Un augurio di Natale insolito, ripercorrendo alcune tappe dell’itinerario umano e spirituale di Thomas Merton attraverso un pellegrinaggio in alcuni luoghi a lui cari. Perché la memoria sia luce.

Nell’aprile del 2001 i monaci benedettini di Christ in the Desert (Nuovo Messico) mi fecero dono di un biglietto aereo per andarli a trovare, che per di più mi dava diritto a scegliere un’ulteriore fermata in terra statunitense (su cui tornerò più avanti). Dopo un lungo viaggio di quasi ventiquattro ore da Bose ad Abiquiu – facendo scalo a Chicago e ad Albuquerque – raggiunsi infine stremato, nella notte, le rive del fiume Chama, ai piedi delle montagne del Colorado, dove si trovava il loro monastero.

La mattina successiva, scrollatami di dosso la fatica dovuta al viaggio e alla differenza notevole di fuso orario (otto ore rispetto all’Italia), uscendo dalla mia cella sotto il feroce sole del deserto intuii immediatamente perché, esattamente 33 anni prima, nell’aprile del 1968, Thomas Merton avesse scritto nel proprio diario: «È il migliore edificio monastico di tutto il paese!». Mi trovai infatti di fronte alla visione resa realtà dall’architetto e falegname americano George Nakashima a fine anni Sessanta di una perfetta integrazione fra colori e forme del deserto da un lato e chiesa e celle dei monaci dall’altro, costruite in adobe (impasto di argilla, sabbia e paglia essiccata al sole, utilizzato in molti luoghi del mondo per fabbricare mattoni).

Monastero di Christ in the Desert, Abiquiu, Nuovo Messico (foto R. Larini)

Merton era un uomo in ricerca. Di molte cose, certo, ma soprattutto di una pace interiore che aveva cantato fin dal suo celebre ingresso, 27 anni prima, nell’abbazia trappista di Nostra Signora del Getsemani nei pressi di Bardstown, nel Kentucky. La pace, però, dopo le illusioni iniziali gli era in qualche modo sfuggita e a Christ in the Desert si era recato non solo per cercare un luogo idoneo alla costruzione di un eremo in cui vivere, ma anche per riprendere le fila di un cammino di chiarificazione interiore a cui ormai ambiva da molto tempo.

Infatti, malgrado avesse scritto ne La montagna dalle sette balze – la sua arcinota e patinata autobiografia spirituale – che una volta varcata la soglia del monastero «fratel Matthew serrò il portone alle mie spalle e io mi trovai rinchiuso tra le quattro mura della mia nuova libertà», il desiderio di esplorazione del mistero di Dio e dell’uomo che non aveva mai smesso di ardere in lui lo aveva portato costantemente a desiderare di uscire, di muoversi, di andare oltre, di essere più libero. Lo aveva reso costantemente irrequieto, ovverosia senza pace o in cerca di una pace più profonda.

Nelle sue esplorazioni incessanti si imbatté da un lato nella spiritualità delle religioni orientali, e in particolare (ma non solo) del buddhismo zen, ma comprese altresì che non poteva in alcun modo accettare di separare il proprio destino e il proprio viaggio interiori da quelli del mondo “di fuori”, di ogni sua compagna e compagno di viaggio.

Nel lessico mertoniano, al vocabolario della pace si affiancarono perciò sempre di più, a partire dall’inizio degli anni Sessanta, parole di conflitto, di rivolta, in un certo senso di piena inquietudine. Una rapida occhiata ai titoli di alcune sue pubblicazioni di quegli anni aiuta subito a capire a cosa alludo: Emblems of a Season of Fury (1963, tradotto un po’ maldestramente in italiano con Emblemi di un’età di violenza), Semi di distruzione (1964, quasi a fare da contraltare a Semi di contemplazione del 1949), Raids on the Unspeakable (1966, Incursioni nell’indicibile, in cui Merton analizza in maniera sofferta e critica la condizione dei suoi contemporanei), fino a Fede e violenza del 1968.

Nello stesso periodo – per la precisione a partire dal 1961, e poi in maniera stabile dal 1965 – il celebre trappista iniziò a vivere in un semplice eremo nelle vicinanze dell’abbazia di Getsemani, continuando ancora per qualche anno (fino appunto al 1965) a ricoprire il ruolo di maestro dei novizi che aveva assunto nel 1955. E incominciò, anche grazie all’allentamento delle rigide regole monastiche avviato dal concilio Vaticano II, ad affiancare all’esplorazione interiore che sempre lo aveva caratterizzato una serie sempre maggiore di contatti e di viaggi all’esterno del monastero.

