Solo un processo completo ed equo potrà aiutare sia la chiesa sia la società e rendere giustizia a tutti i monaci e le monache di Bose, che hanno tutti dato tantissimo sia alla chiesa sia alla società civile. Processo che può essere canonico o secondo l’ordinamento italiano, in forma di arbitrato o di vero e proprio procedimento con tutti i crismi del caso. Ma pubblico, alla luce del sole.

L’invenzione di Internet ha recato un’ampia gamma di benefici, ma probabilmente altrettanti problemi al nostro modo di fare informazione. Purtroppo ci accorgiamo per davvero dei secondi soprattutto quando vediamo la rete alle prese con vicende che ci sono molto care, su cui abbiamo informazioni di prima mano, o che toccano argomenti su cui riflettiamo da anni e che richiedono attenzione e profondità. La rete fa leva su emozioni che spesso non aiuta a smascherare o nei confronti delle quali difficilmente ci rende vigili, e pur essendo possibile abitarla e navigarla con logiche altre, di riflessione, virtuose, la polarizzazione a cui dà luogo (ancor più sui temi caldi) può renderci ciechi di fronte alla vera sostanza dei problemi.

Una delle cose che mi hanno più stupito in questi travagliatissimi dieci mesi pubblici del cosiddetto “affare Bose”, è la qualità pessima del giornalismo italiano, compreso quello di matrice cattolica, ovviamente con sporadiche e lodevolissime eccezioni. Come tutti, infatti, nel giro di una settimana dalla fatidica data del Decreto singolare che ha reso nota al pubblico la situazione interna alla comunità fondata da Enzo Bianchi senza tuttavia spiegarla, ho iniziato a parlare con discrezione con giornalisti e teologi che ritenevo vicini a Bose per capire, rimanendo subito stupito al vedere che la maggior parte di loro, pur ammettendo di non avere avuto accesso a nessun documento, aveva già deciso per chi schierarsi, da una parte o dall’altra (soprattutto contro Bianchi, ma con diverse eccezioni).

In tutti questi mesi ho visto fluire da penne allenate o improvvisate articoli e analisi sulla stampa soprattutto cattolica, che palesavano innanzitutto la pressoché totale assenza di ricerche documentali a monte, nonchè il puro fare affidamento su conversazioni private con questo o quel monaco o monaca (nel migliore dei casi) o soprattutto con “persone vicine alla comunità o a Bianchi che sanno molte cose…”. La cosa che però più mi ha colpito, è la sostanziale acritica difesa del modus operandi della Santa Sede, dal delegato pontificio a risalire fino al papa. E vorrei spiegarmi, pacatamente ma molto fermamente. Fate uno sforzo sincero, ancorchè difficile, di dimenticare per un attimo voci, illazioni, sensazioni, convinzioni personali, per concentrare l’attenzione su alcuni fatti cruciali.

Il 13 maggio del 2020 è stato emesso dal Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, il Decreto singolare “Provvedimenti per la Comunità Monastica di Bose” protocollato con il numero 490.149, contenente alcuni articoli generali e 4 sezioni di provvedimenti ad personam, indirizzati a tre fratelli e una sorella di Bose, che ne prevedevano l’allontanamento per almeno 5 anni in tre casi e a tempo indeterminato nel caso di Enzo Bianchi. Tale Decreto è stato “approvato in forma specifica” dal papa, cosa che lo rende immediatamente esecutivo e inappellabile. Si tratta di un caso estremo di applicazione del primato papale sancito a partire dal concilio Vaticano I mediante la costituzione dogmatica Pastor Aeternus, che definiva altresì l’infallibilità pontificale, e recepito nel diritto canonico cattolico. Tornerò più avanti su questo, limitandomi per ora a far notare come gli ultimi predecessori di Francesco non abbiano quasi mai fatto ricorso ad atti di tal genere, soprattutto per provvedimenti “ad personam”, mentre l’attuale papa sembra incline a utilizzarli.

Sempre attenendoci ai fatti, tale Decreto è stato emesso non al termine di un processo canonico, né a seguito dell’insorgere di condanne (e neppure di procedimenti in corso) personali in ambito civile o penale di nessuno di coloro che da esso sono stati raggiunti. È stato emesso a seguito di una visita canonica disposta dalla Segreteria di Stato, in base unicamente alla relazione dei visitatori, senza alcun processo canonico e nessuna previa comunicazione di capi di accusa con relativa richiesta di spiegazione agli imputati, né formale né informale.

Le implicazioni di tale decreto hanno peraltro una portata chiaramente di natura civilistica sui cittadini italiani che ne sono stati colpiti: allontamento dal loro luogo di dimora, di cui sono comproprietari, privazione del diritto di associazione, e probabilmente altre cose ancora. Per chi ancora non lo sapesse nel 2021, nessun provvedimento canonico può avere valenza civilistica se non è recepito da un tribunale italiano, che mai potrà provvedere a farlo se i decreti canonici sono stati emessi senza le garanzie previste dall’ordinamento italiano e dalle varie convenzioni sui diritti umani a cui l’Italia (ma ahimè, non il Vaticano) aderisce e che non sono in alcuna misura sospese dal regime concordatario. Questo non è anticlericalismo, ma un fatto assodato (e di civiltà).

