Da diverso tempo, ovverosia da ben prima dell’insorgere dell’attuale pandemia, provo un certo fastidio di fronte all’uso molto diffuso di termini come false notizie, controllo dei fatti, o di appelli a consegnare alla scienza e agli scienziati le decisioni sulle politiche ambientali e sulle strategie politiche da contrapporre a malattie e problemi sanitari, perché gli scienziati hanno una conoscenza “oggettiva” dei problemi.
Come ogni cliché, anche tali invocazioni contengono (mezze) verità. Come ogni cliché, però, il problema è da un lato che tali “verità” rischiano di soffocare la creatività del pensiero (perché assai di rado esistono soluzioni certe, e ancor più di rado le teorie riguardo ai fenomeni nuovi resistono all’esame del tempo) e dall’altro – e questo è più problematico – che ogni cliché o luogo comune, se messo in mano a non esperti (e Internet è un vettore notevolissimo in tal senso) può prestarsi a manipolazioni o dar luogo a visioni molto distorte che a volte si trasformano in clamorose e pericolose falsificazioni.
Prima di addentrarmi in esempi e proporre possibili vie d’uscita, voglio aggiungere qualche elemento biografico, non perché la mia esperienza personale sia necessariamente universale, ma perché può aiutare a dirimere alcuni nodi cruciali della questione. La mia vita intellettuale è stata infatti arricchita da moltissime persone, a cui sono profondamente grato, ma se dovessi scegliere due figure decisive per il mio modo di pensare e vedere il mondo sia della ricerca (scientifica e umanistica) che della vita politica, i nomi che mi vengono in mente sono senza dubbio Karl Popper e Paul Ricœur.
Il primo ebbi la fortuna di incontrarlo nel settembre del 1983, quando avevo diciassette anni ed ero appena giunto nel Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico di Duino. Nel noto castello del paese si tenne una conferenza in cui Popper mandò seriamente in crisi la mia visione della scienza, che credevo (al pari di molti oggi) molto “moderna”, ma che in realtà era decisamente pre-kantiana e pre-moderna.
In maniera sintetica, Popper si era molto indispettito in gioventù di fronte alle affermazioni di nuove discipline come la psicologia e la psicoanalisi, e le definiva pseudo-scienze. Al di là della possibile ingenerosità di tale definizione, il punto fondamentale della visione popperiana della scienza era che qualunque teoria che potesse essere solo confermata ma non smentita dai successivi esperimenti non fosse una vera e propria teoria scientifica. Per dirla brutalmente, il grande viennese riteneva che diverse discipline e teorie si sentissero così giuste e perfette da poter essere mantenute anche in presenza di esperienze che le contraddicessero chiaramente, e questo le rendeva in una certa misura diverse e meno nobili rispetto alla vera scienza.
Per contro, a suo avviso, l’antica visione scientifica risalente a Francis Bacon basata sull’idea che si potessero osservare in maniera neutrale gli eventi o “fatti” esterni, costruendo per induzione le necessarie teorie scientifiche atte a spiegarli, era stata definitivamente superata dalla filosofia di Immanuel Kant e dei suoi successori. La scienza funziona per idee e preconcetti, secondo Popper, e “la base empirica delle scienze oggettive non ha in sé nulla di assoluto. La scienza non poggia su un solido strato di roccia … è un edificio costruito su palafitte” (Logik der Forschung V,30).
Dunque non esistono i fatti nudi e crudi, che noi incontriamo in modo puro e che impariamo a decifrare, ma ogni persona di scienza e di ricerca (vero significato della Forschung) muove incontro alla realtà osservata a partire da idee, categorie e schemi mentali precostituiti, che vengono messi alla prova e corretti (la celebre “falsificazione” popperiana) grazie agli errori che si commettono. Perciò non esistono fatti assoluti e oggettivi secondo Popper, ma solo opinioni, e la scienza è fallibile: proprio lì risiede la sua forza.
