Che cos’è la comunità? Normalmente con tale termine si allude a quelle forme di aggregazione costituite da gruppi di persone che convivono in un territorio abbastanza limitato e che si riconoscono per una mutua dipendenza e un insieme relativamente ampio di caratteristiche comuni. La comunità è perciò un’aggregazione primaria, perché viene prima della società, sia in senso temporale sia nel senso che la società ne rappresenta una sorta di evoluzione e complessificazione inevitabili. La società infatti si compone di relazioni più complesse e articolate, comporta una certa divisione del lavoro e una coscienza sociale, ovverosia lo sviluppo di elaborate idee morali, religiose, giuridiche, economiche, politiche, estetiche e di ulteriori forme più complesse di conoscenza e di pensiero.

Il primo studioso a mettere a fuoco la diversità e la possibile conflittualità tra queste due forme di organizzazione sociale, come sa chiunque abbia compiuto studi di sociologia, di psicologia sociale o di scienza della politica, fu il sociologo Ferdinand Tönnies (1855-1936) nel suo saggio Comunità e società del 1887. In esso lo studioso tedesco stabiliva in questo modo tra le due realtà una contrapposizione generatrice di costanti e potenziali tensioni:

La teoria della società riguarda una costruzione artificiale, un aggregato di esseri umani che solo superficialmente assomiglia alla comunità, nella misura in cui anche in essa gli individui vivono pacificamente gli uni accanto agli altri. Però, mentre nella comunità gli esseri umani restano essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, nella società restano essenzialmente separati nonostante i fattori che li uniscono.

Gran parte delle nostre riflessioni sulla politica e il senso del nostro essere sociali gravita di fatto attorno alla percezione che abbiamo di società e comunità, ben al di là di altre categorie apparentemente più consolidate, come quelle di destra o di sinistra, di conservazione o di cambiamento.

Da un lato vi sono infatti coloro che ritengono sia meglio privilegiare la società rispetto alla comunità, perché sebbene sia per molti versi incontrollabile e distante dal calore delle relazioni primarie, sembra tuttavia consentire una certa liberazione dalle angustie di luoghi più ristretti e notevoli opportunità per i nostri desideri individuali di autonomia, espansione e crescita. La società è in tal senso il luogo per antonomasia dell’individuo liberale, e ancor più di quello libertario, ma lo è anche paradossalmente per chi ritiene, come i pensatori socialisti, che solo in un determinato tipo di società, in cui prevalgano determinati rapporti e idee giuridiche ed economiche, la libertà umana diventi veramente possibile.

Dall’altro predilige la comunità chi ritiene fondamentali i valori umani consentiti dalla partecipazione a un’entità sociale più circoscritta, valori che teme siano minati, messi in pericolo o posti in secondo piano dalla civiltà (industriale, tecnologica o di qualsiasi altro genere), come la solidarietà, la sicurezza, il calore che sarebbe possibile trovare solo nell’umanità consentita da rapporti più “primitivi”, primordiali, naturali. Alleati nella difesa della comunità sono stati, anche qui un po’ paradossalmente, personaggi e correnti di pensiero assai differenti, come Nietzsche che riprese con entusiasmo le teorie di Tönnies, il movimento del Sessantotto che, sulla scia di Jean-Jacques Rousseau, predicava un ritorno alla libertà della natura contro le catene imposte dalla società, e tutti i conservatorismi che ritengono ogni nuova idea emergente nella società una minaccia nei confronti della tradizione veicolata dalla comunità, unico deposito di vera umanità.

A un primo sguardo il primo approccio, quello di chi predilige la società, sembra più ottimistico. Per certi versi è ottimistico nelle teorizzazioni (molto in voga negli anni Sessanta) di figure come Talcott Parsons, sociologo americano fondatore dell’analisi struttural-funzionalista, secondo il quale le società evolverebbero verso forme sempre più raffinate, al cui vertice si trovano le moderne società occidentali, in cui le comunità primarie e i raggruppamenti sociali come la famiglia troverebbero una naturale realizzazione dei loro valori.

