Come ogni anno, fin da quando ero ragazzo, il triduo pasquale, ovverosia tutto ciò che va dall’ultima cena di Gesù con i suoi fino alla mattina di Pasqua, è per me un momento di fondamentale riflessione sul senso delle cose, e lo è stato sia nelle mie fasi molto “religiose”, sia in quelle più letteralmente “atee”, ovverosia in cui sentivo Dio un’idea molto lontana, una presenza impercettibile, o addirittura un’assenza.
La mia (poca) fede non è mai stata né trionfale né trionfante. La luce di Pasqua non è mai diventata per me una semplice cancellazione della tenebra, ma piuttosto il sottile bagliore che emerge se la tenebra la si affronta fino in fondo, e se lo si fa insieme a tutti coloro che sono nella tenebra, talvolta anche per loro, portandoli sulle nostre spalle, o lasciandoci portare da chi ha più energie positive di noi. Per questo, musicalmente, la mia colonna sonora del mattino di Pasqua è l’introito pasquale gregoriano Resurrexi, et adhuc tecum sum, in cui la risurrezione è un sussurro che emerge gradualmente, la cui eventuale forza e verità è veicolata dalla meraviglia e dalla profondità del canto più che dal suo volume e dalla sua forza.
Certo, ho celebrato più volte la pasqua in stile “orientale”, in un tripudio di luci e di grida, e ne capisco le ragioni, anche solo da un punto di vista psicologico e antropologico: ci sono momenti e stagioni in cui abbiamo bisogno di gridare, battendo i piedi, il nostro odio per la tenebra e per la morte, quasi fosse possibile, in tal modo, esorcizzarle. Inoltre, per chi conosce le liturgie orientali, le feste liturgiche sono caratterizzate da un ripetersi, quasi a spirale, di canti e di tropari, fino a ubriacarsi e a trovare in tal modo una sorta di unione estatica con il divino che permette di sentirsi parte, almeno per un attimo, di un altro mondo.
Io amo moltissimo i miei fratelli e le mie sorelle orientali, ma alla maniera di Cristina Campo, restando fondamentalmente un occidentale, bisognoso sì del cielo, ma solamente dopo aver vissuto la terra, per aver vissuto la terra a pieni polmoni. Per questo per me, del triduo pasquale, i momenti più cari e importanti restano il venerdì e il sabato santo.
Non fraintentedemi: amo ridere e gioire, non amo la morte, che anzi mi fa paura. In questi giorni si sono scontrate in me a più riprese due visioni molto diverse del termine della nostra esistenza: da un lato quella intrigante e quasi sinistra del Cantico delle Creature di san Francesco, “Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale…”, e dall’altro quella che trapela dalla scritta che Claudio Villa volle a tutti i costi far incidere sulla propria lapide: “Vita, sei bella! Morte, fai schifo!”. Spero di non scandalizzare nessun benpensante o gli spiriti religiosi dicendo che, riguardo alla morte, continuo fondamentalmente a sentire più vicino a me l’ottavo e un po’ sguaiato reuccio di Roma rispetto al poverello di Assisi, che pure amo per tante altre ragioni.
La morte è un orrore, uno scandalo, non dovrebbe esserci, e ogni domanda umana al riguardo è pienamente legittima, così come lo è ogni grido rivolto a Dio: “Perché dobbiamo morire?” o, alternativamente, “perché dobbiamo vivere con la coscienza di una fine?”. Del resto le chiese pregano costantemente i salmi in cui, a differenza dei nostri pii consessi, ogni domanda a Dio è possibile, anche le più scomode, come il Salmo 22 che inizia con “mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbadonato?” o come il Salmo 88, che si conclude con un glaciale e lapidario “solo le tenebre mi restano di compagnia” dell’orante solo davanti al suo Signore, dal quale – a differenza del Salmo 22 – non giunge alcuna replica.
Siamo tutti stanchi delle risposte stereotipate di molta teologia. Personalmente fatico ormai pressoché sistematicamente a leggere parole di commento o di commiato, all’uscita di scena di persone a me più o meno care, come “buon viaggio” o l’abusatissimo “a-Dio”. Ho fame e sete di parole vere, che paiono quasi impossibili da trovare.
Di sicuro la morte ci porta quanto meno ad apprezzare quanto sia bello poter vivere. Se Heidegger parlava di un essere-per-la-morte che definisce la natura umana, per contro credo che la morte dica proprio che noi esistiamo per la vita, questa vita, finita, da riempire, godere e celebrare, da vivere in tutte le sue dimensioni, come per certi versi aveva ben capito Nietzsche, e con lui (paradossalemente e con sfumature differenti) Dostoevskij, al quale fu dato di vivere dopo aver affrontato fino quasi all’ultimo istante la propria condanna a morte, poi risparmiatagli, e che grazie a quell’esperienza capì come l’unica possibile risposta alla “grazia” ricevuta avrebbe dovuto essere prendere sul serio la vita, pur con tutte le sue (e le nostre) miserie umane.