L’idea stessa di verità che ne deriva è molto diversa da quella di una successiva scoperta di porzioni della verità totale, nella speranza di poter arrivare un giorno a disporre di una mappa che corrisponda appieno alla realtà oggettiva delle cose. Ma la verità non è neppure una questione di rigore o di coerenza logici, senza alcun rapporto con la realtà esterna. Tuttavia noi possiamo parlare con chiarezza solo delle nostre mappe mentali (e il vero ricercatore si dimostra tale solo se sa comunicare, ovverosia rendere la sua mappa comprensibile ad altri), anche se la mappa non è il territorio, secondo il citatissimo aforisma di Alfred Korzybski, e quantunque a differenza del territorio, che mai potremo conoscere con certezza, la mappa cambi piuttosto di frequente.
Malgrado l’incontro con Popper, seguii sulle prime la mia intenzione originaria di studiare le spiegazioni ultime dell’universo, e mi laureai in fisica con una tesi sui modelli matematici della gravità quantistica. Ma i miei studi non sono mai più avvenuti all’insegna della certezza e dell’arroganza del sapere, e già mentre studiavo fisica teorica incominciai ad aprirmi a molti altri campi “umanistici”, in una sorta di impossibile fascinazione enciclopedica riguardo al sapere.
E qui interviene il mio incontro con Ricoeur. All’epoca (nel 1999) ero costantemente, in qualità di editore, a caccia di libri da tradurre e/o da pubblicare. Il grande filosofo francese mi accolse nella sua casa alle porte di Parigi e, dopo una lunga ed entusiasmante conversazione su tutto e il contrario di tutto, notando la mia stanchezza mi disse che anche lui, ogni giorno, aveva bisogno di fare cinque minuti di pausa ogni due ore di studio e di lettura. Peccato che io avessi all’epoca 33 anni, e lui 86… Prima di incontrarlo avevo letto poco o nulla di suo. Dieci anni dopo, grazie ai miei studi dottorali dedicati al suo pensiero, avevo finito per leggere assolutamente tutto quello che aveva scritto (compresi gli appunti personali), in rigoroso ordine cronologico, per capire la genesi del pensiero di una delle menti più brillanti del XX secolo.
Tra le moltissime lezioni che ho tratto dal grande filosofo francese, una delle più importanti è il suo continuo insistere sul fatto che ogni teoria e disciplina ha un suo interesse e valore, purché se ne definiscano i fondamenti epistemologici e non si cerchi di utilizzarla a fini impropri. Detto più semplicemente e forse anche banalmente, se utilizzo la Bibbia per fare astronomia, compio un errore fondamentale di impostazione, e lo stesso accade se faccio ricorso alla comprensione attuale di un vocabolo o di una struttura linguistica per capire il senso di uno scritto di mille anni fa. Ma tutto ciò non toglie che vi siano usi legittimi della Bibbia e della comprensione attuale dei vocaboli e delle strutture linguistiche.
Chi ha avuto la pazienza di leggermi fino a questo punto si chiederà: ma cosa c’entra tutto ciò con il Covid-19, le false notizie, il controllo dei fatti? Davvero molto, come molti di voi avranno già intuito, ne sono certo.
Partiamo dall’affermazione, davvero inappropriata, sia di alcuni politici sia di molte “voci del popolo” su Internet, secondo cui dovrebbe essere la scienza a decidere cosa fare per contrastare l’attuale pandemia.
In primo luogo, la scienza produce un sapere veramente utile e imprescindibile quando può fare previsioni basate su analisi compiute secondo protocolli adeguati: un fenomeno nuovo (un nuovo virus) può essere compreso e conosciuto in modo serio solo predisponendo tutta una serie di esperimenti e di verifiche che richiedono determinate condizioni e tempo, molto tempo. Nessuno scienziato, anche se ha studiato tutti i virus precedenti, dispone a breve termine di certezze riguardo a fenomeni come il Covid-19.
Proprio perché in situazioni come quella di una feroce pandemia il tempo è un fattore vitale, e siccome la salute di singoli e intere comunità non è un problema isolato ma si ricollega a molti altri livelli di operatività sociale, entrano in gioco molte altre competenze, che in senso stretto non appartengono al virologo o al biologo. Parlo ovviamente delle competenze di natura economica e sociale, ma anche di natura psicologica, di scienza della comunicazione e gestionale.
