La straordinaria vicenda della comunità di Bose, dalle sue fondamentali intuizioni di base alla lunga fedeltà al vangelo testimoniata per vari decenni, non può essere né negata né minimizzata – a prescindere dalle simpatie umane o dalle tendenze e gusti spirituali di ciascuno di noi – a motivo della vera e propria tragedia che i fratelli e le sorelle di Bose hanno vissuto in tempi più recenti, in particolare in misura crescente da circa quattro anni a questa parte (che spero possa comunque conoscere un esito finale veramente evangelico).

La sua incredibile parabola meriterebbe certamente uno scritto ben più lungo di questo, e forse un giorno, avendo (scusate l’immodestia) sia la competenza che l’esperienza per farlo, dedicherò a Bose un libro che garantisca una possibile memoria delle molte sfumature di questa avventura dello spirito, nata in silenzio sulle colline biellesi e capace di raggiungere uomini e donne in ogni angolo della terra. Ma ora è necessario scrivere in tempi ragionevoli qualcosa di ponderato, informato e che aiuti in molti a continuare a sperare, facendosi una ragione delle recenti vicende assur(d)te agli onori (o ai disonori) della cronaca.

Mai come ora mi sono trovato nella mia vita a scrivere una riflessione più impegnativa o rischiosa, e al tempo stesso assolutamente doverosa, di quella contenuta in queste pagine dedicate a Bose, al suo significato per le chiese e per il mondo, nonché alle possibili ragioni del suo possibile declino e della sua esplosione (o implosione), che si auspica temporanea, ormai sotto gli occhi di tutti, accompagnati da episodi di una violenza umana inaudita, di cui si sono resi responsabili in diversi.

E’ infatti difficile compaginare analisi sulla chiesa, la società, il mondo dello spirito, con vicende che sono state e resteranno sempre anche strettissimamente personali, trovando toni giusti, distinguo necessari, messe a fuoco e sfumature che servano al lettore e alla lettrice a riflettere, comprendere e, malgrado tutto, a continuare a sperare.

Tuttavia non rinuncerò, laddove può essere necessario per delucidare concetti e intuizioni molto specifici, ad aggiungere elementi autobiografici, che pur non avendo la pretesa di essere criteri o ragioni universali di analisi, contengono non di meno, ne sono certo, sensazioni, intuizioni e convinzioni condivise da moltissime persone che, nella loro vita, hanno avuto l’opportunità di fare un tratto di cammino assieme a queste donne e questi uomini fragili eppur meravigliosi che vivono o hanno vissuto sulla Serra di Ivrea e nei luoghi a questa collegati.

Bose è nata da un carisma, un dono, che si è posato su un uomo per certi versi “improbabile”: un giovane studente universitario nato durante la seconda guerra mondiale, formatosi in un contesto familiare difficile e segnato nella sua infanzia da una spiritualità decisamente cattolico-tridentina. Enzo Bianchi tuttavia è stato per davvero un uomo carismatico, nel senso più importante del termine, direi quasi “hegeliano”, ovverosia una persona capace di cogliere, di “sentire”, di intuire lo spirito del tempo e della storia, ciò di cui questa ha profondamente bisogno, e di cercare di incarnarlo con la creatività, la forza e il “demone” dell’artista.

Bianchi ha colto, a mio avviso, due elementi fondamentali di cui c’era e c’è bisogno come l’aria, nelle chiese ma non solo.

Il primo è la centralità del vangelo, rispetto a strutture sia ecclesiali che di vita religiosa e monastica. Dice la Regola di Bose: “Fratello, sorella, uno solo deve essere il fine per cui scegli di vivere in questa comunità: vivere radicalmente l’Evangelo. L’Evangelo sarà la regola, assoluta e suprema. Tu sei entrato in comunità per seguire Gesù. La tua vita dunque si ispirerà e si conformerà alla vita di Gesù descritta e predicata nell’Evangelo” (§ 3). Il vangelo è talmente importante che, sebbene si riconosca la necessità di strutture di autorità e di ordine umano in seno alla comunità, nel capitolo dedicato all’obbedienza si afferma in maniera fondamentale (e per me è stato un elemento decisivo nella mia decisione di diventare monaco a Bose): “L’Evangelo resta per te, per gli altri, per la comunità intera la sola legislazione ispiratrice di decisioni. Se tu puoi invocarlo contro una decisione della comunità, è tuo dovere assoluto farlo” (§ 27 – corsivo mio). Il vangelo, dunque, non cancella la libertà di nessuno, ma invita ciascuno a farlo proprio, personalmente, radicalmente, profondamente, quale unica via per rendere sacra la propria vita e desacralizzare per contro (senza negarne l’esistenza o la necessità) ogni altra cosa, comprese le strutture comunitarie ed ecclesiali.

