Quarto contributo dedicato al monachesimo e alla sua attualità, apparso sul numero 7/2022 di Rocca. Dopo aver spiegato in  Un monachesimo per tutti come intenda riprendere altrimenti la vita religiosa ed eventualmente pubblicare un libro sull’argomento, e aver esplorato in un secondo e un terzo contributo le ombre e le luci dell’immaginario monastico, cerco ora di raccontare da dove provenga storicamente l’esperienza monastica.

Ripercorse le ombre e le luci dell’immaginario monastico, sorge tuttavia spontanea la domanda: ma da dove viene il monachesimo, sia nel senso eventualmente geografico, sia in quello delle sue radici ultime nell’esperienza umana? La risposta ovviamente non è facile, sia perché il fenomeno monastico affonda le proprie radici nella notte dei tempi, sia perché le sue fonti scritte compaiono inevitabilmente a secoli di distanza dal sorgere delle prime forme di ricerca monastica.

Un punto di partenza è la ricerca spirituale degli esseri umani, resa possibile dalla creazione di linguaggi che non solo consentirono una comunicazione esterna e una socializzazione maggiormente strutturata (fino alla creazione di vere e proprie civiltà), ma che permisero altresì un rafforzamento delle attività interiori e spirituali. Con il linguaggio nacque infatti la ricerca di pensiero e spirituale dell’umanità.

Alcune persone, per indole e scelta, o più semplicemente perché costrette a ciò da circostanze esterne, compresero che vivendo appartate, lontane dalle regole comuni della vita sociale, potevano intraprendere un cammino di trasformazione interiore ed esteriore, tramite la lotta contro istinti e impulsi primordiali, alla ricerca di modalità nuove, “altre” di vivere l’esistenza umana.

Quando una simile ricerca spirituale abbracciò forme di disciplina della vita spirituale e quotidiana, sorsero le prime forme di vita monastica. È soprattutto in Asia che si svilupparono forme di tal genere di ricerca religiosa. Ciò nonostante, se guardiamo all’epopea dei padri del monachesimo del deserto, da Antonio l’Egiziano in poi, è possibile individuare molti tratti comuni a Oriente e Occidente.

Una prima differenziazione di fondo che sorse tra modi di concepire la “vita monastica”, non solo da un luogo a un altro ma talvolta anche all’interno di singole tradizioni, è quella tra chi riteneva il monachesimo un tratto universale dell’esperienza antropologica e chi invece, sposando una visione “organicista” del genere umano, lo considerava una forma di vita solo per alcuni ma a beneficio di tutti.

Alla prima categoria appartengono in ogni epoca quanti pensano sia importante divenire monaci e monache per un tempo determinato al fine di conseguire una piena maturità umana e spirituale. Ancor oggi si tratta di una convinzione diffusa in paesi a maggioranza buddhista come la Cambogia e la Thailandia. Ed è probabilmente questa la ragione per cui anche nell’Occidente secolarizzato si avverte un forte bisogno di vivere tempi anche prolungati di ritiro, “lontani dal frastuono” della quotidianità, non solo per ricaricarsi e prendersi una pausa, ma per imparare a vivere meglio.

Nel secondo gruppo rientrano invece alcune tradizioni confluite ad esempio nel Canone pāli della tradizione buddhista, secondo cui monaci e monache sono “come la goccia d’acqua sul loto” e si separano dal mondo per trasmettere i valori morali e spirituali su cui chi non è monaco (i “laici”) è chiamato a fondare le proprie prassi quotidiane e l’intera esistenza. In quest’ultimo caso, tra monaci e laici si stabilirebbe una simbiosi, in cui i primi insegnano ai secondi alcune fondamentali verità spirituali e pratiche, mentre i secondi forniscono ai primi i beni materiali necessari alla vita di ogni giorno. Non a caso, in pāli e in sanscrito, le parole che traduciamo con “monaco” (bhikkhu e bhiksu) vogliono dire letteralmente “mendicante”.

L’istanza monastica fa capolino anche in religioni che per contro non hanno mai sviluppato forme vere e proprie di vita monastica, come ad esempio l’ebraismo, dove forme di ascesi (dal greco áskēsis, esercizio) sono previste sia per accostarsi al sacro sia nell’imminenza di momenti che richiedono la massima concentrazione di energie fisiche e spirituali, come ad esempio la guerra.

