Condivido sul mio blog questo contributo sulla formazione dei presbiteri cattolici, apparso in aprile come Editoriale sul blog Viandanti.

Le riflessioni che abbozzo di seguito sono quelle di un “diversamente cristiano”, che ritiene Gesù di Nazareth un riferimento centrale e fondamentale, senza considerare per contro nessuna chiesa o confessione cristiana l’unica espressione piena o propria del cristianesimo. Una simile premessa è necessaria per comprendere questo intervento, molto libero e per certi versi “da esterno” e senza alcuna pretesa di definitività, su alcuni snodi essenziali della formazione dei futuri presbiteri della chiesa cattolica.

Per poter dare un contributo a un tema di tal genere è fondamentale cogliere come, dal concilio di Trento in poi, natura del sacerdozio ministeriale e formazione dei candidati al suo esercizio abbiano avuto sempre contorni ben precisi e siano sempre state pensate congiuntamente, come è giusto che sia.

Il canone 18 della XXIII sessione del concilio di Trento fornisce in vari modi indicazioni sul profilo ideale e la formazione dei futuri ministri ordinati: devono essere dei giovani formati a “fuggire i piaceri del mondo” e a condurre una vita all’insegna di “pietà e religione”. Per questo vengono istituiti i seminari, con il duplice scopo di separare fin dalla tenera età un numero congruo di adolescenti (nei seminari “minori”) tra cui individuare i candidati idonei alla vera e propria formazione al ministero (nei seminari “maggiori”). Il criterio fondamentale di selezione dei futuri presbiteri è la loro scelta tra coloro che, oltre a saper leggere e scrivere, mostrino per “indole e volontà” di essere sempre “al servizio di Dio e della chiesa”. I pilastri della loro formazione sono la liturgia, la Scrittura e le omelie e le vite dei santi.

L’impianto tridentino ha una sua coerenza: in un ambito sostanzialmente cristiano – seppure con la Riforma protestante a complicare le cose rispetto alla cristianità medievale – e data la necessità del celibato ecclesiastico imposta dalla riforma gregoriana dell’XI secolo, per avere dei ministri fedeli al loro servizio si sceglie di separare presto dal mondo un numero non indifferente di adolescenti da plasmare secondo i dettami di quella che potremmo definire una “casta”, con una vita e regole proprie, funzionali all’istituzione ecclesiastica oltre che alla gestione pastorale delle parrocchie, modalità fondamentale di presenza ecclesiale secondo lo stesso concilio di Trento.

A dispetto delle convinzioni di molti, i concili successivi – in primis il più recente Vaticano II – non solo non hanno mai mutato la visione fondamentale del ministero presbiterale maturata a Trento, ma l’hanno per certi versi resa ancor più definita, netta e onnicomprensiva (e dunque in un modo o nell’altro “clericale”). Quest’ultima osservazione è avvalorata dal fatto che, oltre a ribadire il ruolo dei presbiteri in ordine al servizio di Dio (il culto) e della chiesa (il ministero pastorale), tutti i documenti più importanti scaturiti dal Vaticano II in poi (su tutti i decreti conciliari Presbyterorum Ordinis sul ministero sacerdotale e Optatam Totius sulla formazione sacerdotale, nonché l’esortazione apostolica Pastores Dabo Vobis di Giovanni Paolo II) hanno insistito su un ruolo oltremodo impegnativo per i presbiteri cattolici, che sarebbero i soli a cui competono in pienezza i tre munera, ovverosia la funzione di insegnare, santificare e governare nella chiesa.

Inoltre, il magistero cattolico ha costantemente ribadito l’obbligo del celibato per il clero latino (per quello delle chiese cattoliche orientali si può essere ammessi al presbiterato se già sposati, ma una volta ordinati da celibi non si può più contrarre matrimonio). Nel farlo, non ha mancato di sottolineare come la “verginità consacrata a Cristo” (scelta terminologica discutibile e ricca di ulteriori sfumature) sia ritenuta superiore rispetto a ogni altra forma di vita cristiana (Optatam Totius 10), rafforzando in tal modo in maniera forse decisiva la “sacralizzazione” della figura dei sacerdoti cattolici.