Amare la vita è una possibilità, però, non un dovere. Altrove ho scritto, criticando la categoria di resilienza, di come possa essere addirittura crudele e offensivo definire la vita un obbligo. Viviamo per un istinto posto in noi dalla natura e perché a ciò l’umanità ha saputo e voluto aggiungere mille storie e ragioni in grado con maggiore o minore coerenza di abbellire e addolcire la vita. Ma nella nostra stessa natura esiste anche un istinto che porta a comprendere quando il sipario sta per calare, e ad accettarlo quasi fisiologicamente, mettendoci in disparte. E soprattutto, esiste in ogni epoca un problema fondamentale: la qualità del nostro vivere, di cui in fin dei conti solo ciascuno di noi può essere il giudice ultimo e definitivo.
L’introduzione di strumenti come i testamenti biologici o di legislazioni che aprono le porte all’interruzione volontaria della vita sono questioni molto complesse, non prive di problemi sia pratici sia etici. Toccano tuttavia un aspetto fondamentale, che paradossalmente è al cuore della celebrazione della vita e della sua dignità: il riconoscere a ogni essere umano il diritto a dire no alla vita, laddove chi decide di avvalersi di simili strumenti abbia raggiunto la ponderata convinzione che la morte sia più degna di una vita senza senso. E con ciò anche il diritto a un’ultima fase della vita che non sia all’insegna del dolore, del non senso o addirittura della bestemmia, laica o religiosa che sia.
E qui vorrei venire al dunque di questa mia riflessione-augurio pasquale. Sono convinto che sia bello vivere, se la vita ha un senso. Se un primo livello di significato delle nostre esistenze è dato a noi tutti dal puro istinto di sopravvivenza, tutti ci rendiamo ben conto che il senso si rafforza e si sostiene solo nelle relazioni, nella possibilità di avere dei tu a cui parlare, e di avere dei tu che ci dicano l’importanza del nostro esserci e che ci sostengano sia materialmente sia spiritualmente. Dove ci sono relazioni umane è possibile trovare senso anche di fronte allo scemare del nostro corpo e di tante nostre facoltà.
Credo che la nostra speranza di eternità, di una direzione oltre la morte che in qualche modo dia speranza anche a chi si sente profondamente ateo, si basi interamente sull’esperienza dell’amore umano. “Forte come la morte è l’amore” recita il Cantico dei Cantici. E la passione di Gesù, secondo Giovanni, inizia con “Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine”.
Perciò più che annunciare un dovere di vivere o cantare quasi offensivamente ai quattro venti che “la vita è bella” anche laddove vi sono persone che versano in situazioni allucinanti, i giorni del triduo dovrebbero portarci a capire che abbiamo un’unica, ben precisa responsabilità: creare per l’altro, per ogni altro, le condizioni migliori possibili perché viva una vita bella e dotata di senso.
E tra le condizioni di una vita bella è compreso anche l’assecondare con amore il cammino finale di ogni persona a noi cara, sia esso un cammino di lotta fino all’ultimo istante, sia esso una resa ai pesi della vita.
Sono convinto che la vita possa essere bella. Non dipende solo da noi, ma anche da noi, e da come sappiamo avvolgere di senso e di bellezza ogni suo momento. Per ogni singola persona. Il messaggio del triduo pasquale, in fin dei conti, è questo.
Buona Pasqua!
Buona Pasqua anche a te, e a fr. Enzo. Mi ha fatto molto piacere leggere quello che hai scritto
Ho letto, insieme a mio marito, i suoi articoli su Bose via via che sono usciti. Grazie, sono stati preziosi, ricchi di equilibrio e umanità.
Intenso anche questo post dedicato ai giorni di Pasqua. In particolare sottolineo questa frase, che condivido profondamente: “La luce di Pasqua non è mai diventata per me una semplice cancellazione della tenebra, ma piuttosto il sottile bagliore che emerge se la tenebra la si affronta fino in fondo…”.
Buona Pasqua!
La pasqua è una meditazione sul dolore e sulla gioia, sulla vita e sulla morte, concordo con ciò che ha scritto…..anche se, in fin dei conti, la paura/sgomento per la morte è molto/troppo occidentale, in altre culture è vissuta con minore angoscia, forse perchè si è educati ad un minor attaccamento all’ego( finanche a ciò che chiamiamo anima, che per i Buddhisti non esiste).
La morte è comunque una realtà e arriva sempre troppo presto, spesso introdotta dalla sofferenza, dobbiamo trovare il modo per affrontarla con sufficiente leggerezza e di vivere ,comunque, pienamente ogni respiro che ci è dato, con gioia, possibilmente.
Dalle mie parti un detto contadino recita: la vita è come la scala del pollaio, corta e piena di merda! Diciamo una versione più diretta e della nobile verità del dolore del Buddha.
Di questi tempi mi pare assai idonea ad affrontare il caos pandemico, le violenze in varie parti del mondo e tutto il resto, la vita è intrisa di sofferenza e ,oltretutto. è incredibilmente breve, ieri eravamo bambini e già ci ritroviamo vecchi, la morte dietro l’angolo!
Credo,però, che sia saggio non farci prendere dallo sconforto ma cercare di vivere pienamente il nostro oggi. Inutile stare a compiangersi, certo sono tempi duri, ma le albe possono stupirci e i tramonto commuoverci, un fiore può svelarci la bellezza e un sorriso l’amore.
Se la meditazione ha qualcosa da insegnarci , è la capacità di fruire/godere dell’attimo presente, che è perfetto così com’è , indipendentemente da tutto.
Come i vecchi contadini riconosciamo la merda sulla nostra scala ma poi beviamoci un bicchiere sopra!