Ma lo è anche nelle “realistiche” teorie dell’educazione di un contemporaneo di Tönnies, altro grande fondatore della sociologia moderna, il francese Émile Durkheim, che fu tra i primi a sostenere la creazione di curricula in cui definire le materie da insegnare, i programmi da affrontare, le conoscenze da conseguire, i valori da assorbire. In tal modo, dato che la società ha determinate regole e valori, si otterrebbe da un lato che chi riceve un’educazione apprenda dette regole e valori e sia integrato nel mondo degli adulti, e dall’altro si eviterebbe una ritorsione dei costumi contro il soggetto, pressoché certa – secondo Durkheim – se la scolarizzazione dovesse  avvenire in completa astrazione dalla realtà sociale.

Trovo decisamente interessante, ma anche un po’ inquietante, che nell’attuale panorama culturale prevalgano spesso letture di questo genere, come testimonia ad esempio la distinzione tra materie scolastiche “utili” e “inutili” o l’accoglienza fortemente acritica (e perciò totalmente subita e non negoziata) di qualsiasi trasformazione introdotta dall’utilizzo della rete.

Il problema è tuttavia che vi sono aspetti della comunità che non possono essere sacrificati, salvo accettare un’umanità ridotta. E per parlarne vorrei riprendere l’idea di comunità propria di un altro grande pensatore contemporaneo, l’antropologo scozzese Victor Turner (1920-1983). Per Turner è proprio della communitas il suo essere non strutturata, un luogo in cui appartenenza e solidarietà sono al primo posto e in cui vige una «situazione senza tempo, un eterno “adesso”, un “momento fuori del tempo” o uno stato in cui la categoria di tempo non è applicabile». Ed è proprio in virtù di queste sue caratteristiche che la comunità, oltre a essere un’aggregazione importante nelle società umane, può diventare luogo decisivo non tanto contrapponendosi ai valori della società, ma laddove la comunità è liminale, cioè vive e si sviluppa negli spazi di confine, di crisi della società. Allora la comunità ha forti capacità “performative”, ovverosia di intervento e di trasformazione delle relazioni sociali anche su scala più globale.

Alcuni sociologi italiani, come Carlo Bordoni, hanno cercato di applicare l’analisi di Turner alle nuove “comunità virtuali” sostenendo che siano per l’appunto la risposta al nostro bisogno umano di comunità e che anzi rappresentino un esempio di grande efficacia performativa, perché ognuno di noi, a differenza di quanto ci era consentito dall’idea “territoriale” di comunità propria del passato, può appartenere tramite la rete a molte comunità, e dunque trovare risposte a ogni possibile bisogno individuale. «Oggi la comunità è un legame debole, ma capace di grandi performace», scrive il sociologo carrarese. Mi piacerebbe poter essere d’accordo con Bordoni, ma in realtà ci sono dimensioni chiaramente insostituibili della comunità “territoriale”, circoscritta, di cui abbiamo tutti, in un modo o nell’altro, forte nostalgia, dimensioni che, qualora trascurate, porteranno (e già lo stanno facendo) allo sviluppo di forti disagi psicologici e sociali.

Per raccontare la prima dimensione penso basti condividere un’esperienza, o meglio un contrasto fra esperienze, che mi è capitato di vivere negli ultimi dodici mesi. Da un lato, infatti, la pandemia mi ha portato naturalmente ad aumentare il ricorso alle varie comunità virtuali cui appartengo, traendo spesso conforto e beneficio dalla mia “pluricomunità di senso”. Non di meno ho vissuto nel contempo l’esperienza molto più “fisica” rappresentanta dall’accompagnare mio suocero negli ultimi mesi della sua vita, fino a tenere il suo discorso funebre per la cerchia ristretta dei suoi intimi, vicenda da cui ho tratto molto più senso e motivo di profonda riflessione rispetto a tutto il resto. Contemporaneamente, pur essendo un uomo ben avvezzo alla solitudine, ho sentito la mancanza non tanto di occasioni conviviali (anche quelle, certo!) quanto piuttosto di quei confronti ad ampio raggio con amici e partner associativi che solo la presenza fisica in un medesimo luogo, protratta nel tempo, riesce a garantire.