La vera novità dei documenti ecclesiali conciliari e postconciliari è tuttavia l’introduzione sempre più forte dell’idea di “vocazione”, intesa non tanto e non più come chiamata di singole persone riconosciute come fidate da parte del corpo ecclesiale perché assumano un incarico pastorale e di servizio al culto, ma piuttosto come il riconoscimento da parte della gerarchia ecclesiale di una chiamata individuale percepita dai singoli candidati nella loro coscienza. Del resto, visto l’obbligo cattolico del celibato, sarebbe difficile, in epoca moderna, poter pensare altrimenti, sebbene così avvenisse nella chiesa antica (e così avvenga tuttora in alcune chiese non cattoliche).

Quanto all’impianto della formazione nei seminari, al di là dell’eliminazione o quanto meno del netto ridimensionamento dei seminari minori, i cambiamenti sono stati minimi e hanno riguardato solamente l’aggiunta di alcuni elementi “umani” alla formazione tradizionale, assieme a una strutturazione molto più sostanziosa a ambiziosa degli studi teologici necessari per essere ammessi all’ordinazione presbiterale.

La grande difficoltà rappresentata dall’obbligo celibatario in una società in cui i preti non godono più di protezioni sociali e in cui ha avuto luogo una rivoluzione nel modo di pensare e vivere la sessualità umana ha portato a invocare in linea di principio un rafforzamento della formazione alla maturità umana dei seminaristi. Malgrado ciò, da non poche ricerche di natura sociologica sono emersi un’enormità di problemi mai realmente affrontati nell’ambito della sessualità dei preti, una sorta di iceberg la cui parte visibile in superficie – le gravi patologie psicologiche collegate alla sessualità di un numero non indifferente di sacerdoti – non è che una frazione di ciò che andrebbe affrontato.

Sul versante degli studi teologici, l’impostazione fondamentale è rimasta “dialettica” ed è divenuta sempre più “apologetica”. Dialettica, in quanto ogni disciplina non strettamente teologica (dalla filosofia, alla psicologia alla storia) continua a essere insegnata più per aiutare a “smascherare gli errori” del mondo non cattolico e non religioso, e per conferire basi “solide e perenni” in cui innestare lo studio della rivelazione cristiana, che non per favorire una crescita libera e completa delle facoltà critiche proprie di ogni essere umano. Apologetica, perché sebbene della “verità” – che nella mens degli scritti magisteriali sembra essere molto più un insieme di verità etiche e antropologiche che non Gesù Cristo e la sua signoria – si dica anche che si debba insegnare a cercarla, tale ricerca pare interamente finalizzata a penetrarla onde poterla dimostrare (Optatam Totius 15); non a caso anche nel caso della dottrina cattolica (Optatam Totius 16) si sottolinea come compito fondamentale dei sacerdoti cattolici sia annunciarla, esporla e difenderla.

Riassumendo, l’intenzione che emerge con chiarezza dagli orientamenti magisteriali è quella di formare ministri ordinati che siano consacrati (dunque in una certa misura separati dal resto del corpo ecclesiale, in un rapporto particolare con il sacro), a cui vengano conferite in maniera unica (“piena”, a differenza di quanto avviene per il sacerdozio di tutti i fedeli) le tre funzioni di insegnamento, santificazione e governo della chiesa, che abbiano l’obbligo del celibato e che siano fondamentalmente i difensori di una verità acquisita una volta per sempre (malgrado li si inviti a non essere ostili al mondo). Per adempiere una simile missione estremamente ambiziosa, si ritiene che un lungo tempo di “segregazione” dal mondo negli edifici dei seminari sia la soluzione tuttora ottimale.

La domanda che rivolgo, con molta sincerità, è perciò: come è pensabile di formare in tal modo dei ministri che non siano intrinsecamente clericali, nel senso deteriore del termine? Ma soprattutto, non si rischia, così facendo, di sostituire la tensione all’ascolto dinamico di ciò che lo Spirito non cessa di dire in ogni tempo e luogo alle chiese e alle singole coscienze con l’affermazione di un nucleo rigido e intoccabile di dottrine che non tengono conto di come evolve il mondo (non contro Dio, ma per sua stessa volontà!)? Non si fa dei sacerdoti la casta custode di un mistero a cui essa sola ha un accesso privilegiato?

Gli amici cattolici si chiederanno: in un quadro di questo genere è possibile cambiare seriamente qualcosa senza rinunciare a rimanere fedeli alla confessione cattolica o senza stravolgere la dottrina? Il dibattito è aperto, ovviamente, e la mia risposta più sincera sarebbe che senza cambiamenti dottrinali non sarà realmente possibile debellare il clericalismo, né sarà semplice adeguare le forme dei ministeri ecclesiali alle esigenze reali del Vangelo e dei nostri contemporanei. Detto questo, alcuni passi paiono ormai ineludibili.

