Da più di un mese vivo una situazione di profondo disagio e sconforto, che mi ha portato a rarefare notevolmente la partecipazione ai social – che pure mi avevano dato tanto in periodo di pandemia – e a diluire paradossalmente – nel senso di selezionare e circoscrivere con cura – la quantità di informazioni che scelgo di assorbire da qualsiasi mezzo di informazione.
Immagino che molti, leggendo queste parole, abbiano pensato istintivamente alla guerra tra Russia e Ucraina come fattore scatenante di questo mio disagio, ampiamente condiviso dalla stragrande maggioranza dei nostri contemporanei in Europa. Ma in realtà, prendendo le distanze, riflettendo, cercando di ragionare al di là delle emozioni e degli isterismi collettivi, la fonte più profonda dei miei stati d’animo, che difficilmente potranno essere placati a breve e medio termine, risiede altrove, in qualcosa di più serio. E di più grave. Di questo voglio parlare in questo contributo, che a molti – ne sono certo – risulterà almeno in parte indigesto o quanto meno scomodo.
Per onestà intellettuale, e per far capire alle mie lettrici e ai miei lettori da dove vengono le mie riflessioni, in quali esperienze e conoscenze sono radicate, vorrei chiarire il mio rapporto con la costruzione dell’Europa e i confini tra Oriente e Occidente, dove attualmente risiedo (da 11 anni a questa parte a Tallinn, in Estonia).
Quando avevo diciassette anni, nel 1983, andai a vivere per due anni a Duino, ai confini con l’allora Iugoslavia, per studiare nell’appena inaugurato Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico. Si trattava di una scuola appartenente a una piccola catena di istituzioni analoghe, fondate a seguito dei disastri della Seconda guerra mondiale per promuovere la comprensione internazionale, soprattutto in territori di confine. Dopo quello di Duino, tanto per intenderci, nel 2006 vedrà la luce un collegio analogo a Mostar, città simbolo di incontri e scontri fra culture, religioni e civiltà durante i tristi e violenti conflitti occorsi nei Balcani.
A Duino ogni studente era tenuto, quale componente integrante del curriculum scolastico, a prestare un’attività di servizio alle comunità locali. Io mi dedicai per due anni agli anziani della zona, da cui appresi la complessità di quei territori abitati da italiani, sloveni e croati (come ad esempio l’Istria), attraverso una miriade di racconti e di sfumature sulla loro storia e le loro storie.
Fu probabilmente anche per questo che dedicai un’altra attività prevista dal curriculum, la stesura di una tesina di 5.000 parole, ai rapporti tra Italia e Iugoslavia dal 1945 fino agli anni Ottanta, soffermandomi soprattutto sul Trattato di Osimo sottoscritto il 10 novembre 1975 dal ministro degli esteri italiano, Mariano Rumor, e da quello iugoslavo, Miloš Minić. Grazie all’allora presidente del Collegio, l’onorevole Corrado Belci, ebbi perfino l’opportunità di fare visita a Roma a Eugenio Carbone, ovverosia il mediatore che, per incarico del governo italiano, aveva condotto le trattative segrete sfociate negli accordi di Osimo. Tali accordi, sicuramente imperfetti, erano non di meno risultati decisivi non solo per chiudere la dolorosa parentesi aperta dai conflitti scatenati dai regimi fascisti italiano e croato prima, e quindi dalla reazione iugoslava a partire dal finire del conflitto mondiale, ma anche per far sì che Italia e Iugoslavia divenissero partner commerciali di rilievo, ben prima della caduta dei regimi socialisti dell’Europa Orientale. Ed è probabilmente anche grazie a quella capacità di dialogo che, una volta scioltasi la Iugoslavia, l’Italia ha potuto intrattenere ottimi rapporti con Croazia e Slovenia, ovverosia le due ex-repubbliche iugoslave più vicine al suo territorio.
Negli anni duinesi ebbi inoltre modo di visitare diverse città della Iugoslavia, federazione di sei repubbliche (Bosnia ed Erzegovina, Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia, Slovenia) e due regioni autonome in territorio serbo (Kosovo e Vojvodina) caratterizzate dall’incrocio fragile e tuttavia allora pacifico di etnie e religioni, ben simboleggiato da Sarajevo – che visitai con i miei compagni di studio canadesi in occasione delle olimpiadi invernali del 1984 e che trovai affascinante nella sua miscela di suoni, volti e culture.
