Il 4 dicembre ha segnato il cinquantasettesimo anniversario della costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium sulla liturgia, in quello che doveva e voleva essere un evento epocale, ben al di là dei confini del cattolicesimo.

E così è stato, almeno in parte: tutte le confessioni cristiane, e talvolta anche altre espressioni religiose, hanno subito trasformazioni a seguito della riforma liturgica avviata dalla chiesa cattolica.

Non si giunse, come è noto, a porre mano a una questione così vitale e delicata come il culto cristiano, dimensione di nutrimento, crescita e manifestazione pubblica della fede, dall’oggi al domani, ma la riforma fu preceduta da profondi studi e riflessioni.

Il cosiddetto Aggiornamento, iniziato all’epoca del modernismo e proseguito tra le due guerre grazie prima all’opera pionieristica di alcuni centri di ricerca teologico-spirituale, e quindi con il forte contributo del movimento ecumenico, ha portato le chiese (soprattutto quelle occidentali) a ridefinire le loro narrazioni teologiche in profondità, attingendo alle ricerche storiche sulla tradizione primitiva del cristianesimo, all’incontro con le moderne scienze religiose nonché a una certa sensibilità moderna per il rispetto e la tolleranza del diverso.

Come sempre, visto che gli esseri umani sono esseri storici e non creazioni idealistiche, la “nuova” teologia del Vaticano II non ha semplicemente spazzato via tutto il resto, ma si è sovrapposta ad altre “teologie”, più o meno compatibili con il messaggio di Gesù di Nazareth, e tuttavia radicate talvolta in modo profondo nel mondo simbolico-religioso di molte persone.

Il fatto è che simboli e metafore religiose non si inventano, ma si trasformano. La teologia (ambito della narrazione, della parola) può avere una funzione importane in tal senso, quale seme capace di fecondare, ma accanto alla narrazione, al “mito”, bisogna saper operare sul “rito”, sulla componente fisico-corporea dell’espressione della fede. E qui iniziano i problemi.

Credo sia giunto il momento di dire con coraggio che la riforma liturgica della chiesa cattolica è sostanzialmente fallita, non a causa della Sacrosanctum Concilium (documento scritto abbastanza bene e di un certo spessore teologico-antropologico), ma per vari altri motivi.

È fallita non solo perché la tendenza al calo nella frequenza al culto domenicale non si è mai arrestata dagli anni ’60 ad oggi, ma perché gran parte di coloro che vanno in chiesa, secondo recenti studi sociologici, afferma di annoiarsi parecchio durante il culto. La ricerca di “bravi preti” o “bravi pastori”, di comunità più vive da frequentare, è un segno che qualcosa non va nelle celebrazioni religiose cristiane, se bisogna dipendere dall’estro e dalla creatività individuale di singoli ministri o specifiche congregazioni.

È fallita perché alle riforme dei testi, in larga misura ottime, non è seguita una riforma altrettanto significativa dei riti.

Ma, ed è la mia tesi centrale, è fallita perché, a differenza del periodo dagli anni Trenta del XX secolo ai primi anni Sessanta, non è più avvenuta una significativa interazione tra architettura e liturgia, sebbene l’architettura sia vitale per la “messa in scena” genealogica e trasformante di mito e rito.

In parte, va detto con coraggio, gli interventi architettonici sono stati all’insegna di un’ideologia pseudo-democratica, derivata non tanto dalla teologia del Vaticano II, quanto piuttosto da aspirazioni secolari e dalla non comprensione delle simbologie fondamentali del culto cristiano.

Si sono così create, ad esempio, chiese-assemblee sindacali, con l’altare al centro, nella totale ignoranza del fatto che in tal modo il ministro ha assunto una posizione paradossalmente ancora più centrale rispetto alla messa tridentina, e che la pura sottolineatura della circolarità rende molto problematica la percezione di una direzione verso la pienezza futura, di una chiesa in cammino.

Ma laddove si è fallito maggiormente – e nessuno mi pare se ne accorga – è stato nel porre scarsissima attenzione al rapporto tra edificio religioso e territorio circostante, forse perché il cristianesimo stesso non sa bene quale dimensione “pubblica” avere nel nostro tempo. Eppure sono ben pochi gli edifici più “pubblici” delle chiese nelle nostre città.