A distanza di dieci mesi, nessun nuovo elemento di natura giuridica è per ora insorto: nessuna denuncia, nessun procedimento, nessuna querela. Per contro in rete pullulano illazioni e volgarità di ogni genere sugli “imputati” (grazie a Dio pressochè assenti dai commenti al mio blog e alla mia pagina pubblica su Facebook, e ve ne sono enormemente grato). Se questo è per certi versi fisiologico su Internet, chiunque abbia un minimo di spirito evangelico dovrebbe guardarsi molto bene dall’avallare logiche calunniose e senza alcun sostegno documentale certo e acclarato (anche solo tramite la condivisione in rete di articoli o documenti che lo fanno, non importa se pubblicati da autorevoli testate “cattoliche”).

Quello che come cristiano mi preoccupa maggiormente, però, è il ricorso a mio parere molto acritico alla parola “obbedienza”, come già ho accennato altrove nel mio articolo sull’autorità religiosa, per invitare Bianchi ad allinearsi agli altri tre membri della sua comunità allontanati dal Decreto singolare (i quali avrebbero “obbedito” prontamente).

Innanzitutto l’obbedienza, nel cristianesimo, la si deve a Dio e non agli esseri umani. E anche nel cattolicesimo, che pure ha strutture di mediazione dell’autorità forti che altre confessioni cristiane ritengono irricevibili, le autorità della chiesa non sono assolute. Da un lato, infatti, sia il concilio Vaticano II sia il Catechismo della Chiesa Cattolica riconoscono che nessuno può essere costretto a obbedire contro la propria coscienza, che “è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria”. L’obbedienza alla propria coscienza, anche contro un ordine del papa, non pone fuori della chiesa, come qualcuno ha scritto in maniera totalmente falsa e tendenziosa, ma espone molto semplicemente a delle sanzioni canoniche. L’obiezione di coscienza non è mai stata un peccato nella chiesa!

In secondo luogo, né l’infallibilità né il primato pongono un papa, perfino nel cattolicesimo, al di sopra del vangelo (pare strano doverlo ricordare nel XXI secolo…), e proprio perché un papa, nel nome del primato, può esprimere un giudizio inappellabile per dei cattolici, è fondamentale che i passi che precedono una simile parola “decisiva” siano ampi, umani, evangelici e ragionevoli, e fanno dei decreti singolari un’extrema ratio a cui ricorrere quando ogni altro mezzo ordinario ha fallito. Nel caso in questione, ritenere che qualche giorno di colloquio dei visitatori apostolici rappresenti “ogni passo possibile” compiuto per la comprensione, il giudizio e la riconciliazione, è qualcosa che credo si commenti da sé, a prescindere totalmente dall’eventuale colpevolezza delle persone raggiunte dal Decreto. Personalmente trovo inoltre fuori luogo che chiunque esponga oggi osservazioni di questo genere sia accusato di “lesa maestà” nei confronti di un pontefice dalla stampa cattolica, ed è semplicemente incredibile che in un paese “laico” come l’Italia viga un tale culto del papa da mettere alla gogna in senso mediatico chiunque dissenta dai suoi giudizi.

Inoltre, quando vicende di questo genere insorgono in ambito civile, i documenti sono pubblici. In ambito ecclesiastico, è per contro ritenuto normale (?) non poter presenziare a processi o accedere agli atti processuali, e già questo è un problema di civiltà di notevole portata. Ebbene, tutti possono vedere a cosa abbiano portato mesi e mesi di “segretezza”, di mezze rivelazioni da una parte e dall’altra. Non credo che sia né uno spettacolo civile né degno della chiesa di Gesù Cristo, ma non ritengo neppure che sia colpa unicamente dei monaci e delle monache di Bose!

Allora scopro le mie carte. Mi sono espresso altrove sui contenuti concreti a me noti della vicenda Bose, esponendo con libertà, franchezza e senso di responsabilità la mia interpretazione dei documenti che sono riuscito a ottenere. Non pretendo di essere né giudice ultimo né latore di verità incrollabili in proposito. Ho dato consigli personali a quei fratelli e quelle sorelle che me li hanno chiesti. Qui, però, vorrei invitare la chiesa tutta ad aprire gli occhi, e con essa la società civile.

Solo un processo completo ed equo potrà aiutare sia la chiesa sia la società e rendere giustizia a tutti i monaci e le monache di Bose, che hanno tutti dato tantissimo sia alla chiesa sia alla società civile. Processo che può essere canonico o secondo l’ordinamento italiano, in forma di arbitrato o di vero e proprio procedimento con tutti i crismi del caso. Ma pubblico, alla luce del sole. E questo lo dico nutrendo almeno due certezze.

La prima è che i diritti umani esistono per motivi ben precisi, e solo rispettandoli fino in fondo si può accedere alla verità, senza condizionamenti di alcun genere. E la seconda è che in ambito cristiano non c’è mai nulla da temere, nessun segreto da nascondere: solo laddove emergono con chiarezza colpe e responsabilità diventano possibili la conversione, la riconciliazione e il perdono.

Prima di allora, ogni invito all’obbedienza è soltanto o tifo da Internet, o frutto dell’adozione acritica di teologie cieche e inutili, o una scorciatoia che lascia troppe ombre. In fin dei conti, è logica diabolica, nel senso letterale del termine: non perché ispirata a figure archetipe del male, ma perché genera divisioni insanabili e irriconciliabili. Ed è una controtestimonianza che nessuna bella predica o discorso può far dimenticare, perché nel cristianesimo non sono le cadute a essere un problema, ma l’accettazione della tenebra che non consente alla luce di Dio di aiutarci a sollevarci e riprendere il cammino.