Da quelle esperienze imparai ad apprezzare il valore della diplomazia, del dialogo e della mediazione, di cui l’Italia era stata protagonista nel secondo dopoguerra grazie a grandi figure e a una scuola diplomatica di prim’ordine. Anche per questo dal 1989 al 1992 sono stato impegnato pressoché a tempo pieno nelle assemblee giovanili europee, quale rappresentante italiano presso il Forum degli Studenti e il Forum della Gioventù della Comunità Europea, lavorando a fianco di diverse persone divenute in seguito leader politici nazionali e internazionali di valore.
L’esperienza balcanica mi ha altresì insegnato che le guerre non risolvono mai nulla, ma anzi creano quasi inesorabilmente i presupposti di ulteriori e spesso più gravi conflitti. Le mie visite in Bosnia, Kosovo, Macedonia, Montenegro e Serbia prima e dopo l’intervento della Nato del 1999, non hanno fatto che confermare una simile convinzione.
L’evoluzione dei Balcani dopo il 1989, inoltre, è stata per me un monito riguardo al futuro che si stava preparando nelle relazioni tra occidente e oriente europeo. Lo scontro tra le due grandi potenze che si erano spartite l’influenza sull’Europa dopo la guerra, infatti, lungi dal terminare o dallo scemare dopo quella fatidica data ha perdurato, trasformandosi in maniera non sempre chiara all’opinione pubblica dei vari paesi. L’espansione dell’Unione Europea a Est, senza alcun rafforzamento delle sue basi politiche e grazie alla contemporanea e pressoché automatica espansione della NATO nei nuovi paesi entrati in massa (ben dieci nel 2004!) nell’Unione, hanno finito per consegnarci un’Europa senza politiche comuni in diversi campi decisivi (tra cui quello energetico) e con la difesa della propria sicurezza affidata all’Alleanza atlantica, che per suo statuto prevede una guida americana e un segretario generale approvato dal governo statunitense.
Ed è sulla sicurezza che vorrei soffermarmi, perché si tratta in qualche modo di un diritto di ogni paese, che non di meno può essere costruita in vari modi e che può avere, a seconda di come si configura, un impatto cruciale sui paesi “esterni” alle singole alleanze.
Abbiamo tutti bisogno di sicurezze, soprattutto in un mondo come quello odierno, caratterizzato da rapidi cambiamenti in ambito economico e sociale, da incertezze riguardo al futuro e dal progressivo indebolimento dei sistemi tradizionali di valore. L’insicurezza genera umanissimi timori che tuttavia, laddove si cede alla tentazione di rafforzare identità indebolite o sempre meno consistenti identificando nemici esterni funzionali al compattarsi contro qualcosa o qualcuno, possono non solo trasformarsi in paure dai contorni decisamente irrazionali, ma addirittura scatenare pericolosissimi meccanismi di violenza. Ed è quasi sempre più violento chi è pieno di incertezze e in preda a paure.
La sicurezza, però, si può anche costruire in un modo diverso: accettando l’incontro con l’altro, anche (e forse soprattutto) quando non lo si capisce e ci fa paura. La soluzione opposta è rinchiuderlo in definizioni semplificatrici e apodittiche, che sostituiscono al rapporto con l’umanità dell’altro – che per quanto diversa dalla mia deve e può essere sempre la base comune su cui costruire una convivenza civile – il rapporto con una sua rappresentazione rigida e immutabile.
Queste considerazioni non sono “buoniste” (epiteto vergognoso, che palesa il dna da maschio alfa frustrato e poco intelligente di chi lo ha coniato e chi lo usa) ma sono alle radici stesse del pensiero liberale, che pone al proprio cuore il dialogo e il principio dialogico, e considera la violenza sostanzialmente estranea alla costruzione della convivenza tra gli esseri umani, ovunque e in ogni epoca.
