Quarto contributo sul tema della comunità, pubblicato nel numero 15/2021 di Rocca. Ai precedenti dedicati a Voglia di comunità, a Ripensare le comunità per salvare l’alterità e a Le comunità religiose tra natura e spirito, unisco ora un approfondimento sulle concrete comunità religiose a cui siamo abituati: parrocchie, associazioni, monasteri e istituzioni religiose.
Da cosa nasce una comunità religiosa? Dall’incontro, mai del tutto privo di tensioni, tra due slanci o intuizioni: da un lato da una profonda esperienza spirituale che, in quanto tale, è sempre in primo luogo e per molti aspetti personale e individuale (e proprio per tale ragione risulta profondamente coinvolgente); dall’altro lato dal riconoscimento che la propria “vocazione” è in realtà un invito condiviso con altri, e che dunque nessun singolo si dà da solo ma che ci porta a cercarci reciprocamente per vivere insieme le nostre intuizioni. Quando queste due realtà vengono compaginate, quando si riesce a non far spegnere né gli elementi comuni ne quelli più intimi e personali, allora la comunità di matrice religiosa può fiorire e durare.
Ma quando è possibile una simile compaginazione? Filosoficamente (oserei dire hegelianamente), quando lo spirito che ispira i singoli coincide con lo Spirito della storia, ovverosia quando diverse persone colgono personalmente e individualmente un movimento/elemento vitale e in qualche misura oggettivo che attraversa la loro epoca e/o il contesto in cui vivono, e dunque possono sentirsi libere nella loro capacità inventiva pur nella compagnia degli altri, perché animate da qualcosa che le trascende e le unisce. In senso cristiano l’immagine più classica è quella biblica della Pentecoste in Atti 2: lo Spirito santo che appare come lingue di fuoco che si dividono e si posano su ciascuno dei discepoli, rendendoli capaci di comunicare in lingue diverse dalla propria.
Un grande padre della chiesa, Doroteo di Gaza, vissuto nel VI secolo nel deserto palestinese, ha proposto per parlare di questo fenomeno un’immagine splendida, divenuta giustamente famosa:
Immaginate che il mondo sia un cerchio, che al centro sia Dio, e che i raggi siano le differenti maniere di vivere degli uomini. Quando coloro che, desiderando avvicinarsi a Dio, camminano verso il centro del cerchio, essi si avvicinano anche gli uni agli altri oltre che verso Dio. Più si avvicinano a Dio, più si avvicinano gli uni agli altri. E più si avvicinano gli uni agli altri, più si avvicinano a Dio.
Le comunità religiose cristiane (dalle parrocchie, alle associazioni, ai monasteri alle congregazioni di qualsiasi natura) esistono per essere un segno di tutto ciò, vivendo la via della riconciliazione predicata e inaugurata dal loro Maestro, Gesù di Nazareth. Tale via è fatta del donarsi reciprocamente per amore, nonché dell’accettare talvolta di perdere qualcosa (convinzioni, possessi, vantaggi personali) perché si possa vincere e fiorire tutti insieme. Anche qui, però, senza mai insidiare la dignità e la libertà del singolo, senza imporre nulla, senza mai dar luogo a soluzioni o ipotesi mortifere.
Ma proprio perché segno del disegno di riconciliazione universale, la comunità religiosa cristiana deve sempre essere aperta, pronta a ridisegnare i propri confini, le proprie idee e le proprie teologie. Certamente può essere “controculturale”, laddove discerna il bisogno di contrastare logiche di divisione tra gli esseri umani e di negazione della dignità e dei diritti di tutti e di ciascuno. Ma non deve mai lasciare, per usare i termini di Bergson che ho raccontato nel mio contributo precedente, che la religione “statica” prevalga su quella “dinamica”, che la chimera di definizioni e chiarezze finisca per escludere chi è “all’esterno” e per mortificare lo slancio spirituale di chi è “all’interno”.
Studiosi di alto profilo di questi temi hanno operato giustamente delle distinzioni tra i vari tipi di comunità religiose. La natura aperta a tutti dell’esperienza religiosa cristiana si manifesta infatti pienamente solo laddove la fondamentale vocazione cristiana dà luogo a compagini pienamente ecclesiali, come le congregazioni territoriali (dalle parrocchie alla diocesi) in cui si riuniscono per il culto tutti coloro che abitano nella stessa zona, a prescindere da quale ruolo o ministero abbiano in seno a questa o quella “chiesa”, nonché a prescindere dalle scelte e dai gusti dei singoli.
Ciò nonostante esistono altri livelli di aggregazioni comunitarie di matrice religiosa, temporanee o permanenti, mediate o meno da patti, voti o impegni solenni, che Severino Dianich ha definito ecclesiolae in ecclesia (termine ripreso, ampliandolo, dalla tradizione hussita e da quella metodista). Esse sono generate dall’adesione a una vocazione particolare che, pur non contraddicendo mai quella più generale alla sequela Christi, è avvertita solo da alcuni. Alludo ad associazioni laicali o clericali, comunità monastiche e di vita religiosa, organizzazioni caritatevoli pensate per compiti specifici e circoscritti, e via dicendo.
