Quando ci lascia un personaggio del calibro di Joseph Aloisius Ratzinger, perito conciliare, quindi arcivescovo di Monaco e Frisinga, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede per quasi venticinque anni e infine vescovo di Roma dal 2005 al 2013 col nome papale di Benedetto XVI, è sempre difficile scrivere senza cadere in panegirici (se si è d’accordo con le sue posizioni teologiche o si amano i papi a prescindere), in sviolinate di comodo (per posizioni da lucrare o molto semplicemente per mancanza di idee e capacità critica) o in risentimenti di vario genere (per le sue prese di posizione nei confronti di moltissimi teologi dalle idee diverse dalle sue, o per le sue mancate prese di posizione di fronte a casi talvolta molto gravi di abusi clericali).

Non credo sia utile in generale lasciarsi andare a questo genere di interventi, che peraltro hanno abbondato in questi giorni. Quello che però posso fare, da suo lettore attento e assiduo, è esprimere valutazioni di fondo sul pensiero di chi molto ha scritto e fatto per spiegare le proprie posizioni, sul suo significato per la comunità di cui è stato riferimento, nonché sul peso che un simile personaggio ha avuto anche su di me.

Prima di farlo, desidero avvisare i lettori e le lettrici che – pur non mancando di rispetto a nessuno – non solo non intendo lasciarmi andare a ipocrisie, ma che molto probabilmente leggendomi si imbatteranno in diverse considerazioni controcorrente non solo su Ratzinger, ma anche sul concilio Vaticano II e sulla chiesa cattolica.

Un ulteriore caveat è che, ovviamente, da persona che studia da una vita la storia della teologia cattolica e non solo, sono consapevole della complessità e della ricchezza del cattolicesimo. Quando perciò uso il termine cattolico so bene che tra coloro che appartengono alle chiese in comunione con Roma o che si ritengono “cattoliche” sussistono posizioni molto più variegate rispetto a quelle del magistero ufficiale della chiesa cattolica; detto ciò, credo che dottrinalmente il cattolicesimo ufficiale abbia palesato nei secoli – e soprattutto nel secondo millennio – un’evoluzione coerente, netta e unitaria che il Vaticano II non solo non ha contraddetto, ma che ha anzi pienamente confermato.

Vorrei dunque partire da ciò che Joseph Ratzinger ha rappresentato per me, motivo per il quale provo nei suoi confronti (senza alcuna ironia) una certa gratitudine, malgrado non possa dire di aver mai avuto una grande considerazione di lui (pur attingendo come tanti anche ad alcune sue riflessioni interessanti) e abbia anzi provato, come molti, una certa contrarietà verso la sua figura di uomo e di teologo.

Ratzinger è stato un campione del cattolicesimo romano, ovverosia uno strenuo difensore della sua evoluzione dottrinale lungo i secoli. Per questo ha (giustamente per certi versi, anche se mi ci è voluto parecchio tempo per capirlo) più volte combattuto contro quegli usi dei testi del Vaticano II che cercavano di far dire ai padri conciliari cose che mai avevano scritto e forse neppure pensato. Non lo dico con compiacimento: sebbene indubbiamente i toni del Concilio siano stati decisamente più positivi rispetto a quelli di ogni altra assise della chiesa cattolica in epoca moderna, e quantunque i padri conciliari abbiano compiuto alcune timide aperture su temi come l’incontro con il mondo, le altre chiese e le religioni non cristiane, dal punto di vista della visione della chiesa il Vaticano II non ha affatto portato i progressi che molti di noi si sono illusi avesse recato.

I testi sulla natura e la costituzione della chiesa promulgati dai padri conciliari hanno infatti ribadito e acuito – come ho argomentato altrove – la natura profondamente clericale e patriarcale della dottrina cattolica ufficiale, riconoscendo la pienezza dei cosiddetti tre uffici (insegnamento, santificazione e governo) ai soli ministri ordinati (maschi) della chiesa. Non solo, lungi dal prospettare una chiesa realmente sinodale, hanno semplicemente mitigato la sovranità assoluta riconosciuta al romano pontefice dal Vaticano I affiancandovi la sovranità (de facto altrettanto assoluta sui fedeli e subordinata solo al papa) dei vescovi locali.

Il Vaticano II, sebbene al di là dei suoi pronunciamenti sia stato accompagnato da una lunga stagione di speranza (o di illusione, a seconda dei punti di vista, e che comunque ha portato forse più frutti al di fuori della chiesa di Roma che non al suo interno) che ha coinvolto in buona fede tantissimi fedeli cattolici e non solo, lungi dal rappresentare una rivoluzione o un’inversione di tendenza, dal punto di vista della dottrina cattolica non ha fatto che aggiungere un ulteriore tassello alla traiettoria fondamentale che regge lo sviluppo storico del cattolicesimo romano: il bisogno di trovare certezze riguardo alle “verità” fondamentali sulla fede e la morale tramite la mediazione della (struttura gerarchica della) chiesa stessa.