La mia seconda tappa americana, perciò, non poteva essere altro che una visita a Getsemani. Dovendo per forza viaggiare con una compagnia aerea che non serviva gli aeroporti del Kentucky, lasciate Abiquiu e Christ in the Desert volai a Nashville, in Tennessee, facendo scalo a Dallas. E mi avventurai alla volta del Kentucky prendendo a nolo una vecchia Pontiac di gucciniana memoria, col cambio automatico e l’autoradio che offriva come unica alternativa musica country o sproloqui evangelici in forma melodica.

A Getsemani l’allora maestro dei novizi e responsabile dei ritiri, Matthew Kelty, oltre a dedicarmi molto tempo, a un certo punto mi disse: «L’eremo di Merton è disponibile in questo periodo: vuoi abitare lì per un paio di giorni?». Inutile dire che non avrei potuto desiderare nulla di più da quel mio viaggio oltreoceano…

All’eremo di padre Louis (così era conosciuto Merton in monastero) ebbi così modo di leggere, pensare e meditare molto sulla sua vita, sulla mia e su quella di ognuno di noi esseri umani, proiettati dal destino a vivere una vita che è un intreccio di luci e ombre, di grandezze e miserie, di gioie e sofferenze. E fui molto colpito, in particolare, da due scritti mertoniani: Conjectures of a Guilty Bystander (1966, Diario di un testimone colpevole) e Asian Journal (Diario asiatico, uscito postumo nel 1973 ma scritto nel 1968).

Il tavolo di Thomas Merton nel suo eremo del Kentucky (foto R. Larini)

Il primo di questi due testi racconta quella che potremmo descrivere una sorta di “riscoperta del mondo” da parte di Merton, quando iniziò a mettere con frequenza il proprio naso fuori dal monastero. Fu allora che ebbe la celebre “illuminazione” per le vie di Louisville, così descritta nei suoi appunti inseriti in seguito in quel libro e a cui già ho dedicato indirettamente un altro contributo del mio blog:

A Louisville, all’angolo tra Fourth e Walnut, al centro del quartiere commerciale, all’improvviso mi sentii sopraffatto dalla presa d’atto che io amavo tutte quelle persone, che mi appartenevano e io appartenevo loro, che non potevamo dirci estranei pur non conoscendoci affatto. Era come risvegliarsi da un sogno fatto di separazione, di autoisolamento spurio in un mondo speciale, il mondo della rinuncia e della presunta santità…

Il secondo libro, invece, racconta del viaggio in Asia a lungo preparato da Merton e che sarà senza ritorno. Un viaggio importante, in molti sensi “decisivo”, per cercare di riannodare le fila di molti discorsi, viaggi interiori ed esteriori, ricerche spirituali ed esistenziali che lo avevano portato ad arricchirsi enormemente ma anche a sperare di ritrovare la pace a lungo agognata e spesso smarrita.

Tra incontri con figure spirituali di rilievo e pellegrinaggi in luoghi sacri, pian piano il trappista proveniente dal Kentucky sembrò ritrovare squarci di luce degni di questo nome. Quello che più mi ha colpito, e che porterà anche il sottoscritto molti anni dopo a compiere un lungo viaggio-pellegrinaggio sulle orme di questo uomo unico e fuori dagli schemi, illuminato e irrequieto, è ciò che scrive arrivando al Gal Vihāra, tempio rupestre buddhista situato nell’antica città di Polonnaruwa, nello Sri Lanka:

Polonnaruwa, con i suoi ampi spazi alberati. Recinzioni. Poca gente. Niente mendicanti. Una strada sterrata. Sperduta. Quindi giungiamo a Gal Vihāra e gli altri stūpa del complesso monastico. Celle. Montagne lontane, come lo Yucatan.

