Come ho scritto a più riprese, la crisi odierna del monachesimo, lungi dall’essere un problema di selezione e discernimento tra vere e false vocazioni, è di sistema. L’abuso di potere è iscritto come una possibilità quasi inesorabile nello schema attuale della vita religiosa, che vi può sfuggire solo in due circostanze: la presenza di responsabili straordinariamente intelligenti e preparati, o proclamando solo formalmente di vivere secondo le norme riconosciute e andando invece avanti come un gruppo di persone totalmente scollegate e prive di qualsiasi reale sostegno spirituale.

Come uscire allora dalla crisi attuale dell’accompagnamento spirituale? Come evitare abusi? Non dispongo di formule magiche, ma vorrei proporre alcuni spunti che spero provochino riflessioni nelle nostre comunità. Poniamoci dunque innanzitutto alcune domande fondamentali.

In primo luogo: abbiamo ancora bisogno di mentori? E perché?

L’autore della Prima lettera di Giovanni invita – in maniera antropologicamente acuta, a prescindere dalla presenza o meno in noi di una fede in Dio o in Gesù Cristo – a “mettere alla prova gli spiriti” (1Gv 4,1), ossia i pensieri e le ispirazioni che attraversano la nostra mente e che, se assecondati, possono incidere in maniera profonda sulle nostre vite.

Le tradizioni spirituali più consolidate – tra cui quelle sorte nella filosofia greca e negli antichi monachesimi del deserto – insegnano a sviluppare gli strumenti necessari per acquisire controllo sulle nostre forze interiori, onde assecondare quelle vitali e tenere a bada quelle mortifere.

Accanto a ciò, dalla parola degli abba e delle amma del deserto fino alle moderne forme di psicoterapia, l’umanità ha sviluppato modalità di intervento “esterno” che possono aiutare in un simile processo. Ma con alcuni caveat.

Sul versante del “bisogno” di essere guidati, infatti, in ambito psicologico e medico si riconosce ormai in maniera piuttosto chiara tutta una serie di disturbi della personalità collegati al bisogno di dipendere. In altre parole, non è ritenuto normale che, in età adulta, si abbia il costante bisogno di essere guidati da altri. Per non parlare del fatto che chi è affetto da disturbi dipendenti della personalità tende a essere particolarmente attento al prossimo (per evitare di essere abbandonato da costui o costei) e dunque a rafforzare a propria volta i disturbi altrui da dipendenza.

Tutto questo impone già di per sé a chi svolge un ministero della parola di accompagnamento di andare oltre il dilettantismo, compiendo gli studi necessari e acquisendo mediante percorsi ben definiti le competenze utili a non compiere danni e a non assecondare le tendenze patologiche presenti in non poche persone che cercano aiuto nelle guide spirituali.

Anche l’idea che sarebbe necessario l’esempio altrui per imparare (si pensi all’enorme retorica vigente ancor oggi sugli “insegnanti modello”) va presa con molta cautela. Ciò che fa crescere realmente in autonomia, indipendenza e – in ultima istanza – in maturità umana è l’acquisizione di abilità e competenze “dall’interno”, facendo esperienza diretta delle cose. Inoltre, come ho ribadito a più riprese, sebbene il fine dell’esperienza monastica sia fondamentalmente l’acquisizione di eudaimonia, quest’ultima varia da persona a persona. Infine, non vanno dimenticati i meccanismi di violenza che si celano dietro ai desideri di imitazione del prossimo, smascherati in maniera magistrale da René Girard.

Una volta risposto affermativamente, con molte cautele, alla possibile utilità della presenza di mentori o di accompagnatori spirituali, il secondo interrogativo fondamentale è tuttavia: come possono aiutare simili figure?