Perché uno dei capisaldi – sicuramente quello distintivo – della teologia cattolica è che la sola Scrittura e la sola coscienza individuale non sono sufficienti a raggiungere una retta interpretazione di Gesù Cristo e del suo Vangelo. Solo con la mediazione della chiesa è possibile attingere a quella/e “verità che Dio ci ha voluto insegnare per la nostra salvezza”. E tale caposaldo è stato costantemente rafforzato mettendo, tra le altre cose, prima il romano pontefice al di sopra di qualsiasi concilio (pur sempre composto da maschi ordinati), e quindi qualsiasi ministro ordinato al di sopra degli altri battezzati.

Joseph Ratzinger ha instancabilmente applicato questi principi del cattolicesimo, palesando intransigenza dottrinale verso qualsiasi forma di cristianesimo non cattolico e affermando – tra le altre cose – la non ortodossia di qualsiasi morale fondata sull’autonomia della coscienza rispetto alle morali fondate sull’eteronomia. Così facendo, ha ribadito il costante no della chiesa cattolica a uno dei pilastri del pensiero moderno.

Tutte queste cose, Ratzinger/Benedetto XVI le ha fatte con assoluta coerenza, per tutta la vita, diventando così il paladino di tutti coloro che ritengono che la piena verità la detenga solamente la chiesa, e al suo interno in particolare l’ordine clericale, secondo una visione capace di sopravvivere fino ad oggi non solo all’attacco dell’antropocentrismo e dell’a-teismo moderni, ma anche di ergersi a segno di speranza al vacillare dei fondamenti stessi dell’Illuminismo, in primis della forza della ragione umana.

Perché dunque gli sono grato? Non certo perché ritenga la soluzione di cui è stato l’araldo e il campione quella realmente da percorrere o percorribile, ma perché proprio la sua ostinazione mi ha aiutato a indirizzarmi – con molta pace e senza rancore alcuno – intellettualmente al di fuori dell’alveo del cattolicesimo, verso modalità diverse di essere cristiano, senza alcuna nozione assoluta di verità, e ancor meno con certezze inoppugnabili riguardo al modo di attingere il vero volto del Nazareno.

Detto ciò che ha rappresentato per me – ovverosia una sorta di specchio molto nitido di ciò che non ritengo di poter abbracciare – vorrei aggiungere qualche considerazione sul suo significato per la sua comunità globale di riferimento.

Joseph Ratzinger è stato in tal senso una figura totalmente esemplare di cattolico non disposto a compiere alcun compromesso dottrinale. Così facendo ha consolidato (almeno esternamente) un edificio che, per sua natura, non può permettersi più di tanto di vacillare: quello della “religione statica”, per dirla con Bergson, ovverosia la componente rigida (in questo caso del cattolicesimo) che da un lato consente la trasmissione nel tempo di un’esperienza religiosa, e al tempo stesso rischia costantemente di soffocarne tramite la sua rigidità la componente più vitale, quella “religione dinamica” (si potrebbe dire anche “lo s/Spirito”) che nessuno può realmente controllare ma  che come ogni realtà vivente e vitale continua a evolvere e a muoversi, rompendo argini e anelando a un oltre.

Certo, nella chiesa cattolica ci sono oggi non pochi fedeli che non condividono questo modo di pensare (anche se ho l’impressione che i “dissenzienti” siano in calo). E in ogni chiesa ci sono ormai, in epoca moderna, credenti che pur senza abbandonare il luogo in cui sono soliti condividere il loro cammino di discepole e discepoli del Nazareno, non si riconoscono nella rigidità delle dottrine imperanti, talvolta anche da secoli. Ma se siamo onesti, tutta la storia della chiesa è stata un succedersi di inevitabili tensioni tra religione statica e dinamica, che hanno portato molto più spesso a ulteriori divisioni che non a nuove convergenze.

Tensioni di questo genere si manifestano con particolare forza quando mutano i paradigmi di fondo della cultura e della società. E le chiese cristiane hanno dovuto fare i conti con tutto ciò in maniera molto evidente – senza giungere a soluzioni pienamente soddisfacenti fino ad oggi – a partire dalla rivoluzione copernicana che ha posto al centro la ragione e l’autonomia della coscienza umana.