Da un punto di vista teorico ci si possono porre ovviamente almeno tre generi di domande legittime.

In primo luogo, esistono dei canoni/prototipi di edificio per il culto cristiano a cui in qualche modo conformarsi? Guardando a certe “creazioni” recenti in ambito architettonico, verrebbe da rispondere negativamente, o quanto meno senza certezze incrollabili. Tuttavia penso sia fondamentale ridefinire (e correggere) quali architetture (sì, al plurale!) siano compatibili con una visione teologica come quella del Concilio Vaticano II e della riflessione ecumenica contemporanea, specie quella manifestata all’assemblea di Fede e Costituzione tenutasi a Lima nel 1982.

In secondo luogo, quale ruolo pubblico hanno o possono avere oggi i vari edifici di culto (cattedrali, chiese cittadine, monasteri, cappelle ospedaliere e universitarie, ecc.), e come questo deve essere preso in considerazione dall’architettura religiosa? Nel Mediterraneo, ad esempio, dove è sempre più evidente che accanto a cristiani vivono sia appartenenti ad altre religioni che uomini e donne in cerca di spazi di senso nelle loro città, come ripensare lo spazio “esterno” agli edifici religiosi e gli elementi di transizione verso il loro “interno”?

In terzo luogo (ma è forse la cosa più importante), come può l’architettura religiosa esprimere oggi un linguaggio genealogico, capace cioè, come dice l’amico architetto Gianluca Peluffo, di parlare dell’anima di ciascuno e con l’anima del mondo, un linguaggio intriso di mistero ma che sappia articolare una nuova mimesi narrativa in forme materiali, come direbbe Paul Ricoeur? Perché le nostre chiese mancano spesso di mistero, e quasi sempre di struttura narrativa, anche polifonica.

La ridefinizione di canoni, simboli e narrazioni artistiche non è codificabile probabilmente a priori, e soprattutto, oggi come sempre, non può essere frutto di sforzi individuali: è necessario il convergere di teologi, architetti e comunità. Ci vuole coraggio, creatività, dialogo: tra fede e non fede, tra chiesa e città, tra architetti, teologi e committenti, e altro ancora. Perché il senso è sempre dialogico.

Sul versante delle chiese e della teologia i tempi non parrebbero molto propizi. Sia per normali ragioni di alti e bassi storici, che a causa dell’attuale scarso investimento (per usare un eufemismo) da parte delle gerarchie ecclesiastiche nella formazione e nella creatività teologica a tutto campo, il livello medio dell’attuale generazione di teologi non è quello degli anni che portarono al Vaticano II e alle grandi assise ecumeniche degli anni Sessanta e Settanta. Tuttavia, e questo è incoraggiante, accanto a riprese preoccupanti di visioni teologiche che si pensavano superate, assistiamo altresì a un significativo ritorno della centralità del Vangelo, come testimonia il ministero di papa Francesco, apprezzato ben al di là dei confini della chiesa cattolica.

Sul versante degli architetti il tema del sacro non è mai scemato. Chi li conosce e li frequenta sa bene che molti di loro non fanno mistero di attendere una nuova stagione di incontro con il mondo religioso. Perché il linguaggio architettonico, sia per le sue ambizioni etiche che per le sue ricerche estetiche, non può che avere una naturale simpatia per il mondo dell’oltre e dei legami comunitari rappresentato dalla religione.

È dunque giunto il momento di ricominciare a sperimentare, anche solo in piccoli circoli di teologi e architetti, come restituire un’anima (e un corpo!) al nostro mondo lacerato.

Sulla tomba di Marx nel cimitero di Highgate, come è noto, sta scritto: “I filosofi hanno soltanto interpretato in vari modi il mondo. Ora bisogna cambiarlo”. Vorrei concludere parafrasando così le sue parole: “Storici dell’architettura e teologi hanno soltanto interpretato in vari modi fino ad oggi il sacro. È giunta l’ora di offrirgli concretamente e creativamente un nuovo linguaggio genealogico”.