Volge ormai al termine un anno che ha messo tutti noi a dura prova. Ad alcuni (non tutti, purtroppo, hanno avuto questa possibilità o un simile lusso) ciò ha consentito di avere tempo non solo per sopravvivere, ma anche per (ri-)pensare i fondamenti, le priorità, il senso del nostro esistere. “Andrà tutto bene”, “non saremo più quelli di prima”, “non è cambiato proprio nulla”, sono alcuni dei ritornelli che abbiamo ascoltato e letto migliaia di volte negli ultimi dodici mesi.

In stagioni come questa cerchiamo tutti delle parole-guida, direi quasi degli slogan, dei frammenti di verità, come è normale, e la rete amplifica la risonanza di alcune scelte “azzeccate”, ovverosia capaci di catturare l’immaginazione della gran parte di noi, a prescindere da quanto siano davvero pertinenti, profonde o fondate.

In cima alla lista, probabilmente, figura il termine “resilienza”, in realtà molto di moda da qualche anno (non molti, peraltro) a questa parte, in Italia ma non solo. Quasi nessun gruppo organizzato di persone ha rinunciato a includerlo nei titoli di qualche convegno, pubblicazione, incontro. Sono nate addirittura “scuole di resilienza”.

Il termine, come è noto, proviene dagli studi sulla tecnologia dei materiali, e ne definisce la capacità di resistere a rotture dovute a sollecitazioni dinamiche, determinate con apposite prove d’urto. Da cui il suo utilizzo in psicologia per descrivere la capacità umana di resistere a traumi, difficoltà, limitazioni dolorose.

In tempi di grandi prove è naturale volgere lo sguardo con un certo stupore verso chi si è mostrato resiliente, caparbio, “lottatore”. Chi ce l’ha fatta sembra essere lo sprone naturale per noi tutti, alle prese con traumi di varie dimensioni, l’esempio da seguire, la vera fonte di forza e di speranza. E lo stupore, come è noto, dà sale alla vita.

La resilienza è poi letta da alcune scuole psico-sociali non solo come capacità di sopravvivere, ma come condizione della fioritura, della crescita, della realizzazione umana. Di recente mi sono imbattuto in un sito di una “scuola di resilienza e accademia del talento”, che si rivolge ammiccando a chiunque desideri raggiungere “la migliore versione di sé”.

Ecco allora che la resilienza, così intesa, si rivela sorprendentemente, per alcuni versi, in linea con l’idea della selezione naturale, della sopravvivenza del più forte, comprese le sue varianti in ambito economico-sociale, così di moda e così accettate supinamente dalla stragrande maggioranza dei nostri contemporanei. Sono i più forti, i più resilienti che portano avanti il mondo, che fanno crescere l’economia, a vantaggio di noi tutti. E, soprattutto, c’è quasi un dovere di mostrare la “migliore versione di noi stessi”.

Perché è possibile piegare un concetto in apparenza così bello, utile e attuale, a logiche di forza, di potere, di dominio? Si tratta di deviazioni indebite oppure di manifestazioni di un problema più profondo, etico o teoretico?

Confesso, a questo punto, che non amo la parola resilienza. Forse un po’ per snobismo (riconosco di essere allergico alla ripetizione di qualsiasi slogan), ma più probabilmente perché il disagio che suscita in me ha radici più profonde. È lo stesso disagio che provo di fronte a chi esalta costantemente chi si è fatto dal nulla, chi è emerso da situazioni molto difficili, lo stesso sentimento di contrarietà che suscitano in me gli emoji fatti di muscoli che si flettono, che elogiano il successo, chi si è tirato fuori dalla miseria, o l’espressione orribilmente sessista “è uno/una con le palle!”.

Non fraintendetemi: credo che quando Nietzsche invitò gli esseri umani a vivere ogni loro dimensione e desiderio, in polemica con il cristianesimo, avesse assolutamente ragione. Ma definendo la predicazione dell’umiltà e della mitezza una “morale da schiavi”, in realtà prese un abbaglio molto simile a quello di chi esalta unilateralmente resilienza, caparbietà ed eroismo senza contemplare altre dimensioni, altri fondamenti, forse più profondi.

Che cosa manca in questo modo di descrivere le cose, in molte enfatizzazioni della resilienza, della caparbietà, dell’eroismo? Qualcosa di radicale, che soggiace alla resilienza, che ne regge lo stesso discorso. Manca l’accettazione del fallimento e di chi fallisce, ma soprattutto un interrogativo fondamentale sui fondamenti dell’etica e della vita umane.

Partiamo dalla prima carenza. La vita è piena di persone che falliscono, che non ce la fanno, che si spezzano, per una miriade di ragioni. A chi si trova in una simile condizione, la proposta di modelli di resilienza può essere non solo inutile, ma addirittura umiliante. Rischia di palesare un’insensibilità, un giudizio di fondo, che aggiungono miseria alla miseria.