Il secondo, in un certo senso collegato al primo e che ne esprime la portata, l’afflato universale, è la comprensione che il monachesimo in radice è laico, non legato a specifiche strutture ecclesiali o forme particolari di vita “religiosa”. Se infatti l’unica ragione incrollabile che sorregge la vocazione monastica è quella della radicalità evangelica, allora il monachesimo è aperto per sua natura a cristiani di ogni chiesa ed è un segno per la chiesa e le chiese tutte della forza riconciliatrice e unificante del vangelo. L’ecumenismo è la “seconda gamba” naturale del monachesimo così inteso.

Queste due intuizioni sono state approfondite a Bose, sulla scia di quanto indicato di fatto a tutte le chiese dal concilio Vaticano II, alla luce delle Scritture e della tradizione (e le tradizioni) di ogni comunità cristiana che ha preceduto la stessa Bose, realtà studiate tutte con rigore, passione e creatività dai fratelli e dalle sorelle unitisi a Enzo Bianchi, sia da quelli dalla professione più “intellettuale”, sia da chi lavorava manualmente. E attraverso Scritture e tradizione(i), lungi dal cadere in una pura “teologia dialettica” di contrapposizione con il mondo, Bose ha scavato nell’umano, fino a diventare luogo di accoglienza universale, in cui tutti si sentivano profondamente a casa, come in pochi altri luoghi (in Italia mi viene in mente Camaldoli, in tal senso).

Quando entrai a Bose, quasi trent’anni fa, fui il 47° membro a unirsi alla comunità. Quello che mi colpì e mi aiutò a decidere a fermarmi, e a fermarmi piuttosto a lungo (sono stato monaco per 11 anni), fu la collezione di personalità e retroterra decisamente diversi dei membri della comunità. C’era chi veniva da un cattolicesimo molto tradizionale, chi veniva dal mondo post-sessantottino, c’erano nobili e muratori, giovani intellettuali e macellai, contadini e artisti, femministe e donne dal retroterra più tradizionalista. Ma il linguaggio unificante del vangelo compiva il miracolo visibile, affascinante, di un’umanità riconciliata.

Senza entrare nei dettagli della mia vocazione (non sono incline alla pornografia o all’esibizionismo spirituali), mi limito a citare questi elementi, assieme al dato che per me fu essenziale: il poter vivere congiuntamente radicalismo evangelico e libertà personale e umana. Io ero stato educato in una famiglia libera e laica, ma in un paese e un contesto cattolici. Fin da ragazzo ero stato affascinato dalla figura e dal messaggio di Gesù di Nazareth, ma la mia passione per la conoscenza e soprattutto per il pensiero mi avevano sempre lasciato perplesso di fronte alla dottrina e alle strutture del cattolicesimo. Il Vaticano I, per me, aveva segnato un ostacolo che mai, in vita mia, sono riuscito a superare, e che ora ho intellettualmente e pienamente rigettato (come ho spiegato altrove, in una sorta di itinerario alla Newman all’incontrario). Ma a Bose si poteva vivere una vita pienamente cristiana anche senza dogmatismi (non senza teologia o profondità!), alla costante ricerca del vangelo, e questa, per me, era aria pura.

Come si può desumere, io a Bose devo tantissimo, e ancor di più devo a Enzo Bianchi.

È lui ad avermi avviato alla professione di traduttore, a cui manco avevo pensato prima che lui me lo chiedesse, e che poi mi ha dato spesso non solo da vivere, ma anche la libertà di dire no a proposte di lavoro inadeguate, o di lasciare professioni non più compatibili con il mio spirito. Come me sono in tantissimi ad aver scoperto i propri doni, i propri talenti, sotto la sua guida sapiente e sempre volta a far crescere il prossimo.