Il sentiero scende giù a Gal Vihāra: una conca ampia e tranquilla, circondata da alberi. Un basso affioramento roccioso, con una grotta scavata al suo interno, e accanto alla grotta, sulla sinistra, un grande Buddha seduto, a destra un Buddha sdraiato, e Ananda, immagino, in piedi accanto alla testa del Buddha coricato. Nella grotta, un altro Buddha seduto. Mi è possibile avvicinarmi ai buddha a piedi nudi, indisturbato, coi piedi nell’erba bagnata, nella sabbia madida. Quindi il silenzio di quei volti straordinari. I loro grandi sorrisi. Enormi e tuttavia quasi impercettibili. Pieni di ogni possibilità, che non mettono in discussione nulla, che sanno tutto, non rifiutano nulla: la pace non della rassegnazione emotiva ma del Mādhyamika, della śūnyatā, che ha penetrato ogni interrogativo senza cercare di screditare niente e nessuno, senza confutazione, senza dar luogo a ulteriori ragionamenti. Per il dottrinario, per una mente che ha bisogno di posizioni consolidate, una pace di tal sorta, un simile silenzio, possono spaventare.

Fui sopraffatto da un impeto di sollievo e gratitudine per la chiarezza palese delle figure, la chiarezza e la fluidità delle forme e delle linee, il disegno di quei corpi monumentali composti nella configurazione della roccia e del paesaggio: figure, rocce e alberi. E la distesa di nuda roccia digradante dall’altra parte della conca, dove arretrando un po’ si possono vedere le figure in maniera differente. 

Guardando quelle figure, improvvisamente, quasi con forza, mi sentii strappare via dalla visione abituale e non ancora interamente libera delle cose, e una chiarezza interiore, una chiarezza che quasi esplodeva dalle stesse rocce, mi si fece palese ed evidente. La bizzarra evidenza della figura distesa, il sorriso – triste – di Ananda in piedi con le braccia conserte (molto più “imperativo” di quello della Gioconda di Leonardo, perché totalmente semplice e diretto). E la cosa fondamentale in tutto ciò è che non c’è nessun enigma, nessun problema, definitamente nessun “mistero”.

Tutti i problemi sono risolti e tutto è chiaro, semplicemente perché ciò che conta è chiaro. La roccia, tutta la materia, tutta la vita, è piena di dharmakaya … tutto è vuoto e tutto è compassione. Non so se nella mia vita ho mai provato un senso analogo di bellezza e fondatezza spirituale compresenti in un’unica illuminazione estetica. Sicuramente, con Mahabalipuram e Polonnaruwa, il mio pellegrinaggio asiatico ha assunto chiarezza e si è purificato. Intendo dire che ora so e ho visto ciò che oscuramente stavo cercando. Non so cos’altro mi rimane, ma ora ho visto oltre la superficie e l’ho penetrata, e sono andato oltre l’ombra e il travestimento. Questa è l’Asia nella sua purezza, non ricoperta di spazzatura – asiatica, europea o americana – ed è chiara, pura, completa. Dice tutto. Non ha bisogno di niente. E dato che non ha bisogno di nulla, può permettersi di rimanere in silenzio, inosservata, non scoperta. Non ha bisogno di essere scoperta. Siamo noi, asiatici compresi, che dobbiamo scoprirla.

Il Buddha reclinato di Gal Vihāra a Polonnaruwa, che figura anche nella Homepage di Riprenderealtrimenti (foto R. Larini)

Una settimana dopo Thomas Merton morirà a Bangkok, terminando il suo intervento su Marxismo e prospettive monastiche con le celebri parole “So, I will disappear”, le ultime proferite da vivo. Probabilmente “scomparve” con molta di quella pace che aveva cercato esplorando ogni possibile cammino umano e spirituale, nella compagnia dei propri contemporanei, attraversando difficoltà e deserti di varia natura.

Pensando a cosa scrivere per questo Natale ormai alle porte, ho dunque pensato di condividere la sua ricerca, che poi è anche la mia e quella di molti, forse di tutti. In radice c’è un essere toccati dalla pace. Quindi un volerne godere quasi da soli, nell’intimo. Poi, però, se si fa spazio all’altro, a ogni altro, la pace la si smarrisce nel frastuono e nel dolore del mondo, che vanno assunti in profondità e in radice se si vuole continuare a essere realmente umani. Spesso un simile smarrimento dura a lungo, e si è chiamati a nuovi cammini, a compiere nuove “incursioni nell’indicibile” e nel non ancora detto. Ma la luce in qualche modo rimane e può tornare alla superficie delle nostre coscienze. Va (ri-)scoperta, lasciata affiorare.

Il mio augurio per voi tutte e voi tutti è che la luce torni sempre, prima o poi, a fare breccia nelle vostre vite. La luce della vita, del nostro slancio vitale, che nel suo mistero, forse, è più semplice e limpida di quanto non immaginiamo.

Buon Natale! La luce e la pace splendano su di voi, in voi e con voi!