Qui vorrei partire da ciò che non credo sia più lecito, ovverosia la richiesta di “obbedienza” da parte degli accompagnatori spirituali: non è possibile attribuire un’autorità superiore a chi già ha accesso, in un modo o nell’altro, al “sacrario della coscienza” dei singoli. E questo riguarda anche quella che André Louf, grande spirituale, definiva obbedienza “strumentale”, a suo avviso necessaria per imparare a non seguire la propria volontà. Ammesso e non concesso, infatti, che Dio voglia che ciascuno di noi compia la sua volontà e non la propria, in fin dei conti la volontà di Dio – qualsiasi cosa essa sia – può essere scoperta solo nel sacrario delle nostre coscienze e qualsiasi tentativo di eteronomia (cioè di determinazione “dall’esterno” di cosa sia bene per ciascuna e ciascuno di noi) è troppo gravido di rischi per potere essere oggi ritenuto percorribile.

In positivo, quale cammino di formazione deve compiere chi svolge un ministero di accompagnamento del prossimo? Quali competenze deve avere?

Inutile illudersi con una buona “selezione a monte”, con il “talento” o i “doni” delle guide spirituali. Se Sebastian Zimmermann ha ragione, una certa dose di narcisismo c’è sempre in chi diventa accompagnatore per una ragione o per l’altra, e va “curata”, sapendo che chi ne è affetto (specie se maschio) difficilmente assumerà l’iniziativa in tal senso. È perciò necessario pensare per chi esercita un qualsiasi ministero di accompagnamento spirituale degli itinerari di studio e formazione (su tutte le tradizioni sapienziali che hanno illuminato l’uomo, dai filosofi ai padri del deserto agli psicologi e gli psicoterapeuti dei nostri giorni), nonché soprattutto dei cammini di supervisione analoghi a quelli a cui si devono sottoporre gli psicoterapeuti.

Come evitare confusione di ruoli e autoritarismi sulle coscienze?

Laddove si sviluppano legami più stretti e duraturi, come ad esempio nelle comunità religiose, è necessario sempre fare i conti con l’inevitabile esigenza di governare la vita della comunità, cosa che va fatta secondo criteri di umanità e intelligenza, senza ricorrere a dinamiche sacrali.

Al di là di questo, come intuirono in maniera profonda Calvino nella sua prima comunità riformata di Ginevra, e più avanti Montesqieu studiando la forza corruttrice di ogni potere umano, è fondamentale riconoscere e individuare una pluralità di carismi e di funzioni in ogni comunità umana, evitando accumuli di potere e confusione di ruoli. In questo senso, governo della comunità umana o religiosa e servizio alla coscienza mediante ministero della parola di accompagnamento vanno sempre rigorosamente separati.

Non va inoltre dimenticato che, laddove a tutto ciò che ho detto si affianca il desiderio di controllare l’esercizio della propria sessualità (mediante voti di astinenza o celibatari di qualsiasi genere), si aggiunge un ulteriore problema da non trascurare, su cui tornerò in futuro.

Da ultimo, vorrei solo dire che già esiste una pluralità di forme dell’accompagnamento spirituale, e nell’attuale fase liminale della storia dello spirito probabilmente se ne svilupperanno di nuove, attraverso tentativi più o meno convincenti. Accanto agli itinerari più tradizionali, si è assistito ad esempio a tentativi di rispolverare presunte tradizioni antiche come quella degli “amici dell’anima” (dall’antico irlandese anamchara) nonché a proposte interessanti come tutte quelle collegate alle varie forme di counselling e coaching.

Riguardo a ogni forma di “amicizia spirituale” vorrei solo ribadire, sempre e comunque, come ogni esercizio della parola nei confronti del prossimo sia un esercizio di potere, che va tenuto sotto controllo ed esaminato criticamente. Anche da amici possiamo fare danni…

Quanto al counselling e al coaching, si tratta di etichette attribuite oggi a esperienze molto diverse l’una dall’altra, che vanno dall’utilizzo di precise metodologie psicologiche per l’accompagnamento professionale dei singoli, al cosiddetto counselling filosofico e una pletora di altre proposte. In questo campo bisogna fare molta attenzione, anche a motivo della mancanza di chiari quadri normativi nei vari paesi del mondo e di cammini di formazione precisi e uniformi, ma vi è sicuramente molto da attingere, anche per chi vive o vuole vivere un’esperienza monastica.