In questo contributo “fuori serie” (nel senso che non segue la trama annunciata in quelli precedenti) apparso su Rocca 9/2022, rifletto su come l’esperienza monastica del lavoro possa aiutare tutti, sia credenti sia non credenti, a ripensare il significato, le funzioni e le modalità di esercizio del lavoro umano.

Come ho cercato e continuerò a cercare di mostrare in questa serie di contributi iniziata in gennaio, il monachesimo / vita religiosa è un fenomeno sì universale, ma non per questo totalmente omogeneo o descrivibile in termini rigorosamente normativi o prescrittivi. Proprio il tema del rapporto tra vita monastica e lavoro, nonché del significato del secondo per la prima, evidenzia infatti come molto dipenda da altri fattori fondamentali, a partire dal tipo di religione e di religiosità in cui l’esperienza monastica prende forma e vita.

Laddove l’esperienza religiosa o filosofica è sostanzialmente dualista, ovverosia separa in maniera piuttosto netta corpo e anima, materia e spirito (ritenendo le seconde componenti di queste diadi “migliori” o più elevate rispetto alle prime), il lavoro – soprattutto quello manuale – tende a essere ritenuto meno importante rispetto ad altre attività umane maggiormente immateriali o spirituali, o quanto meno subordinato ad esse. Per contro, nelle religiosità o filosofie “moniste”, in cui si ritiene che tutto derivi da un unico principio manifestazione di un’unica natura, il lavoro materiale e fisico riceve solitamente un apprezzamento decisamente maggiore. Nel cristianesimo – o almeno in taluni suoi filoni – le cose sono ulteriormente complicate a seconda di quanto si ritenga che il peccato abbia alterato la natura stessa del lavoro umano.

Nelle sue origini più remote e precristiane, il monachesimo sorse come tendenza alla separazione dalla civiltà, alla ricerca di principi fondamentali di trasformazione intima della persona e di armonia con la natura. Fu probabilmente il giainismo la prima religione a introdurre l’idea di un monachesimo come vero e proprio “genere” separato di esseri umani (i sādhu e le sādhvī), specializzati nella meditazione, in un’ascesi rigorosa e a cui venivano richieste rinunce di vario genere. In una visione come quella giainista, in cui la società è una sorta di corpo organico con varie specializzazioni, sono solo i laici (gli śrāvaka e le śrāvikā) a dover lavorare anche per i religiosi, che hanno il compito di studiare a beneficio di tutti le vie della salvezza, che è e resta una liberazione individuale dal karma (ossia l’agire per conseguire un fine che vincola alle conseguenze morali che ne derivano) e dal ciclo delle rinascite.

Nelle varie tradizioni buddhiste figurano diversi elementi comuni con il giainismo e i monaci sono definiti “mendicanti” (bhiksu in sancrito, bhikkhu in pāli) in alcune lingue asiatiche, a sottolineare come non debbano affannarsi per guadagnarsi da vivere e debbano invece concentrarsi sullo studio e l’ascesi. Non di meno nel buddhismo non solo il lavoro non è proibito o limitato ai monaci, ma esistono ampie testimonianze nella storia di intere cittadelle (o addirittura stati!) monastici fioriti proprio grazie alla notevole intraprendenza “materiale” di monaci e monache. Inoltre, più che l’idea di una separazione nel “corpo organico” dell’umanità fra monaci e laici, nel mondo buddhista vige l’idea che il monachesimo sia un cammino che non va semplicemente delegato ad alcuni o ad alcune, ma è anzi di enorme beneficio per tutti anche se intrapreso in maniera temporanea o a tempo “determinato”. E gli stessi voti monastici non hanno quel senso di eternità che viene loro riconosciuto in altre religioni. Infine, un elemento importante che emerge probabilmente per la prima volta nel monachesimo buddhista è l’idea che il lavoro sia importante per aiutare gli esseri umani a superare le loro tendenze egocentriche, unendoli ad altri nella realizzazione di imprese comuni.

