Un ulteriore contributo, il penultimo, alla serie di articoli sul tema della comunità pubblicato nel mio blog. Poi avranno inizio diversi confronti e la lenta gestazione di un nuovo libro.

Gli esseri umani sono dotati di una notevolissima creatività intellettuale, spirituale, artistica, pratica (e si potrebbero aggiungere chissà quali e quanti altri aggettivi). Con essa e grazie a essa, oltre a risolvere problemi e superare ostacoli, uomini e donne di ogni tempo e luogo sanno dare senso e immaginare un mondo altro, un altrimenti, che talvolta ha la forza di diventare realtà concreta e duratura. Per questo un mondo senza arte, letteratura, filosofie e religioni sarebbe, in realtà, ancora più povero di un mondo senza grande evoluzione tecnologica o luminose teorie scientifiche.

Finché la creatività è un fatto individuale, che viene esercitato e sviluppato contando sostanzialmente solo sulle forze e le risorse di chi la possiede e la fa crescere in se stesso o in se stessa, pur avendo un influsso talvolta non indifferente sugli altri essa ha raramente un impatto problematico sulla libertà altrui. Gli interlocutori dell’intellettuale, dello spirituale, dell’artista, del creativo, possono infatti scegliere quale uso farne, come fruirne o non fruirne, senza essere né costretti né in qualche modo coinvolti loro malgrado nella parabola della creazione spirituale di qualsivoglia genere.

Tutto cambia decisamente, però, quando la creatività diventa un fatto sociale, collettivo, un’impresa non più solamente individuale, a prescindere dalle ragioni soggiacenti a una simile socializzazione dell’estro e dello spirito.

Innanzitutto e sostanzialmente in positivo (come in parte già ci insegna il regno animale), l’unione delle risorse individuali porta non solo a sommare le potenzialità dei singoli, ma altresì alla genesi di nuove possibilità e orizzonti. Basti pensare allo sviluppo delle civiltà umane, mediante l’unione di molti spiriti creativi e la creazione di luoghi deputati al pensiero e alla crescita dello spirito e della cultura. E ai segni collettivi molto concreti di tali civiltà, come ad esempio lo sviluppo di opere architettoniche capaci di essere linguaggio di libertà e di aspirazioni ed emozioni comuni e condivise, in grado di resistere almeno parzialmente alla forza sgretolatrice e inesorabile del tempo. Cosa sarebbero le nostre vite senza tutto ciò che è andato dai primi momunenti megalitici e le straordinarie piramidi d’Egitto, fino ai capolavori dell’architettura contemporanea? Come ogni altra specie animale, probabilmente sopravviveremmo. Ma sarebbe un vivere umano, pieno, degno delle nostre aspirazioni?

Oltre a un simile aspetto genealogico, però, il convergere degli spiriti porta inevitabilmente con sé la necessità di fare i conti con tutto ciò che caratterizza i gruppi umani: organizzazione, segni condivisi e relazioni e, in ultima istanza e inesorabilmente, il potere, la libido dominandi che ci accompagna da sempre e che è fonte di grandezze e di miserie, di esaltazioni e di umiliazioni inenarrabili. Un esempio molto bello di questo intreccio talvolta inestricabile è la serie televisiva I pilastri della terra, scritta da John Pielmeier adattando l’omonimo romanzo di Ken Follett, in cui attorno alla costruzione nel XII secolo della cattedrale di Kingsbridge (città fittizia) si assiste a tutto il dramma suscitato dagli incontri e dagli scontri tra figure simbolo delle aspirazioni umane (dalle più basse alle più nobili e spirituali).

Un’applicazione molto concreta di queste considerazioni si ha nella vita religiosa, laddove con tale termine si intenda la scelta di plasmare la propria esistenza a partire da ispirazioni forti e durature collegate al divino o alla religione. Alla sua radice vi è spesso una sorta di “ideale monastico”, una modalità radicale e profondamente intima e personale di vivere il rapporto con il nucleo della propria ispirazione. Da cui il desiderio di unificazione attorno a un principio (si veda l’origine della parola monachós), che porta a un desiderio di ritirarsi, di guardare altrove e nell’intimo, corredato o meno dalla limitazione di alcune sfere (in primis anche se non necessariamente o esclusivamente quella sessuale) onde concentrarsi su ciò che è ritenuto “essenziale”.

Il “monachesimo” lo si può vivere anche da soli, senza appartenere a una comunità che ha relazioni e commerci quotidiani. L’eremitismo è sempre esistito e sempre esisterà, anche in seno alle nostre città e in una miriade di forme differenti. Esistono inoltre forme talvolta fiorenti di vita religiosa (si pensi a monasteri come quello odierno di San Macario, in Egitto) che si reggono su un regime “idiorritmico”, ovverosia in cui i singoli sono collegati unicamente dal padre spirituale che ne accompagna il cammino cercando di adattare le esigenze della vita spirituale e monastica a ciascuno.

