Questo terzo contributo, pubblicato nel numero 13/2021 di Rocca, è lo sviluppo dei due precedenti dedicati a Voglia di comunità e a Ripensare le comunità per salvare l’alterità. In esso inizio a entrare nello specifico delle comunità di matrice religiosa.

Come abbiamo visto nei contributi precedenti sul tema della comunità, viviamo in un mondo in cui la rete ci ha posti “insieme ma soli”, secondo il titolo di un saggio della sociologa di Harvard Sherry Turkle, ossia in cui i legami sociali si sfaldano malgrado lo sviluppo notevole di legami a distanza, virtuali. Al tempo stesso riaffiora in noi una “nostalgia di comunità” che non è mai possibile sopire del tutto, anche perché il convergere degli esseri umani in un gruppo stabile diventa spesso latore di senso e di trasformazione per molti, in modi che superano sia in ampiezza sia in profondità qualsiasi sforzo anche degli individui più illuminati. E infine le comunità territoriali, in cui uomini e donne si vincolano in maniera non dipendente unicamente da gusti o stati d’animo, paiono essere il luogo fondamentale in cui salvaguardare una comunicazione reale con l’altro, a prescindere da quanto ci somigli o sia in sintonia con noi. In tal senso solo tali comunità paiono essere luoghi di un’umanità non obliterata, ricca di tutte le sue armoniche.

In questo contesto, come si collocano le comunità di matrice religiosa, come parrocchie, monasteri, centri di spiritualità, e così via? Riescono realmente ad andare incontro, in maniera stabile, alle esigenze che ho citato? Sono realtà del passato o hanno un futuro? Sono forza di trasformazione o di pura resistenza ai cambiamenti sociali? Sono realtà capaci di rispettare la donna e l’uomo moderni, per i quali la libertà, l’autonomia della coscienza, la possibilità di esprimersi in maniere inesplorate sono imprescindibili?

In un passo molto noto de Le due fonti della morale e della religione, il filosofo francese Henri Bergson ha scritto:

Società chiusa è quella in cui prevalgono le forze di conservazione, in cui l’individuo è subordinato all’insieme, in cui i membri sono collegati solo in virtù di forze naturali. Società aperta è quella in cui prevalgono le forze di crescita, in cui l’individuo è libero nella sua capacità inventiva, in cui i membri sono collegati da una forza spirituale.

Per andare a fondo delle domande che ci siamo posti, con l’ausilio di queste affermazioni di Bergson, sono necessarie alcune precisazioni. Natura e spirito non sono infatti per il filosofo parigino l’equivalente di pensiero laico e pensiero religioso. La prima (la natura) è anzi la fonte di una forma ben precisa di religione, che egli definisce “statica”, la quale è una reazione difensiva degli esseri umani contro il potere disgregante dell’intelligenza, che di per sé tenderebbe all’individualismo e al cambiamento. Gli esseri umani costruiscono costantemente forme di religione statica, con tanto di regole e di culti, per proteggersi dalla paura della morte, quasi per congelare la realtà in modo rassicurante. Una simile religione è inoltre naturale in quanto non è mai del tutto eliminabile.

Il secondo (lo spirito) è la fonte di quella che invece Bergson definisce una religione “dinamica”, che segue lo slancio inarrestabile della vita, che produce cambiamento e trasformazione e va ben oltre i nostri limiti e la nostra morte. Il problema, però, è che la religione dinamica ha bisogno, per comunicare le sue esigenze di sperimentazione e di esplorazione di sempre nuove realtà, di un quadro statico, di una religione statica, che tuttavia la depotenzia. Mi prendo perciò la libertà di utilizzare queste distinzioni tra società chiusa e società aperta, tra religione statica e dinamica, per iniziare a parlare della natura e dei problemi delle comunità religiose, di come ravvivarle e rinnovarle e, in alcuni casi, ripensarle radicalmente.

Appartengono probabilmente all’ambito delle “comunità chiuse”, della religione statica, tutti i tentativi di cristallizzare la vita di una comunità religiosa in norme, regole, statuti il più possibile chiari, nonché di dotarsi di autorità con cui compaginare i membri del corpo comunitario, dirimere conflitti, stabilire limiti tra interno ed esterno. Molte di queste cose sorgono normalmente non agli inizi di un’esperienza vissuta, bensì a seguito di cambiamenti e crisi che portano a definire l’identità. E sottolineo entrambi i termini: “definire” e “identità”. Definire significa infatti limitare, mentre identità può voler dire immutabilità, uguaglianza a se stessi.