Il primo è il radicale ripensamento del luogo dove vengono formati i futuri presbiteri, ovverosia il seminario. Non mancano ormai gli studi che confermano come il rifugio rappresentato dall’attuale forma segregata e protetta dei seminari, lungi dall’attrarre le personalità più solide e adeguate all’esercizio del ministero presbiterale, costituisca in realtà una calamita ottimale per persone immature alla ricerca di sicurezze e compensazioni rese possibili molto più da uno status e dalle protezioni proprie di una casta che non da un reale cammino di crescita umana. Se a questo si aggiunge la fobia di rimanere senza preti che attanaglia la stragrande maggioranza delle diocesi cattoliche, si comprende per quale ragione in realtà non esista quasi nessun filtro né prima dell’accesso ai seminari, né durante i cammini di formazione che in essi vengono impartiti.

A quanti ritengono che l’eventuale formazione non residenziale e non a tempo pieno dei futuri ministri ordinati ne comporterebbe un indebolimento della preparazione teologica, in realtà va fatto notare che attualmente, vista la penuria di candidati, viene concesso a chiunque di portare a termine gli studi previsti, a prescindere dalla competenza acquisita e dall’impegno profuso. Sostanzialmente è vietato bocciare i seminaristi… Di conseguenza, malgrado ben cinque anni teorici dedicati alla teologia, la preparazione di base dei preti odierni è estremamente limitata e carente, sia sul piano della cultura generale sia su quello teologico.

Al di là di queste oneste e brutali considerazioni, però, resta il fatto che non sta scritto da nessuna parte che, nella chiesa, un alto livello di preparazione teologica debba essere appannaggio dei preti (ai quali è chiesto al tempo stesso di essere amministratori di beni, guide liturgiche e pastori d’anime). Sarebbe dunque onesto rivedere radicalmente il curriculum degli studi necessari per accedere all’ordinazione presbiterale, liberandosi dell’ossessione di fare dei ministri ordinati gli impossibili (e decisamente improbabili) esperti di tutto. In un mondo complesso, che richiede una molteplicità di competenze, invece di pensare al prete come la summa di ogni teologia dogmatica o pratica, sarebbe molto più opportuno creare opportuni spazi di formazione teologica a tutto campo per i laici (con il vantaggio “collaterale” di indebolire per davvero il clericalismo che domina oggi nella chiesa).

Le vere domande da porsi sono dunque: Quali ministeri sono necessari oggi nella chiesa? Quale ruolo realistico e non onnicomprensivo può essere attribuito ai presbiteri (e a ogni altra forma di ministero)? È davvero necessario mantenere l’obbligo del celibato? Solo allora sarà possibile determinare con chiarezza nuovi cammini di formazione.

Perché finché perdurerà l’obbligo del celibato – ammesso e non concesso che sia davvero possibile viverlo in maniera definitiva nella propria vita umana, come un “dono” e non come un giogo prima o poi insopportabile – bisognerà accettare che siano davvero pochissime le persone (per di più soltanto di sesso maschile, con tutti le deviazioni patriarcali connesse a tale scelta…) idonee a viverlo in maniera feconda in una vita “presbiterale”, e dunque sarà necessario pensare a una chiesa con molti meno presbiteri (e molti altri ministeri complementari).

Alla conseguente notevole scrematura dei candidati al sacerdozio, fondata sul riconoscimento a mio parere comunque molto difficile dell’esistenza di una vera “vocazione” celibataria, andrà unita una formazione umana decisamente più solida e meno ipocrita di quella fornita oggi, soprattutto su tematiche come quelle afferenti la sessualità umana. E forse bisognerà accettare e studiare maggiormente il fenomeno degli “abbandoni” del sacerdozio, che spesso riguarda persone che hanno servito in profondità, a lungo e con piena dedizione il loro prossimo, e che si trovano stigmatizzate e fortemente marginalizzate a motivo delle loro nuove scelte di vita.

Probabilmente, però, basterà la seria messa in discussione del “sistema seminario” – che pure non contiene tutte le risposte necessarie – ad avviare quanto meno un cammino virtuoso di ripensamento, tanto a livello locale quanto a livello universale, dei troppi problemi che caratterizzano la formazione odierna dei futuri sacerdoti.