Alla comunità e all’atmosfera che vi regnava devo l’aver imparato in profondità a studiare per saziare la mia sete di conoscenza, e a fermarmi a pensare per mettere in discussione qualsiasi cosa e riprenderla sotto angolature differenti. A Bose ho acquisito metodo e strumenti che mi hanno reso quello che sono, e non potrò mai dimenticarlo.

Perché ho lasciato Bose, mi direte? In passato ne ho parlato con pochissimi, ritenendola una cosa intima. Col tempo – e alla luce delle vicende attuali – mi sono convinto di poter aiutare a capire varie cose parlandone. Ho lasciato la comunità, fondamentalmente, per una questione personale: perché sentivo di non poter più accettare l’obbedienza monastica senza finire per spegnermi. Perché malgrado la centralità del vangelo anche per quanto riguarda l’obbedienza, in una comunità monastica di tipo cenobitico bisogna limitare la propria libertà o utilizzarla soprattutto per assecondare e sviluppare un progetto comunitario. Non è una questione di violenza psicologica, ma molto semplicemente della concezione che sta alla base del cenobitismo.

Inutile negare che, in parte, non vi fu solo questo”problema mio” (peraltro decisivo), ma anche alcune direzioni dell’evoluzione comunitaria.

Volente o nolente, infatti, Bose già a cavallo dell’anno 2000 stava diventando maggiormente “monastero” e maggiormente “cattolica”. Quando ero entrato si diceva a ospiti e visitatori che Bose era una comunità ecumenica, non appartenente di per sé ad alcuna confessione cristiana, e i cui membri continuavano ad appartenere alle rispettive chiese che li avevano generati a Cristo mediante il battesimo. Quando la lasciai già si usava maggiormente il termine monastero, la narrazione sul continuare ad essere membri della chiesa di origine veniva spesso sorvolata, e si incominciava a discutere un inquadramento canonico, che in seguito diventerà palesemente cattolico.

Su questo vorrei essere molto chiaro: nel 2005, quando me ne sono andato, Bose veniva da 40 anni vissuti in maniera estremamente feconda con il solo ausilio formale della sua Regola (una collezione tematica di citazioni evangeliche), senza alcun profilo canonistico e solamente con una minima strutturazione civilistica per gestire le proprietà comuni. Dire che per vivere il vangelo (o anche il monachesimo) è necessario di più è in realtà falso, anche in un contesto cenobitico, e forse si tratta di un elemento che dovrebbe portarci a ripensare profondamente qualsiasi idea di “vita religiosa”.

A me fu chiesto di stendere una prima bozza di statuto, che pur essendo pensato nel senso di un’associazione di fedeli riservata ai soli membri cattolici (fatto già un po’ ambiguo o rischioso), segnava a mio avviso una transizione e un mutamento decisivi. Con molta pace, e senza polemica alcuna, devo dire che ritengo siano lì siano le radici del passaggio dal definirsi “comunità ecumenica di Bose” a “monastero di Bose”, del parlare sempre più di monaci e di monache invece che di fratelli e di sorelle, dell’enfatizzare la forma di vita monastica piuttosto che il radicalismo evangelico, dapprima da parte di alcuni in comunità, e poi della maggioranza.

Anche la tipologia degli ospiti e delle persone legate alla comunità è mutata secondo linee analoghe. In tal senso vorrei riprendere la definizione resa celebre da Massimo Faggioli della “generazione Bose”, per dire che in realtà ci sono state fino ad oggi almeno due “generazioni Bose”, la prima caratterizzata dal tipo di persone che erano legate alla comunità fino a fine anni Novanta, e la seconda dovuta all’enorme crescita di popolarità di Enzo Bianchi e della comunità tutta dagli inizi del nuovo millennio. Io appartengo alla prima, in cui nessuno si sarebbe mai sognato di definirsi cattolico prima che cristiano, in cui il vangelo era sicuramente al di sopra di ogni possibile dottrina, in cui l’ecumenismo significava una conversione radicale, e anche strutturale, di tutte le chiese, e in cui nessuno avrebbe speso molte energie a difendere aspetti oscuri o problematici della propria “chiesa” o “confessione cristiana”.