Il cattolicesimo di cui Ratzinger è stato un rappresentante modello è quello che, in fin dei conti, non ha accettato il mutamento di paradigma moderno. Quanto potrà reggere alla prova del tempo non sta a me dirlo: sicuramente, però, è una visione coerente e onnicomprensiva, che sempre trova persone disposte nella storia a sposarla in quanto alla ricerca di qualche certezza indiscutibile. Del resto, non è solo nella religione che oggi si cercano certezze su cui rifiutarsi ostinatamente di discutere… Inoltre, è un sistema di pensiero che ben si sposa alla enorme struttura di potere di cui la chiesa cattolica si è dotata nei secoli.

Infine, a essere proprio onesti, non è certo l’alternativa offerta dall’attuale vescovo di Roma – che non ha apportato alcuna modifica di rilievo sul piano dottrinale ma si è limitato ad appelli generici alla conversione morale dei singoli – a essere perseguibile realmente né da un cattolico tradizionale, né da chi si ritiene “progressista” e vorrebbe vedere scardinata la struttura profondamente clericale e patriarcale della chiesa di Roma. Anzi, l’incertezza generata da aperture solo presunte non fa che rafforzare la posizione di chi ha visto in Benedetto XVI la guida giusta per il cattolicesimo (anti-)moderno, come sono certo si paleserà al momento dell’elezione del prossimo pontefice.

Sebbene abbia chiarito di non poter accogliere un cattolicesimo come quello ratzingeriano (e più in generale il cattolicesimo romano nella sua evoluzione storico-dogmatica), non vorrei però che quanto ho scritto suonasse solo come una lode alla (coerenza della) teologia (e non solo) di papa Benedetto.

Vi è infatti un aspetto cruciale del suo pensiero che trovo del tutto inaccettabile, ovverosia l’idea non solo che esista una verità in qualche modo monolitica, detenuta in maniera sicura solamente dalla (gerarchia della) chiesa cattolica, ma che per di più tale verità possa essere espressa in maniera totalmente univoca, in un linguaggio e formule universali accoglibili da ogni epoca e cultura.

Una simile visione della verità è totalitaria, e in fin dei conti violenta, in quanto nega di fatto la libertà di ricerca dei singoli e delle diverse comunità di fede e di pensiero. Nega la differenza e le differenze. E non a caso ha portato Ratzinger a comportamenti che è difficile non ritenere persecutori (visto il potere che deteneva) nei confronti di molti, troppo pensatori cattolici. Ho conosciuto di persona  alcune teologhe e teologi a cui non solo è stato vietato l’insegnamento, ma che hanno perso ogni status sociale e talvolta anche il sostentamento. Senza alcuna umana pietà, potrei aggiungere…

Joseph Ratzinger non è stato un uomo di dialogo, salvo che per dialogo non si intenda – un po’ come nel cattolicesimo pre-Vaticano II, secondo stili che purtroppo sembrano riaffiorare, anche a causa del crescente analfabetismo religioso… – la paziente opera di convinzione affinché chi ha idee diverse dalle nostre non finisca per darci ragione. Egli ha cercato per tutta la vita di definire in maniera (più o meno) rigorosa un sistema di pensiero in dialogo unicamente con le fonti antiche e il magistero ufficiale cattolico. Molto poco con i suoi contemporanei. Per nulla con la cultura moderna, ritenuta la fonte di pressoché ogni errore sia in ambito filosofico sia teologico.

Non sono in grado di esprimere alcun giudizio morale specifico su Josef Aloisius Ratzinger. Temo però che l’unione della sua visione della chiesa come necessaria mediatrice della verità e della salvezza, e della verità come qualcosa di monolitico, univoco e non negoziabile linguisticamente, sia alla radice delle due più grandi ombre che gravano sulla sua lunga attività pastorale: il modo di trattare teologi e pensatori cristiani da un lato (che è costato alla chiesa cattolica un sostanziale e profondo inaridimento della creatività teologica negli ultimi quarant’anni), e le sue esitazioni di fronte alla necessità di affidare alla giustizia i membri del clero colpevoli di abusi di vario genere (che, in radice, sono tutti abusi di potere).

Se non possiamo giudicare, possiamo quanto meno riflettere e imparare. Sia che riteniamo il cattolicesimo casa nostra, sia molto semplicemente che ne riconosciamo – come il sottoscritto – il perdurante ruolo nella storia del cristianesimo e delle nostre società (quanto meno come una delle principali forme di cristianesimo realizzate nella storia), e dunque lo vorremmo se non fortemente evangelico, quanto meno non generatore di comportamenti molto difficilmente compatibili sia con il vangelo sia con la morale umana.