Dietro a ogni fallimento, a ogni lasciarsi andare, a ogni desiderio di non vivere, si cela infatti la domanda più grande: vivere è un dovere? Chi non vuole vivere è forse immorale o amorale? Cosa c’è dietro al nostro velato giudizio che vorrebbe moralmente superiore chi è resiliente o caparbio?

Nessuno ha scelto di venire al mondo. Né possiamo scegliere i nostri geni, i nostri genitori, gran parte delle esperienze che ci determinano. Quando la nostra libertà è veramente in condizione di determinare qualcosa, moltissime cose sono ormai determinate. E molti discorsi sull’autodeterminazione, sul farsi da sé, sono tipici delle società ricche e occidentali, dove le condizioni, i “limiti” di partenza sono enormemente più favorevoli rispetto a quelle di gran parte dell’umanità.

Con questo voglio dire che la domanda fondamentale che ci portiamo dentro per tutta la vita, volenti o nolenti, che ne siamo o meno consapevoli, è: “Devo, posso accettare tutto questo?”. Vivere non è un dovere, neppure se si crede nell’esistenza di un dio, neppure se si crede che la vita sia un dono. E forse una delle più grandi offese all’umanità (nonché una vera e propria bestemmia contro dio) che gli uomini religiosi hanno coniato in tempi abbastanza recenti è l’adagio: “Non sei padrone della tua vita, perché non te la sei data tu”.

Di fronte a una simile domanda ci dividiamo grosso modo in tre categorie, a seconda della risposta che forniamo. C’è chi risponde “sì”, per motivi assai diversi. C’è chi risponde “no” e mette fine alla propria vita (circa un milione di persone l’anno, forse di più, sul nostro pianeta). C’è infine chi risponde “no” ma o non ha il coraggio di farla finita, o decide di vivere solo perché ha altri alle proprie dipendenze e non può permettersi di morire.

Io appartengo, soffertamente (perché ho incontrato troppe persone spezzate dalla vita, ma non solo), al primo gruppo, ma a una fondamentale condizione: che si crei per ogni essere umano la possibilità di rispondere “sì”, accettando pienamente e incondizionatamente che possa rispondere di no. O, per dirla altrimenti, credo che la costruzione di un senso, di ragioni vere per vivere, non sia una questione individuale, di “allenamento alla resilienza”, ma un fatto sociale, un essere posti in una rete che sostiene radicalmente il nostro esistere. Possiamo rispondere “sì” alla vita, infatti, solo se sentiamo che saremmo accettati dagli altri anche se dicessimo di “no”.

Questo ha implicazioni enormi per la morale, per l’educazione, per la politica, per ogni dimensione pubblica e sociale del nostro vivere e pensare, per le nostre stesse esperienze religiose.

La morale e le leggi inizierebbero a costruirsi non su “come devo essere io”, su un’idea di virtù o perfezione  individuale, ma sull’altro. L’educazione non punterebbe a costruire persone equipaggiate per la sopravvivenza (che non è la stessa cosa di una vita che ha “senso”) in un mondo darwiniano, ma per la realizzazione dei desideri in dialogo con gli altri. La politica non potrebbe mai porre a fondamento la libertà dell’individuo a prescindere dalla giustizia sociale. E nessuna persona “religiosa” porrebbe l’accento sulla “perfezione” individuale, sulle “virtù eroiche”, ma tornerebbe a concentrarsi (finalmente!) sull’altro e i suoi bisogni.

Molti anni fa ascoltai una meravigliosa conferenza di John Chryssavgis, teologo ortodosso, che proponeva, al posto di un’esaltazione della perfezione, una “spiritualità dell’imperfezione”. Non per esaltare le cose “fatte male”, incompiute, precarie, ma per ricordare a tutti che la vera forza rivoluzionaria del cristianesimo si innesta nell’accoglienza radicale e incondizionata dell’altro, che ha pienamente e veramente luogo quando non sembrerebbe esserci nessuna ragione al mondo per accoglierlo. Come fece Gesù di Nazareth sulla croce nei confronti dell’intera umanità (almeno secondo l’interpretazione di Paolo di Tarso).

La resilienza, il nostro resistere, acquistano senso nel nostro non essere affatto resilienti, ma portati dagli altri. È il fondamentale messaggio in grado di umanizzare e rendere vivibili le nostre vite. È il mio augurio a voi tutti per l’anno che verrà. Cambierà qualcosa, infatti, solo se torneremo a porre l’altro al centro, permettendogli così di scegliere di vivere non perché non ci sono alternative, ma perché potrà avere la possibilità di una vita dignitosa. Perché sarà stato accolto, a prescindere da tutto.