La comunità, a inizio anni 2000, aveva già iniziato a cambiare, a compiere scelte che, per me, risultavano sempre più estranianti. Di conseguenza, sebbene Enzo Bianchi credesse molto nel mio possibile e positivo contributo a una transizione efficace dalla comunità del fondatore a una realtà più indipendente e sinodale (per questo mi aveva chiesto di aiutare la comunità a definire, nel capitolo del 2002, possibili cammini di crescita nella sinodalità), avvertii che da persona al cuore della comunità (ero appena diventato segretario del capitolo) col tempo avrei finito per essere un intralcio.

Non mi sento in colpa per non avere continuato a contribuire direttamente alla vita comunitaria dopo il 2005 (pur essendo tornato a più riprese a insegnare ecumenismo ai novizi). Come dissi al priore, comunicandogli che avrei lasciato: “Se uno sente di spegnersi in una struttura, finirà per trasformarsi da risorsa (come sono stato fino ad oggi) a problema”. Non chiesi una soluzione “economica”, di eccezione personale (che pure, ne sono certo, Bianchi mi avrebbe concesso). Anzi, sono abbastanza fiero della mia scelta, che non fu di rottura ma di mantenimento della comunione in altre forme, rispettose di parziali divergenze di cammini.

E a questo punto vorrei parlare del fondatore di Bose, un personaggio, come direbbero gli inglesi, bigger than life, “più grande della vita”, ossia impossibile da racchiudere in categorie o clichés, una miscela di amore derbordante e di inarrestabile determinazione, non privo di difetti e tuttavia ancor più carico di pregi. Enzo Bianchi ha compiuto abusi psicologici? Siccome il nucleo di coloro che, nei corridoi e tramite veline alla stampa (e mai pubblicamente!), lo accusano di una simile “abitudine”, ha fatto passare la narrazione che essa sarebbe perdurata fin dagli inizi della storia bosina, mi sento di essere autorizzato a offrire alcuni importanti chiarimenti e smentite.

Negli anni che sono stato a Bose, e immagino anche dopo, il priore aveva l’ultima parola su tutto. Bisogna intendersi, però: è un uomo che, oltre ad avere dei “fedelissimi”, degli amici in senso più stretto tra i suoi confratelli, amava circondarsi di personalità forti e anche dalle idee diverse dalle sue, come gran parte di coloro che si erano uniti al cammino comunitario dagli inizi fino agli anni Novanta, a cui non negava spazio e che raramente si sentivano dire dei no. Certo, vivendo con un uomo capace di pensare e agire a velocità superiori a quelle della combinazione di diverse persone ordinarie messe insieme, era normale che le sue idee, la sua spinta creativa, fossero sufficienti ad assorbire e impiegare gran parte delle energie comunitarie, lasciando uno spazio relativo alle iniziative dei singoli.

Però questo è sempre stato chiaro, senza ipocrisie, e chi entrava a Bose lo sapeva dal primo giorno. Per contro, tutti e ciascuno potevano vivere la gratificazione enorme di sentirsi parte di qualcosa di grande, di collettivo, in cui il duro lavoro comunitario e personale cooperava a un bene immenso. Non ricordo di aver mai vissuto un senso di appagamento più grande nella mia vita: pur lavorando una decina di ore al giorno (spesso anche durante il fine settimana), trascorrendone un paio negli uffici di preghiera e un altro paio ad accogliere e ascoltare ospiti (e il tempo rimanente da sveglio a studiare), ero felice perché colmo di senso e di fraternità.

Enzo indirizzava tutti a un lavoro, perché era convinto della fondamentale dignità del lavoro umano, del suo renderci fedeli alla terra e solidali col mondo. E faceva fiorire le persone. Tanto che, fino al 2004, il tasso di abbandoni era bassissimo, e il fiorire di fraternità molto belle (finché lui ha presieduto la comunità) è stato un segno della positività di fondo dell’impresa bosina.

Il celibato,  realmente possibile in senso “positivo” solo laddove il vuoto viene colmato di un senso diverso, più profondo, funzionava: nei miei undici anni, a parte un fratello e una sorella andati via e poi sposatisi (cosa che non comporta in me alcuno scandalo!), percepivo molto equilibrio e nessuna frustrazione nel vivere questa dimensione.