In ambito cristiano (ma non solo), la dimensione comunitaria non scompare tuttavia quasi mai dall’orizzonte del religioso, quanto meno sotto forma di partecipazione alla liturgia, ossia alla preghiera comune della chiesa e del gruppo religioso di appartenenza.

Gran parte delle nostre comunità “religiose”, però (ma molto di ciò che dico si applica anche alle parrocchie e alle associazioni di credenti), viene all’esistenza quando diverse persone riconoscono di avere una comune “vocazione” e perciò ritengono sia di potersi aiutare a rispondere meglio alle esigenze e le ispirazioni avvertite pur sempre in maniera intima e individuale, sia di dover dare luogo a raggruppamenti in cui la risposta collettiva, la creazione comunitaria, acquisisca dimensioni ulteriori rispetto al puro cammino di crescita individuale.

Nel momento stesso in cui l’avventura religiosa diventa “comunitaria”, ad essa si applicano immancabilmente tutte le analisi e le considerazioni sviluppate dalle discipline che si occupano di raggruppamenti umani, dalla sociologia alla psicologia sociale, anche laddove insorgono questioni di natura patologica. Detto altrimenti, le comunità religiose sono soggette a tutte le dinamiche virtuose ma anche alle deviazioni proprie di qualsiasi gruppo umano, da quelle collegate al potere e al suo esercizio, a quelle connesse al tipo di persone che un gruppo attrae a seconda della propria conformazione e strutturazione.

Oggi la vita religiosa di ogni genere è decisamente in crisi nel nostro mondo occidentale: scarsa frequentazione delle chiese, qualità di vita umana spesso ai limiti del tollerabile in conventi e istituzioni ufficialmente religiose, enorme difficoltà di reperimento di guide spirituali capaci di valorizzare le aspirazioni spirituali dei singoli senza irregimentarli e senza finire per promuovere infantilismi spirituali di vario genere. Sono ormai in molti a pensare, senza magari osare dirlo ad alta voce, che l’unica forma di sopravvivenza della religione potrà essere quella individuale, in cui uomini e donne si uniscono per compiere tratti specifici di cammino, senza tuttavia dare vita a realtà in grado di superare la prova del tempo. Un po’ come accade nella rete, dove si sceglie costantemente di entrare e uscire da gruppi a seconda delle ispirazioni e degli interessi del momento, sentendosi liberi di non impegnarsi definitivamente in nulla.

A rendere fosco il quadro vi sono tuttavia le frequenti notizie di comunità in crisi, talvolta anche gravi, che non paiono risparmiare nessuna realtà (si pensi al caso clamoroso di Bose). La quantità di abusi di vario genere compiuti in realtà “religiose” non può essere più taciuta, e anche laddove la parola abuso non calza, non si può tacere la crescente difficoltà che le realtà comunitarie di matrice religiosa incontrano alla ricerca di forme di vita più conformi sia «alle mutate condizioni dei tempi» sia soprattutto «alle odierne condizioni fisiche e psichiche» dei loro membri, come recitava nell’ormai lontano 1965 la Perfectae Caritatis, il documento conciliare dedicato a un “opportuno rinnovamento” della vita religiosa.

L’eventuale rinuncia a una dimensione comunitaria, o per lo meno una sua forte riduzione, avrebbe un impatto non di poco conto sulla capacità della fede religiosa di dare un senso alle società in cui si manifesta e fiorisce. Come ogni rinuncia al pubblico e al comunitario, sarebbe un impoverimento notevole. Nel cristianesimo, poi, il puro individualismo spirituale sarebbe una vera e propria controtestimonianza rispetto alla promessa di koinonía universale che esso annuncia fin dai suoi albori.

Che fare, allora? Accettare di affrontare a viso aperto i problemi, cercando di capire cosa è possibile abbandonare o cambiare in vista di una vita più piena e umana nelle nostre comunità religiose di ogni genere, da quelle parrocchiali a quelle conventuali e di azione comunitaria con fini spirituali o religiosi. E soprattutto accettare integralmente la sfida principale: guardare in faccia il “mostro” del potere, sottoporre le nostre forme di organizzazione e di autorità a una critica e una revisione radicali, compiute utilizzando ogni risorsa a disposizione, da quelle fornite dalle scienze umane a quelle disponibili tramite il nucleo del messaggio evangelico.

Sarà un processo sicuramente doloroso ma altresì catartico. Ne parlerò nel mio prossimo contributo, l’ultimo di questa serie dedicata al tema della comunità e delle sue declinazioni nel cristianesimo. Sulla base di queste riflessioni e dei dibattiti intorno al mio libro Bose, la traccia del vangelo che partiranno in settembre, darò vita a un nuovo scritto sul futuro delle comunità cristiane. La qualità di tale scritto dipenderà anche (e soprattutto!) dai vostri contributi, per i quali vi ringrazio anticipatamente.