Tradizionalmente, come sappiamo, le origini del monachesimo cristiano vengono fatte risalire ai padri del deserto, e in particolare ad Antonio l’Egiziano (251-356 d.C.). Nel primo dei suoi detti, egli dice di aver chiesto a Dio di mostrargli come salvarsi dai propri pensieri (che nel vocabolario dei padri e delle madri del deserto sono l’ispirazione di ogni azione malvagia negli esseri umani). In risposta, riceve una visione in cui c’è un uomo come lui seduto a lavorare, che quindi si alza per pregare, torna a sedersi e a intrecciare la propria corda, quindi si rialza nuovamente per pregare. Si tratta di un racconto emblematico di una grande intuizione del monachesimo cristiano, che sarà ripresa da Benedetto da Norcia e diverrà famosa nell’espressione Ora et labora con cui l’intera tradizione monastica (non solo occidentale) riassumerà l’equilibrio fondamentale che viene conferito da una compresenza nella vita di monaci e monache di elementi di attività manuale e interiore o mentale.

Ciò nonostante, l’intera storia monastica è l’esempio di come non esista un unico modo di tenere insieme preghiera e lavoro manuale. La prima infatti, è considerata nelle fonti antiche l’opera (érgon) per eccellenza, mentre il secondo è un párergon, un’occupazione ancillare, secondaria, accessoria. Perché nel monachesimo cristiano la tensione fondamentale è verso l’attesa di Dio e del suo Regno, ottimamente sintetizzata dal detto medievale di san Romualdo, fondatore dei Camaldolesi, che così si rivolge ai propri fratelli monaci: “Sedete nella vostra cella come un pulcino, contento solo della grazia di Dio e incapace, se non è la madre stessa a donargli il nutrimento, di sentire il sapore del cibo o di procurarsene”. Esisteranno dunque sempre tendenze nel monachesimo cristiano a privilegiare lavori che consentono una minore distrazione rispetto ad altre dalla tensione escatologica verso il Regno.

Accanto a queste sfumature, e in virtù di un’esegesi sostanzialmente errata del passo evangelico di Maria e di Marta, la vita religiosa è spesso caduta nella tentazione di considerare il lavoro manuale (la vita “attiva”) meno importante di quello spirituale (la vita “contemplativa”). E ciò nonostante il chiarissimo monito di san Benedetto, il quale dice nella sua Regola che coloro che vivono nel monastero “sono veramente monaci se vivono del lavoro delle loro mani”, rigettando di fatto l’idea di una divisione netta tra mondo monastico e mondo laicale. Analogamente, nel monachesimo orientale sono moltissime le storie in cui si condanna l’atteggiamento di quelle religiose e quei religiosi che vorrebbero vivere di sola preghiera, sia per motivi pratici (come potrebbero vivere senza lavorare?) sia per ragioni evangeliche (Gesù Cristo non ha mai avallato con i suoi gesti e le sue parole uno svilimento del lavoro umano).

Infine è san Basilio, tra i principali sostenitori e promotori della vita in comunità, a sottolineare un altro aspetto fondamentale del lavoro monastico: monache e monaci devono lavorare perché così facendo si è solidali con il prossimo, si partecipa a una costruzione comune, si rende possibile un esercizio dell’accoglienza, della cura per il prossimo e della carità altrimenti molto più limitato o addirittura impossibile.

Ecco allora che i monasteri, che sorgono normalmente in luoghi addossati al deserto, in disparte, possono diventare in ogni epoca delle vere e proprie cittadelle in cui testimoniare l’altrimenti del Regno nella carità fraterna e nell’apertura a ospiti, viandanti e pellegrini. In tutto ciò il lavoro non viene necessariamente né smentito, né sminuito, né negato nella sua dignità e importanza fondamentale per gli esseri umani. Ma viene ricollocato in una luce diversa, più “essenziale”, come risposta ai bisogni fondamentali, come spazio di esercizio della creatività e di produzione di bellezza, come occasione di sin-ergia, di collaborazione, di esplorazione della difficile arte della vita comune, che pur essendo molto impegnativa (e fortemente in crisi) è anche l’occasione per testimoniare che la salvezza, l’altrimenti non sono nel cristianesimo (e in molte altre religioni!) un puro fatto individuale, ma un’opera che ci vede tutti in qualche misura interdipendenti.