Proprio per questo già nel 1999 rimasi sorpreso dai toni assunti da alcuni quotidiani italiani (a dire il vero pochi) per giustificare i bombardamenti della Serbia, nonché per definire i leader di una parte come totalmente buoni e quelli della parte avversa come dei mostri. Quanto avvenuto tuttavia dal 24 febbraio in poi mi ha francamente lasciato totalmente sotto choc: vedere i servizi di informazione nazionali, i principali quotidiani e buona parte dei nostri politici parlare di valori dell’Occidente negando qualsiasi possibilità di dibattito e discussione sulle cause del conflitto in corso, oltre a essere molto vuoto e pericoloso (che cosa sarebbe un simile Occidente? Le nostre armi e la dimostrazione della nostra “virilità”?) finisce in realtà per contraddire profondamente in radice ciò che ha dato vita alla cultura occidentale europea, ovverosia il riconoscimento della superiorità della ragione e del pensiero rispetto a quella dell’istinto e della violenza che nega l’altro in nome della sua totale (presunta) indegnità.
L’irrisione e la violenza verbale riservate in queste ultime settimane a pacifisti e a chi invoca un’analisi che tenga conto della complessità della situazione, oltre a sconvolgermi perché non pensavo che l’atmosfera civica e civile fosse scesa così in basso (assumendo toni e caratteristiche da “Wilma, dammi la clava” più che da donne e uomini moderni), mi pare una vera e propria riduzione della forza e della capacità del pensiero e della ragione.
Qualcuno mi ha detto che è normale, visto che “siamo in guerra”. Già, ma chi lo ha deciso che siamo in guerra? Ci è ancora consentito di obiettare ad affermazioni di questo genere? La ragione può iniziare solo dopo che ci si è schierati da una parte, a priori, come in un esercizio da debate all’americana?
La retorica ha un valore veramente serio e umano solo quando non è tesa a sconfiggere l’avversario, ma la menzogna. Perciò nel dialogo con l’altro la vera vittoria è quando insieme costruiamo un itinerario di senso, un domani possibile, non quando con la forza delle nostre armi (o delle nostre parole brandite come clave, o dell’uso che facciamo di immagini, emozioni, situazioni contingenti) umiliamo e costringiamo alla resa “l’avversario”. Tale domani possibile può essere una convergenza piena, parziale, o una divergenza pacifica in cui riconosciamo che i tempi non sono maturi ma che l’altro ha pur sempre diritto a esistere nella sua diversità.
Ciò che ho visto nel flettere i bicipiti linguistici (veri o presunti) da parte di moltissimi giornalisti e politici “liberali” in questi mesi somiglia molto a una vera e propria hybris illiberale. Che diventa umanamente preoccupante quando si trasforma in caccia sistematica al russo o alla russa perché rinneghi apertamente il proprio paese (altrimenti gli roviniamo per sempre la carriera!), ma che soprattutto mina dal suo stesso interno la più grande forza del pensiero liberale: la sua convinzione che la libertà di pensiero e la forza della ragione possano costruire grandi cose anche nelle situazioni più complesse. Continuando di questo passo si rischia sempre più di far rimpiangere il tempo in cui, da buoni maschi alfa, si riteneva più risolutiva una bella randellata della faticosa arte del compromesso.
Soprattutto, però, rappresenta un uso della ragione molto limitato, pericoloso, che rischia di sancire un regresso culturale dalle conseguenze durature. Perché si tratta di uno spettacolo trasmesso su tutti i canali possibili, a ogni ora del giorno e della notte, a cui tutti assistono e di cui rischiano di rimanere impregnati nel profondo. E che l’inesorabile forza catalizzatrice di Internet non fa che amplificare.
Un mio amico ha scritto lapidariamente: “Dire che Putin è pazzo non è un’analisi politica. Non cercare di comprendere come gli altri interpretano e costruiscono la loro sicurezza è estremamente pericoloso per noi stessi”.
Non so dunque come ne usciremo, ma negando il principio dialogico (che va offerto anche quando altri vorrebbero contraddirlo: lì è la sua vera forza), rischiamo di danneggiare proprio quei “valori dell’Occidente” che pensiamo di poter difendere altrimenti. Su tutti, come ricorda Edgar Morin, l’essenzialità del dialogo per affrontare le esigenze contrapposte di sicurezza costruendo un mondo migliore.
Salvo non si pensi che solo la “conversione dell’altro con la forza” ai nostri principi sia una via percorribile. Ma allora assisteremmo non all’autunno, ma a un profondo inverno del genere umano.