Questo secondo tipo di comunità, a differenza del primo, sono sicuramente maggiormente tentate di ritenersi autosufficienti. Soprattutto, però, devono spesso combattere contro la tentazione di chiudersi al mondo, di costruire un ideale di perfezione o di completezza che invece contraddice profondamente la vocazione universale cristiana, che è quella di “imperfetti perdonati” che si riconoscono debitori verso tutti e verso ciascuno, giorno dopo giorno, e che solo così possono veramente entrare in comunione tra di loro ed eventualmente con ogni essere umano.
Anche il tentativo di giustificare o fondare teologicamente la loro esistenza parlando di “carisma dei fondatori” è un elemento equivoco. Se un carisma, un dono, un’ispirazione sono autentici, per quanto possano essere mediati o resi comprensibili e udibili attraverso singole persone, lo si vede dai loro frutti, soprattutto dalla capacità di creare comunità “aperte” in senso bergsoniano, in cui l’individuo è libero nella sua capacità inventiva e i cui membri sono collegati da una forza spirituale. Perciò invece di studiare gli scritti dei fondatori per cercare di “istituzionalizzarne il carisma”, sarebbe molto più importante partire dalle comunità reali generate da tale carisma, dai desideri e le aspirazioni dei loro membri, per definire cammini e aggiornare qualsiasi documento, compresi quelli “fondatori”. Perché se il carisma è autentico, al di là della mediazione del fondatore, coloro che lo vivono devono poter attingere ad esso nelle loro coscienze, prima ancora che fare affidamento a complicate esegesi del pensiero del fondatore o della fondatrice.
Costruendo comunità che riflettono insieme sui loro doni, in maniera aperta, invece di costruire fazioni basate su interpretazioni comunque sempre “parziali” delle presunte sacre intuizioni di qualche essere umano, si può far sì che avvenga quella compaginazione di cui ho parlato all’inizio, tra le ispirazioni, le motivazioni e le convinzioni personali da un lato, e la risposta “collettiva” a un moto dello s/Spirito dall’altro.
Infine, anche l’altra tentazione tipica della religione “statica” si rivela controproducente, ovverosia il ricorso all’autorità per definire e fornire parametri oggettivi. L’autorità è un fatto umano, necessario, che laddove è sana esiste per far sì che avvenga la compaginazione tra intuizioni individuali e risposte collettive. È perciò al servizio della crescita personale di ciascuno, del mantenimento dello slancio vitale essenziale a ogni esperienza umana, soprattutto se “religiosa”, nonché del perseguimento della missione globale del corpo comunitario.
In simili contesti, l’utilizzo (a mio parere distorto) delle parole di Gesù relative alla rinuncia a se stessi per camminare dietro di lui, non può mai voler dire il riconoscimento a singole persone della facoltà esclusiva di interpretare lo spirito. Parlare di “rinuncia alla libertà”, di obbedienza religiosa in termini di “rinuncia alla propria volontà” è un fatto decisamente problematico, in netto contrasto con l’evoluzione del pensiero moderno, ma forse (ed è molto più grave) anche con un pieno rispetto dell’unica realtà veramente resa sacra dal cristianesimo: ogni singola persona umana.
Carissimo Riccardo,
condivido il contenuto della tua riflessione, anche se non ti nascondo di aver avuto la sensazione che essa sia condizionata da un implicito riferimento alla realtà ecclesiale d’occidente.
Sarebbe forse utile rapportare tale riflessione alla prassi delle Chiese d’oriente, dove non mi risulta esserci quella parcellizzazione di carismi che, alle nostre latitudini, vengono definiti come molteplicità dei doni dello Spirito Santo.
Accade allora che partendo dal limite della stessa circonferenza come suggerisce Doroteo di Gaza e percorrendo ciascuno i diversi raggi diventi difficile il comune approdo in Dio per l”avvento del suo Regno, perché aumentando la maggior vicinanza, che pure è indiscutibile sul piano della fede, essa diventi di fatto reciproco ostacolo, sostanzialmente a causa dell’antico ed irrisolto problema “io sono di Paolo, io sono di Apollo e io sono di Cristo”, con tutto ciò che ne consegue.
Basta scorrere un Annuario Pontificio per rendersi conto di questa particolare differenza con la prassi ecclesiale d’oriente dove, ad esempio, lo stato monastico è unico e in diretta linea con lo spirito delle origini, ma non per questo privo o carente di quella multiformità di carismi che vengono invece istituzionalizzati in mille forme diverse e spesso del tutto anacronistiche, nella chiesa d’occidente.
C’è poi da non sottovalutare, secondo il mio punto di vista, la sottile forma di “potere” che sottende ad ogni aggregazione umana e dalla quale, che lo si voglia ammettere o no, non sono immuni le comunità cristiane dove si tende spesso a rivestire di ecclesiale ciò che non giova affatto all’utilità comune, alla crescita della fede, al cammino verso Dio ed il suo Regno.
Forse sono troppo radicale nel mio modo di pensare, ma mi farebbe veramente piacere conoscere il tuo parere sempre molto pertinente e nitido.
Cordiali saluti.
Paolo