Tutto roseo? Il punto non è questo, ovviamente, e difetti in comunità ce n’erano. Le donne, in un certo senso, hanno sempre avuto un ruolo subalterno, come del resto in tutta la chiesa cattolica e anche nel dopo-Bianchi a Bose (anche se almeno a Bose alle donne è sempre stato dato il ministero della predicazione, segno profetico non da poco). Il peso del lavoro, col crescere delle attività, era diventato notevole, e forse si sarebbe dovuto vigilare maggiormente sul delicato equilibrio tra surplus di senso e di gratificazione da un lato, e il rischio di burnout di diversi fratelli e sorelle dall’altro. Lo sviluppo di un autentico cammino sinodale ha sempre stentato (e stenta tuttora, in forme diverse e forse ancor più preoccupanti), la comunicazione sana e umana probabilmente era ed è insufficiente, dato che forse in troppi si sentivano e si sentono tenuti dal silenzio monastico a non comunicare difficoltà e problemi. 

A questo si aggiunge che, probabilmente, il fondatore di Bose, negli ultimi anni del suo priorato, non è più riuscito a trasmettere, soprattutto alle giovani generazioni, l’entusiasmo di un tempo, forse perché il suo ministero si era allargato (legittimamente) oltre Bose, senza che si individuassero forme veramente adeguate di transizione dell’autorità e del carisma bosino.

Va detto inoltre, a quanto ho capito già quando ero ancora a Bose, che soprattutto negli ultimi quindici anni, col mutare del profilo dei visitatori della comunità cui ho fatto cenno, è cambiato anche il profilo di coloro che bussavano alla porta del monastero chiedendo di iniziare un cammino monastico. Prima l’attuale priore, Luciano Manicardi, e poi un fratello in seguito andatosene dalla comunità, avevano assunto l’incarico di maestro dei novizi, e il “reclutamento” e la formazione non erano più riusciti a compaginare le mutate sensibilità delle nuove generazioni con gli stili comunicativi e di vita vigenti a Bose (che indubbiamente avrebbero dovuto essere cambiati). Nelle mie visite a Bose la sentivo ormai avviata a diventare un normale monastero cattolico, e non più uno spazio profetico in cui laici cristiani di ogni confessione potevano vivere insieme sotto la guida dell’ “evangelo e nient’altro”. Si parlava un po’ troppo di “vita monastica”, e meno di “vita cristiana”.

Lo stesso attuale priore Manicardi non aveva mai mostrato, in molti anni, alcun interesse o comprensione particolari per l’ecumenismo, ma la cosa, di per sé, non mi turbava particolarmente: pensavo fosse comunque un uomo attento ad ascoltare fratelli e sorelle, e del resto la comunità non era più “mia”, e dovevo accettare di vederla cambiare a prescindere dai miei gusti, purché il vangelo fosse ancora al centro di ogni discorso e soprattutto della vita.

Nel gennaio del 2017, Luciano Manicardi è stato eletto, col pieno sostegno di Bianchi e della comunità, priore di Bose. Del resto, era stato uno dei due-tre fratelli più vicini a lui per oltre trent’anni, e tutti pensavano (io compreso) che la sua capacità di ascoltare i singoli avrebbe giovato anche alla funzione di presidenza dell’insieme.

Da quel momento ha avuto invece inizio una difficilissima transizione, che è stata imputata interamente nei testi ufficiali della “comunità” a Enzo Bianchi, e che invece ha molti responsabili, in primis lo stesso Manicardi. Questi, dopo avere chiesto a Goffredo Boselli (sì, proprio lui, che viene accusato da alcuni di essere un “manovratore” di Enzo Bianchi e la mente di ogni possibile complotto…) di fargli da vice-priore, incassato il rifiuto di quest’ultimo che non si riteneva idoneo al ruolo (preferiva il proprio lavoro di studioso), ha presto incominciato un valzer di sostituzioni nei ruoli chiave.