Se da un lato è vero che la politica non può e non deve ignorare gli esperti dei campi specifici (gli scienziati), nessuno scienziato ha di per sé le necessarie competenze politiche. La politica è infatti una vera e propria arte/tecnica del possibile, che si impara e si affina nel corso degli anni, e non si può improvvisare (e questo vale anche se si viene prestati alla politica da professioni apparentemente affini, come quella di giurista, di economista o di accademico…). Si ricordi quanto ha insegnato Ricœur sull’utilizzo improprio delle competenze in un campo per determinarne un altro…
In secondo luogo, proprio perché l’attuale pandemia non è né uno scenario a cui siamo abituati né è provocata da un virus che già si conosceva a fondo, in realtà gli scienziati hanno palesato, come è giusto e normale (salvo casi di follia…), ovvie divergenze di opinioni. La ricerca del “miglior virologo”, dell'”autorità indiscutibile” e via dicendo compiuta dai mezzi di stampa, ancorché comprensibile, andrebbe gestita con molto più rigore e responsabilità comunicativi. In realtà, appaiono molto in pubblico solo alcuni scienziati, e non necessariamente perché sono i più competenti (anche qui, come in politica, c’è chi si è costruito dei veri e propri piccoli imperi nella rete…).
Non solo, gli scienziati veramente seri hanno cercato di non precipitarsi in spiegazioni dei dati forniti da paesi differenti, per l’ovvio motivo dell’enorme differenza di protocolli adottati per registrare i “fatti” (e dunque della dipendenza degli stessi dai criteri scelti per individuarli). Purtroppo è quanto hanno fatto invece i giornalisti di mezzo mondo, specie quelli proni all’autoflagellazione, come gran parte della stampa italiana. Oltre a trascurare il fattore tempo (e i giornalisti, va detto, spesso non ne hanno molto), gli autori della stragrande maggioranza delle “analisi” di tal genere brillano purtroppo per la loro fondamentale ignoranza sulla scienza e sul metodo scientifico.
Riguardo all’altra gamma di “scienziati” spesso invocata a destra e a manca, quella degli economisti, è bene ricordare che, malgrado quello che molte testate autorevoli sembrano voler trasmettere (l’economia come scienza esatta, in grado di fare previsioni assolute e indiscutibili), le divergenze di opinione tra economisti sono enormemente più significative di quelle tra virologi e biologi. Con una complicazione preoccupante, però: ben pochi teorici dell’economia sembrano voler sottostare ai moniti popperiani, e continuano a vendere come oro colato teorie che non hanno in realtà permesso di fare alcuna chiara previsione confermata in anni successivi.
I teorici dell’austerity e dei pareggi di bilancio, ad esempio, vorrebbero insistere con le loro teorie malgrado molti paesi a cui sono state applicate siano in profonda crisi ormai da molti anni. Un po’ come quel mio amico inglese (persona peraltro squisita) che insiste sul fatto che se l’NHS (il sistema sanitario inglese) sta andando a pezzi non è per le privatizzazioni, ma perché bisognerebbe essere ancora più liberisti e privatizzare tutto facendo sì che lo stato non gestisca in nulla la salute dei cittadini e che sia il mercato a regolare tutto. Il che equivale a erigere la “mano invisibile” di Adam Smith a realtà oggettiva, assoluta e universale dell’economia, senza possibilità di discussioni (e soprattutto negandone qualsiasi effetto negativo su molti). Popper, se ci vede o ci sente dall’aldilà, penserà di aver vissuto invano…
Ma quello che più mi preoccupa è la nuova “religione dei fatti”, in nome della quale si iniziano a ipotizzare nuove (decisamente orwelliane) forme di censura, anche ufficiale, di chiunque ad essi (i fatti) non si conformi. Con ciò si assume di poter mettere da una parte l’informazione oggettiva e dall’altra quella “propagandistica”, dimenticando che non esistono fatti senza interpretazioni, e che nel mondo odierno, forse a causa di Internet, forse a causa di un desiderio di semplificazione, si polarizza ogni discussione lasciando poco spazio a quel grande motore del progresso che è il dubbio.
Con questo non alludo al fatto che qualsiasi posizione abbia una sua dignità: quella dei terrapiattisti, ad esempio, palesemente non ne ha. Quella che manca però è la comprensione di come i fatti non siano lì prima di noi in maniera magica e assoluta, ma vengano invece a noi a seconda di quello che stiamo cercando.
