poi, dovrebbero parlare delle beghe interne a un’altra comunità?), e che comunque dietro al silenzio molti religiosi si sono distinti per il loro mormorare e spettegolare (fatto tra i più invisi allo stesso san Benedetto!), il nodo del silenzio della chiesa italiana e non solo rimane tristemente irrisolto: come è possibile che in tutti questi mesi non ci sia stata una sola parola pubblica da parte dell’episcopato italiano (e non solo per questioni di giurisdizione, anche se qualche vescovo evangelico si è speso molto dietro le quinte), ma soprattutto che si sia lasciato che delle dolorosissime vicende in questione fosse pressoché unicamente la stampa laica a parlare, con tutti i rischi che questo comportava?

Ma passiamo dal silenzio della chiesa a quello, solo presunto, dei fratelli e delle sorelle di Bose. Premesso che sono convinto, a ragion veduta e come credo abbiate capito ormai tutti se mi avete letto con attenzione e senza pregiudizi, che alla radice dell’attuale situazione veramente disdicevole della comunità fondata da Enzo Bianchi ci siano in larga misura problemi di incapacità di comunicazione interna, di governo comunitario e di gestione dei conflitti, di cui tutti i fratelli e le sorelle più “anziani” sono ugualmente responsabili, trascinatisi per anni e resi ancor più gravi dallo scriteriato intervento di padre Cencini, in realtà parlare di silenzio della comunità per difendere l’una o l’altra parte, è un falso storico, facilmente provabile tramite documenti (se mai, un giorno, si dovesse rendere necessario).

Fin da quando la vicenda è diventata pubblica, infatti, ci sono stati sì diversi fratelli e sorelle che hanno sperato e pregato in silenzio (a cui va il mio plauso e il mio ringraziamento, come quello di molti). Per contro, vi è chi ha costantemente spiegato le proprie posizioni, sempre più radicali, a ogni ospite e conoscente, direttamente a voce, per email, messaggi telefonici, gruppi whatsapp, e chi più ne ha più ne metta. Dire, come fa Faggioli, che gli stili comunicativi delle due parti sono stati differenti, è totalmente privo di fondamenti o addirittura segno di un bisogno di “schierarsi” che, in questi casi, andrebbe fortemente evitato. Accanto a questo, in quasi nove mesi, né il priore né il fondatore si sono mai espressi chiaramente, in prima persona, ma hanno optato o per messaggi parziali e distorti firmati dalla “comunità” (con il disaccordo di diversi membri della stessa, sempre più marginalizzati e repressi) o per lamenti più o meno criptici via Internet, che hanno lasciato tutti più confusi, anche tra i bene intenzionati, e hanno radicalizzato ulteriormente, volente o nolente, le posizioni.

Per questo non posso che concordare con la definizione data da un giornalista laico della vicenda come un “pasticciaccio all’italiana” (io direi “un pasticciaccio da sacrestia”), in cui tutti dovrebbero dimettersi per lasciare spazio ad altre guide, capaci di rivedere a fondo i meccanismi di comunicazione comunitari, innanzitutto interni, nonché le modalità di governo, all’insegna dell’umanità e della carità.

E qui vengo a un ulteriore punto che traspare dallo scritto di Semeraro (e nell’opinione di alcuni), e cioè che una maggiore istituzionalizzazione aiuterebbe Bose a evitare queste cose, come se la vita religiosa “tradizionale” fosse esente da problemi di comunicazione e di governo, e come se gli strumenti “istituzionali” oggi disponibili fossero davvero adeguati. Ne sarei molto felice, ovviamente, ma in molti anni di visite (e alcuni anche di predicazione) a comunità e ordini religiosi, non mi ero mai accoro di alcuna particolare differenza tra queste e la stessa Bose, e non ritengo utile applicare clichés assai superficiali che vorrebbero ogni “nuova comunità” affetta dagli stessi problemi, mettendo sullo stesso piano, indiscriminatamente, l’Arche, i Legionari di Cristo, Bose, l’Opus Dei o i Focolarini… Piuttosto, c’è da interrogarsi a fondo su quali strumenti siano oggi necessari perché in qualsiasi luogo dove si crea una comunità, una convivenza, si sappiano ascoltare le grida di sofferenza e intervenire, prima che sia troppo tardi, per far sì che ogni persona possa vivere una vita libera, piena e felice.