Ma la dimensione più importante della comunità territoriale non è forse neppure quella della “fisicità”, pure così cara a molti di noi. Le comunità virtuali consentono infatti sicuramente di soddisfare in buona misura il nostro desiderio di comunicazione, elemento primario del nostro desiderio di comunità. E lo fanno rendendoci più liberi dai vincoli talvolta non graditi dell’esperienza tradizionale di comunità, ovverosia la sensazione di essere prigionieri di rapporti e di legami. Nelle comunità virtuali possiamo sempre “scegliere” con chi stare e chi lasciare, quando farlo e quando non farlo, senza grandi sensi di colpa o di responsabilità. Proprio per questo, però, le comunità virtuali portano a privilegiare le emozioni rispetto alla razionalità, le sensazioni del momento rispetto ai cammini di approfondimento e di verifica della fondatezza di ciò che abita le nostre menti e i nostri cuori.

Detto altrimenti, senza gli elementi scomodi costituiti dall’impegno a “rimanere” in qualche misura fedeli a un gruppo o a una comunità per tempi superiori a quelli di un nostro eventuale mutamento di umore, finiamo per mettere in pericolo o per lo meno depotenziare tutti quei processi che dal sorgere di emozioni, idee e sensazioni portano a sviluppare cammini di conoscenza e di pensiero, possibili solo quando si lascia che il daimon, l’ispirazione o la sensazione del momento, siano messi in discussione dall’ineliminabile e costante presenza dell’altro, accanto a noi e dentro di noi.

Perciò non solo credo sia possibile mantenere forme di appartenenza a comunità tradizionali, pur rivedendone in profondità e in maniera critica regole e meccanismi di appartenenza, ma ritengo sia vitale proprio per far sì che si sviluppino luoghi liminali di trasformazione della società, come avrebbe detto Turner. E sebbene sia sempre utile, possibile e arricchente servirci anche delle molte comunità virtuali disponibili per assecondare i nostri bisogni di libertà, espansione e sviluppo e per definire nuove identità più globali, è fondamentale ripensare a gruppi territoriali come associazioni, partiti, parrocchie e comunità di ogni genere, funzionali a obiettivi a breve, medio o lungo termine, o semplicemente luoghi primari di un pensare comune, e dunque di senso e di umanità profonda e a trecentosessanta gradi.

Il vero compito che abbiamo oggi è perciò ripensare tutte le nostre comunità “territoriali” per adattarle sì alle nostre esigenze di donne e uomini contemporanei, senza tuttavia privarle di quel valore aggiunto che è appunto il non essere una pura emanazione dei nostri istinti del momento. Quello che possiamo pensare e realizzare vincolandoci ad altri per un tratto singificativo di cammino è infatti sia un complemento importante al potenziale di scelta e di libertà offertoci dalle comunità virtuali, sia una fonte di senso e una risorsa interiore a lungo termine che queste ultime molto difficilmente reiscono a offrirci.

I molti sociologi cantori dell’umanità “post-sociale”, come il francese Alain Touraine, ritengono che la comunicazione tra culture sarà possibile solo se in precedenza i soggetti si saranno svincolati dalla comunità. In questo modo, però, oltre a combattere contro un’esigenza che abita in maniera indelebile in ognuno di noi, si rischia di voler costruire modelli di comunicazione resi possibili soltanto dall’elliminazione delle differenze. Ma non credo che nessun ideale di società valga la pena di un tale sacrificio, né ritengo che l’eliminazione delle comunità territoriali a scapito della società globale sarà mai possibile.