La cosa, in parte, sarebbe anche stata naturale, eccezion fatta per un dettaglio non da poco: la graduale ossessione di Manicardi verso presunti abusi, sia psicologici che sessuali, di cui ha iniziato ad accusare più di una persona che rivestiva posti-chiave in comunità. Conoscendo io a fondo alcune delle persone “accusate” (anche anonimamente da qualcuno, con denunce in Vaticano), sono rimasto e rimango tuttora completamente esterrefatto. E’ importante sapere che si tratta di una delle ragioni che hanno creato una spaventosa ostilità da parte di alcuni membri della comunità nei confronti della sorella allontanata in seguito tramite decreto singolare nel 2020, sulla quale sono state condotte non una, ma due spiacevolissime indagini dalla Santa Sede, che hanno concluso la completa infondatezza di qualsiasi accusa in tale direzione. Perché? Molto semplicemente perché si trattava di accuse incredibilmente false, che hanno soltanto ferito in maniera enorme una persona innocente. Di tali accuse non vi è alcuna traccia né nei documenti ufficiali delle visite compiute a Bose nel 2014 e nel 2020, né nei decreti personali riguardanti i quattro allontanati. Parlare perciò di abusi a tal riguardo è una falsificazione gravissima e colpevole da parte di chiunque la compia o la lasci circolare. I provvedimenti dell’anno scorso riguardano totalmente la successione alla guida della comunità e gli ostacoli posti a tale successione dagli allontanati, né più, né meno.

Il comportamento di Manicardi, che nel contempo ha iniziato a chiudere totalmente le porte del dialogo con chiunque non condividesse il suo agire (io gli ho scritto quattro volte da maggio a oggi, senza mai ottenere neppure una riga di risposta), ha fatto sì che a un anno dalla sua elezione, come previsto dallo Statuto, nel voto di conferma della sua elezione ben 18 fratelli e sorelle (un terzo dei professi all’incirca,  numero enorme a così breve distanza dall’elezione!) votassero no. A quel punto è iniziata una divisione crescente nella comunità, con gesti e toni impensabili in passato, che ha portato a gonfiare a dismisura ogni cosa.

Il fondatore ha reagito. Premesso che ritengo sarebbe stato opportuno che egli lasciasse la comunità al momento della successione (quando tra l’altro gli sarebbe stato possibile negoziare qualsiasi condizione avesse voluto per se stesso), è stato normale che a lui si rivolgessero quanti avvertivano un allontanamento da alcune intuizioni fondamentali delle origini nella linea intrapresa da Manicardi.

Un dialogo, da allora, non si è più intessuto, e le cose sono degenerate, fino a raggiungere i “sacri palazzi” del Vaticano, che hanno convocato il nuovo priore di Bose, il quale ha ammesso pubblicamente (anche se solo successivamente e tardivamente) in capitolo di avere chiesto lui l’intervento della Santa Sede in forma di visita, non ritenendosi in grado di gestire la situazione, malgrado il suo ruolo glielo imponesse.

La nomina di una delegazione capeggiata da Amedeo Cencini, per chiunque conosca il mondo della vita religiosa italiana, non poteva che essere l’inizio di un disastro, viste le note e rigidissime teorie di tale “esperto” riguardo alla vita religiosa, ottimamente spiegate sia da Alberto Melloni che da Massimo Recalcati. Cencini, infatti, non ritiene possa esistere alcuna forma di vita religiosa che sia carismatica e non strettamente istituzionale, e ha, come in altri ambiti della psicoterapia (di cui è ritenuto dagli esperti laici un notevole dilettante) teorie molto fantasiose che applica senza eccezione alcuna, tese a “sanare” (vocabolario già di per sé sinistro) le situazioni in maniera radicale.

Invece di avviare un pur difficile dialogo, il religioso canossiano ha, al termine dei suoi primi, pochissimi giorni reali di permanenza a Bose, emesso il suo scontatissimo verdetto: epurare la comunità (espellendo fondatore e persone a lui più vicine), favorire con l’intransigenza l’abbandono di chi si trova a disagio con le sue soluzioni (ritenendo gli abbandoni una necessità, e non un disastro umano per chi li vive, e favorendo l’etichettatura di chi lascia dopo decenni di vita religiosa come un “falso monaco/falsa monaca”) e “curare” chi non intendeva lasciare ma non era d’accordo (tramite psicoterapeuti compiacenti, invitati a incontrare i singoli membri della comunità per “aiutarli a uscire dalla loro confusione”). A chiunque si offrisse di mediare, compreso il sottoscritto, lo stesso Cencini ha risposto ostentando tutto il suo autoritarismo, ribadendo di essere il plenipotenziario del papa e di non avere bisogno di ascoltare nessun consiglio, per una sorta di carisma divino conferitogli.