Alla radice del fenomeno monastico vi è dunque una qualche distanza dalla civiltà, una solitudine che viene impiegata per sviluppare in maniera più libera e creativa le proprie facoltà umane e spirituali, fino a strutturare cammini di umanizzazione che diventano eloquenti anche per altri. E qui si innesta ogni ulteriore elemento della ricerca religiosa che siamo soliti collegare a monache e monaci: guide spirituali, regole, comunità… Con un monito importante, però: nessuna di esse è alla radice del monachesimo, ma può servirne la ricerca e il cammino a condizione di non sostituirsi all’esigenza originaria.

Nel momento in cui un’esperienza umana ha senso non solo per il singolo che l’ha vissuta o strutturata, ma diventa eloquente anche per altri, sorge l’esigenza complessa di comunicare tale esperienza religiosa. E si materializzano i misteriosi legami con uno dei desideri più ambigui che abitano il cuore umano: quello di esercitare sul prossimo un potere, di determinare le vite altrui, di “guidare” l’altro. Non a caso, in tutte le tradizioni monastiche, si sottolinea come nella situazione ideale non è la guida spirituale e scegliersi gli adepti, ma è chi ha trovato eloquente la vita e l’esperienza di un potenziale mentore a decidere liberamente di chiederne l’aiuto. Ciò che però è vitale è che l’eloquenza di una vita concreta è alla radice di qualsiasi altra eloquenza (di tradizioni scritte o orali, ad esempio) e la supera per capacità di coinvolgimento e trasformazione. E dunque la disciplina monastica è e resta in radice qualcosa che si impara vivendo almeno per un certo tempo accanto a chi già la vive.

E le regole monastiche? La formazione di documenti scritti collegati a un’esperienza religiosa, come insegnano le teorie dell’identità, interviene sempre in un secondo tempo, e per ragioni abbastanza ricorrenti e ben riconoscibili. La prima di esse è la scomparsa degli iniziatori di esperienze o discipline religiose, a cui si accompagna – nel caso soprattutto di un certo successo e diffusione delle stesse – il problema di come veicolarne in maniera fedele le intuizioni originali.

Nel corpus “canonico” di una religione, le tradizioni orali e scritte che ne narrano i fondamenti sono l’unica via di accesso a tali fondamenti, ma anche una loro interpretazione parziale o un “travisamento” inevitabili. Le regole monastiche, caso particolare di scritti canonici religiosi, non sfuggono alle potenzialità e ai rischi di ogni codificazione scritta dell’identità: tramite esse si narra un’esperienza, se ne sottolineano dei tratti e si danno indicazioni precise su come poterla vivere. Ma la regola non è l’esperienza, né è una garanzia del possibile inverarsi di un’esperienza monastica, religiosa o spirituale.

Il discorso comunità, invece, a cui dedicherò maggiore spazio più avanti nel mio itinerario di riflessione, non è di per sé intrinseco alla ricerca monastica, fin dalle origini. O meglio, lo è solo nella misura in cui la piena crescita umana e spirituale comporta inevitabilmente uno sviluppo anche della dimensione sociale del singolo. Nel monachesimo, infatti, il vivere insieme è generato in radice dall’accostarsi a luoghi e persone dove si percepisce una profonda qualità di ricerca monastica. Accostandosi a singole persone o luoghi per un dato periodo di tempo ci si ritrova inevitabilmente a vivere accanto ad altri.

A seconda della religione in cui si sviluppa l’esperienza monastica, la vita comune può assumere sfumature differenti. Nel cristianesimo la vita comunitaria ha una certa importanza, visto il collegamento presente fin dalle origini cristiane tra amore reciproco e messaggio evangelico. Anche nel monachesimo cristiano, tuttavia, la forma cenobitica è solo uno dei possibili sviluppi della ricerca religiosa di tipo monastico.

Alla luce di queste riflessioni sulle origini della parabola essenziale del monachesimo, sorge dunque la domanda: il monachesimo, oggi, è in crisi? E se lo è, la sua crisi è inarrestabile oppure è ancora possibile salvarne le intuizioni universali dando risposte convincenti anche alle donne e agli uomini di oggi? Nel prossimo contributo tenterò di abbozzare qualche timida risposta.