Anche se non siamo malevoli o maliziosi (assumiamo pure che la maggior parte delle persone siano benintenzionate), partiamo alla ricerca (la Forschung!) di qualcosa in base a idee, preconcetti, pre-giudizi, e troviamo in larga misura solo quei fatti che il nostro “protocollo personale” di ricerca ci consente di scovare. Non è che diamo necessariamente risposte diverse alle stesse domande, ma rivolgiamo domande diverse alla (medesima) realtà! E meno siamo liberi (anche nei confronti di noi stessi), meno sapremo accettare di comprendere i percorsi altrui e di rivedere di conseguenza i nostri, grazie alle nuove domande acquisite nell’incontro con l’altro.
Internet di per sé non favorisce né la scienza né la conoscenza. O meglio, lo fa solo per chi già si è dotato dei metodi appropriati e delle competenze necessarie a discernere cose più corrette da cose meno corrette, improvvisazione da approccio scientifico, e via dicendo. Per tutti gli altri (e sono la maggioranza) Internet è fonte di sterile polarizzazione: o bianco o nero, o con me o contro, fatti contro fake news. Perché la propaganda è sempre quella che fa l’altro, il “nemico”, mentre “noi”, i buoni, gli intelligenti, condividiamo e divulghiamo cose buone, intelligenti, e soprattuto vere.
E vengo ai timidi tentativi di risposta e di proposta. Cosa fare allora? Accettare lo status quo? Attribuire la stessa dignità a qualsiasi teoria (si pensi all’espressione sempre più corrente “Signor X., qual è la sua verità”)? No di certo.
Innanzitutto, bisogna non rendere vani duemila e più anni di esperienza umana: la conoscenza della storia è fondamentale per capire cosa è antico e cosa è nuovo, e come non ripetere gli stessi errori.
In secondo luogo, come hanno ben compreso sia gli istitutori del Baccalaureato Internazionale (IB) che quelli del Baccalaureato Europeo (EB), negli ultimi anni delle scuole superiori deve esserci assolutamente un insegnamento obbligatorio, in qualsiasi scuola (io aggiungerei: anche in quelle tecniche) degli elementi fondamentali della filosofia: come funziona la conoscenza, cos’è la scienza, cos’è la verità, come costruiamo i nostri valori, quali modi di argomentare sono corretti e quali no, e via dicendo. In tal senso sono semplicemente scioccato al vedere quanto poco sia stata compresa, in termini pratici, la rivoluzione apportata al modo di pensare la scienza da Kant a Popper a molti altri fondamentali pensatori dell’epoca moderna, e come si rischi di tornare a visioni ingenue e pericolose della “salvezza” che viene dalla scienza.
Infine, al termine di molti, troppi anni in cui la politica è stata demonizzata e in cui se ne è invocata la sostituzione con la tecnica, bisogna tornare a formare per davvero a una mens politica. Come? Non tanto con corsi ad hoc (che rischiano di attirare solo gli ambiziosi non interessati al bene della polis o i desiderosi di potere), ma investendo denaro, e molto, nella cultura. È venuto decisamente il tempo di investire meno su marketing e comunicazione, e di più su cultura, creatività e immaginazione.
La vera innovazione (e io, di professione, mi occupo proprio delle ultime frontiere dell’innovazione digitale…) è questa: restituire al pensiero umano la sua forza creativa. Altrimenti “innovazione” resterà solo uno strumento collegato alla crescita economica, e non allo sviluppo globale dell’umanità. Altrimenti – e in Italia siamo campioni di questo sport – cercheremo una palingenesi della politica grazie all’identificazione di un “leader adeguato”, come se la vera leadership potesse emergere senza interi quadri di persone preparate e competenti alle spalle…
Perché solo la cultura, in tutte le sue forme, rende possibile l’arte, ovverosia la capacità di immaginare il mondo e correggerne almeno qualche bruttura. E solo la cultura, di fronte all’ovvia (e salutare!) impossibilità di costruire un mondo ideale, ci permette di dare un senso sia alle nostre vittorie che alle nostre sconfitte, sia alle nostre forze che alle nostre debolezze.
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