Tutto ciò con cui “definiamo l’identità” diventa da un lato un termine di confronto, uno specchio, uno strumento in qualche misura necessario perché sussista una creazione comune e protratta nel tempo. Ma dall’altro può portare a subordinare la vita dei singoli e dello stesso corpo comunitario a qualcosa che, poco per volta, non solo può non riuscire più a promuovere crescita e creatività sia singole sia comunitarie, ma rischia di contribuire addirittura a ingabbiare e soffocare la vita dello spirito o, in termini più semplicemente biologici, la vita tout court. La vita, infatti, non è mai uguale a se stessa ma evolve costantemente e non può mai essere catturata in maniera “definitiva”.

Alla religione dinamica appartengono per contro le dimensioni spirituali dell’essere umano, come ad esempio le virtù dianoetiche di Aristotele: l’arte, la scienza, la saggezza pratica, l’intelletto e la sapienza. Ognuna di queste “forze” umane amplia gli orizzonti, porta ad adattarsi, crescere e cambiare. Con san Paolo potremmo dire che la religione dinamica vivifica, quella statica uccide. Eppure sono destinate in qualche modo a convivere in qualsiasi comunità religiosa e non ci può essere trasmissione dello spirito senza l’involucro di qualche forma. Che fare, allora?

L’eterno dilemma tra componente carismatica e componente istituzionale di qualsiasi forma di vita religiosa, in fin dei conti, ruota attorno a queste dimensioni. L’esperienza religiosa più profonda, in radice, è sempre spirituale, carismatica, in un certo senso individuale (sebbene in molti possano sentirsi posti in comunione da essa e dunque possano avvertirla come universale). Ma la componente statica è per contro necessaria. Senza di essa, infatti, è difficile trasmettere un’esperienza spirituale da una generazione all’altra. Soprattutto, però, le componenti statiche come la codificazione di regole o l’intervento dell’autorità (ovverosia della forza di chi è “altro”) possono talvolta rivelarsi fondamentali per proteggere la stessa libertà del singolo, la sua possibilità di vivere un’esperienza spirituale paradossalmente libera, non “definita”.

Ciò che diventa cruciale, allora, non è tanto definire strutture, norme e funzioni ideali dell’autorità in seno alle nostre comunità, ma fare in modo che sia sempre possibile fare spazio allo spirito che ha dato origine alla lettera, accettando che la lettera venga costantemente superata perché ha svolto la sua funzione di fragilissimo e umanissimo vettore dello spirito. Detto altrimenti, risalire alle ragioni spirituali più profonde contenute e tuttavia mai esaurite da qualsiasi nostro scritto, norma o tradizione religiosa.

Lo capì molto bene il cardinale Michele Pellegrino, che lottò con ogni mezzo lecito perché Paolo VI rinunciasse all’idea di una Lex Ecclesiae Fundamentalis, ovverosia una carta costituzionale della chiesa, nel nome dell’unico principio vitale e generativo di qualsiasi comunità cristiana: il vangelo. Con ciò Pellegrino non intendeva rimandare semplicemente alle Scritture, bensì alla loro interpretazione nello S/spirito con cui è sempre possibile, a ogni generazione di cristiani, risalire al principio generatore di ogni vita umana e ogni comunione e comunità cristiana.

E lo capì anche un altro grande uomo del XX secolo, il patriarca Ignazio IV di Antiochia, con le cui parole concludo questo contributo:

Senza lo Spirito,

Dio è un essere distante,

Cristo è un personaggio del passato,

il vangelo è lettera morta,

la chiesa è una semplice organizzazione,

l’autorità è dominio,

la missione è propaganda,

il culto è evocazione,

l’agire cristiano è una morale da schiavi.

***

Ma con lo Spirito e nello Spirito,

l’universo è innalzato e supplica l’avvento del Regno,

la presenza di Cristo risorto si fa riconoscibile,

il vangelo si fa vita e potenza,

la chiesa significa comunione trinitaria,

l’autorità è un servizio liberante,

la missione una Pentecoste,

la liturgia memoriale e anticipazione del mistero,

l’agire umano è divinizzato.