Semeraro compie quindi una distinzione tra desacralizzazione e secolarizzazione, confondendo indebitamente i miei discorsi sull’autorità religiosa con quelle che ritiene di fatto tendenze mondane presenti a Bose (sarebbe bene le specificasse meglio, però, salvo suonare allusivo solo nei confronti di qualcuno), e supportando la propria argomentazione con una frase che invece desta davvero molta preoccupazione: “Se c’è una forma di vita che fa a pugni con il Vangelo è proprio quella monastica…”. Volendo rispondere in maniera radicale, con toni analoghi, mi verrebbe da dire: “Se così è, muoia pure la vita monastica, e viva il vangelo!”.

A Bose tutte e tutti si sono battuti per decenni per definirsi “semplici cristiani”, per dire che l’unica speciale consacrazione è quella che ciascuno compie al battesimo, proprio in nome del significato più antico del celibato cristiano, legato solamente alla radicalità evangelica e alla dimensione escatologica della fede, e non di per sé a “forme”, “pratiche” o “dottrine”, umane e per taluni versi inevitabili, ma mai fondamentali. Don Michele Do, grande uomo dello spirito e del pensiero, era solito dire che nella chiesa ci sono cose essenziali, come il vangelo, e altre utili e accessorie, ma che si collocano su un piano del tutto altro e inferiore, come i vari modi di vivere l’unica vocazione cristiana.

L’importanza di Bose è stata, storicamente e concretamente, appunto questa nella chiesa e nelle chiese: ricordare le radici ultime di ogni forma di vita cristiana, vivendo la comunità propria di chi ha accolto la vocazione al celibato. Da cui un profondo scavare nelle radici bibliche, nella tradizione e nelle tradizioni, non alla ricerca di dogmi e schematizzazioni, ma di un continuo aggiornamento e ringiovanimento spirituale. Per questo Bose ha significato così tanto per così tante persone, e ha saputo parlare così profondamente ai loro cuori.

E vengo al punto sulle “due generazioni” (almeno) che si sono accostate a Bose, per ribadirne i tratti e rispondere a critiche o anche ad attacchi personali che ho subito formulando questa ipotesi.

Innanzitutto, come potrete notare, ho modificato quella parte del mio articolo Il dovere di non tacere che confondeva le nuove generazioni in senso anagrafico con le due generazioni cui alludevo. Ho ricevuto diversi messaggi molto intelligenti da novizi e novizie che hanno lasciato Bose negli ultimi dieci-dodici anni, che mi hanno fatto capire come tra di loro ci fossero molte persone profonde, che avevano colto per davvero lo spirito originario di Bose, ma che sentivano che la comunità non era più in grado, da un punto di vista umano, di vivere all’altezza di quello che aveva a lungo incarnato e predicato, e che aveva bisogno di rivedere molte cose al proprio interno.

Per contro, i commenti in particolare di Massimo Faggioli, il quale ha criticato, tra le altre cose, la mia sottolineatura del cristianesimo rispetto al cattolicesimo, mi hanno fatto capire come davvero, negli ultimi decenni, a Bose si siano avvicinate anche sensibilmente persone che non he hanno mai capito veramente lo spirito e che spingono per una sua “normalizzazione” da cui usciranno sconfitti in molti.

Bose, infatti, per certi versi è un unicum, non è il modello che tutti devono adottare, e ha mostrato evidenti lacune, in linea con le enormi difficoltà che ovunque si registrano laddove si cerca di fare vita comune in un mondo che anela alla comunità ma deve fare i conti con profonde e doverosissime revisioni degli ideali e delle forme comunitarie. Tutti a Bose sono chiamati a interrogarsi radicalmente sui loro fallimenti, e la comunità fondata da Enzo Bianchi in tal senso non è affatto immune da difetti o colpe anche importanti.

Ma i carismi che ho sottolineato, della centralità del vangelo e della fondamentale laicità del monachesimo, se verranno persi per strada, vorranno dire la fine della profezia di Bose. Chi vi rimane potrà certamente continuare a vivere seriamente il proprio discepolato di Cristo, perché nessuno può mai impedirci di farlo (neppure la chiesa!), ma in una struttura che ormai ha smarrito quel “fattore extra” che ne rappresentava l’anima.

Allora anche scegliere di parlare di Pasqua può diventare linguaggio stantio e clericale. La sofferenza non porta sempre luce e insegnamento: può semplicemente uccidere. Solo chi la vive in prima persona può chiamarla, con molte cautele, una croce da abbracciare. E solo Gesù Cristo può invitarci a prendere la croce: se lo facciamo noi al posto suo rivolgendoci ad altri, rischiamo di infliggere un colpo ancora più mortale a chi, già, dalla sofferenza può essere schiacciato.