Ogni filosofia politica e ogni analisi sociale riconosce la necessità di strutturare i gruppi umani attribuendo ruoli e funzioni, regolate da leggi e norme di vario genere. Perfino i pensatori anarchici, che pure ambiscono all’annullamento finale dello stato e di ogni potere costituito, ritengono necessarie queste cose al fine di conseguire lo scopo agognato.

Per questo motivo, ho sempre partecipato con interesse alla creazione di statuti e forme di governo, ritenendole un’occasione fondamentale per pensare alle ragioni del nostro stare insieme, ma anche al modo in cui la libertà di ciascuno può consentirgli di realizzarsi e di crescere malgrado gli altri, non contro di loro e magari pure insieme a loro.

Uno dei problemi più grandi, forse la radice di ogni altro, quando si affrontano questi temi in ambito religioso, è la sacralizzazione. Con ciò intendo la collocazione di idee, valori o persone in una sfera intoccabile, indiscutibile, irraggiungibile.

Pensando al cristianesimo, un punto fondamentale per i membri di qualunque chiesa ufficiale (che comunque, a mio avviso, non esauriscono il fenomeno cristiano) è il riconoscere un simile statuto di sacralità a Gesù Cristo, chiamato “Signore” proprio in quanto gli si riconosce un ruolo normativo e un compito di guida “altri”, più che umani (se volete, divini).

Tramite Gesù di Nazareth, tuttavia, l’idea stessa di sacro è stata radicalmente ribaltata: nessuna separazione, perché ormai, con la rottura del velo del Tempio dove fino alla morte di Gesù risiedeva la presenza di Dio, essa abita ormai tutta la terra. Come amava dire Teilhard de Chardin: “Ogni materia è ormai incarnata”. Non più sacerdoti “separati”, ma un popolo di sacerdoti, chiamati a celebrare un inno di lode e ringraziamento sul mondo e ad aiutarlo a sentirsi libero e unito. E il confine stesso tra “dentro” e “fuori” del sacro è per questa stessa ragione ormai impossibile da definire (dunque non è necessariamente determinato dall’appartenenza o meno alla chiesa!).

Quando farisei ed erodiani (cioè gli uomini religiosi ostili e fedeli allo stato) chiedono lumi a Gesù sul tributo a Cesare, egli risponde con la nota sentenza: “Date a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio” (Mc 12,17).

Quasi sempre questo principio viene applicato alla valutazione delle autorità civili, per ribadirne la legittimità anche in una prospettiva religiosa. Per contro, i commentatori più devoti non mancano di far osservare come comunque ciò che sta veramente a cuore a Gesù è la fedeltà a Dio, che va cercata al di sopra di ogni altra cosa (“a Dio quel che è di Dio”).

Da persona che ha vissuto a lungo le dinamiche interne alla chiesa e alle chiese, nonché quelle della vita religiosa, mi domando tuttavia: cosa succederebbe se si applicassero le parole di Gesù alle varie forme di autorità nella chiesa? Cosa accadrebbe se la radicale trasformazione del sacro intervenuta con lui diventasse, una volta per sempre, patrimonio della chiesa e delle chiese?

Molto presto, infatti, nelle chiese si è iniziato a dire che in esse chi deteneva l’autorità era, in qualche modo, un alter Christus, facendo leva in maniera molto forzata e indebita sulle parole stesse di Gesù: “Chi ascolta voi, ascolta me” (Lc 10,16). L’obbedienza ai superiori nella vita religiosa si fonda in maniera ancora molto preponderante su un simile principio, e non solo nel cattolicesimo. La Regola di san Benedetto dice che l’abate “tiene il posto di Cristo” in monastero, solo per citare l’esempio forse più antico e noto nell’Occidente cristiano. 

Si è poi ripristinato un sacerdozio non di tutti, a cui è stato conferito uno statuto di particolare “conformazione a Cristo”. Nella chiesa cattolica, tra i capisaldi del diritto canonico vi è l’idea che i ministri ordinati siano gli unici ad avere piena potestà di governo nella chiesa in virtù della loro particolare conformazione a “Cristo Capo”.

In questo modo, una necessità umana e ineludibile (dotare di forme di governo e autorità ogni gruppo umano, compresi quelli ecclesiali) è stata impregnata di elementi sacrali, che oltre a essere difficilmente giustificabili a partire dalle parole e i gesti di Gesù di Nazareth, in realtà rendono molto difficile fare quello che, per contro, andrebbe fatto: adeguare e aggiustare strutture e norme per far sì che le persone possano vivere pienamente i loro desideri e la loro vocazione.

Sto forse dicendo che abbiamo bisogno di anarchia o di una semplice “democratizzazione” delle comunità ecclesiali e religiose? No, il problema non è questo. La strutturazione di un gruppo particolare di esseri umani dipende dal motivo per cui esiste. Un esercito, ad esempio, non può essere mai veramente “democratico”, perché in emergenza e in guerra ci vogliono compattezza, rapidità di decisione ed efficacia. Realtà come Taizè, Bose, l’Arche e molte altre ancora senza una leadership forte e centralizzata non avrebbero mai prodotto tutte le meraviglie che riconosciamo loro. Ma non sono per contro l’unico modello, né forse quello ideale di comunità cristiane (lo dico con sofferenza, come potete immaginare).

Del resto, Sorella Maria di Campello è morta circondata da pochissime sorelle, e Charles de Foucauld addirittura solo. E quanto a Gesù, non si può certo definire trionfo umano la comunità da lui creata in vita.

Inoltre, non va mai dimenticato che il diritto e le regolamentazioni, lungi dall’essere il frutto di manie legalistiche, sono sempre la forma più fondamentale di tutela dei più deboli, come ci hanno insegnato i padri fondatori del diritto romano. È grazie al diritto che sarà sempre possibile proteggere chiunque, nelle chiese e non solo, da abusi e violenze di ogni genere. Ed è molto triste, va detto per inciso, che dei cristiani debbano così spesso ricorrere a tribunali civili per vedersi riconosciuti diritti sacrosanti che quelli ecclesiastici hanno negato loro.

Il vero nodo è ritenere solamente umane le nostre istituzioni, senza sacralizzarle, lavorando costantemente con fatica per adatterle ai tempi e migliorarle, lasciando al tempo stesso che il vangelo permei ogni fibra del nostro essere per aiutarci a discernere lacune, carenze e disumanità in ogni nostro agire quotidiano, in ogni nostra autorità, legge o istituzione.

“Dare a Cesare quel che è di Cesare” diventa allora riconoscere la piena dignità di ogni istituzione umana, senza sottrarre in alcun modo la chiesa o le chiese a un’analisi “laica”, “secolare”, “desacralizzata” dell’autorità. Riconoscere la limitatezza ma anche l’ineludibilità delle nostre istituzioni.

“Dare a Dio quel che è di Dio”, per contro, significa riconoscere ciò che è suo e non nostro. Tra cui Gesù Cristo, di cui, al massimo, siamo indegni annunciatori e discepoli umili e imperfetti. Mai “vicari” o “sostituti”, per nessuna ragione al mondo.