Se non un immediato dialogo, ci si sarebbe aspettati, da esseri umani e persone civili, almeno un “processo” con tutte le tutele necessarie per gli accusati, che invece si sono visti sbattere in faccia, da un giorno all’altro, dei provvedimenti inappellabili e immediatamente esecutivi, che normalmente, come ho sottolineato altrove, esistono solo in paesi come la Corea del Nord. E questo è un problema gigantesco con cui la chiesa cattolica deve e dovrà fare i conti, perché è il diritto a tutelare sia le vittime sia chi è imputato di qualunque colpa, specie se grave o infamante.

A quanti dicono: “Ma il diritto canonico è così”, faccio osservare che proprio qui sta uno dei problemi più seri (e comunque anche il diritto canonico può essere applicato con umanità ed evangelicità!): vero è che Bose è diventata sempre più una comunità cattolica e sempre meno una comunità ecumenica (tant’è che da lungo tempo nessun non cattolico si sogna neppure lontanamente di chiedere di entrarvi, e che illustri non cattolici l’hanno lasciata di recente dopo molti anni), ma l’utilizzo dello strumento della giurisdizione diretta e immediata del papa su ogni fedele rappresenta quanto di più antiecumenico possa darsi, visto che è un punto su cui nessuna chiesa all’infuori di quella cattolica è o potrà mai essere d’accordo con Roma.

Rimando per contro quanti invocano una abusatissima “mistica dell’obbedienza” per dire che Bianchi e gli altri tre avrebbero dovuto obbedire a testa bassa, o obbedire e basta, al mio articolo sulla desacralizzazione dell’autorità religiosa.

Tutto questo è avvenuto non solo con il silenzio assordante del mondo cattolico italiano e internazionale (e anzi con la palese complicità di alcuni rotocalchi cattolici, che quasi sembravano non attendere altro che di potersi vendicare della franchezza a volte eccessiva con cui Enzo Bianchi esprime giudizi privati su molte situazioni), ma lasciando (volutamente?) che si diffondessero versioni enormemente lesive della reputazione e della dignità delle persone additate come “colpevoli”. L’unica eccezione, che un giorno verrà alla luce giustamente, è rappresentata da un paio di cardinali e vescovi che si sono battuti nei sacri palazzi per una revisione degli assurdi meccanismi messi in moto.

La responsabilità maggiore, inutile negarlo, è imputabile all’attuale priore di Bose, il quale, palesemente incapace di adempiere le proprie funzioni di servo della comunione, ha dapprima invocato l’intervento della Santa Sede, per poi avallare totalmente le tesi e le strategie di don Cencini. Manicardi, che pur essendo un uomo in apparenza molto intelligente quando si tratta di teorizzare, pratica in realtà con molta disinvoltura e dilettantismo l’applicazione delle teorie psicologiche e psicoanalitiche all’accompagnamento spirituale, in questo senso è andato a nozze con il religioso canossiano.

A questo vanno aggiune alcune importanti aggravanti, come l’avere sottratto a un vero dialogo intracomunitario l’individuazione di possibili cammini di riconciliazione, e ancor peggio l’aver dato vita a strumenti molto più simili a quelli di un regime totalitario e repressivo che non a quelli di una comunione di uomini e di donne legati dal vangelo. Progressivamente, infatti, chiunque si trovasse in difficoltà è stato costretto a esprimersi non di fronte al capitolo della comunità o, nel caso di questioni più delicate, al priore, bensì al “discretorio”, un gruppo ristretto di consiglieri fedelissimi del priore, totalmente schierati per una delle parti in conflitto. Chiunque abbia un minimo di esperienza di vita comunitaria, di qualsiasi genere, sa infatti quanto sia orribile doversi pronunciare su questioni intime davanti a diverse persone, soprattutto se ostili, e quanto sia deleterio non poter discutere per contro con l’intero corpo comunitario le questioni che riguardano tutti.

Il risultato è stato che dall’elezione di Manicardi a priore ad oggi, dunque in quattro anni appena, la realtà parla impietosamente di 11 fratelli e sorelle che avevano emesso i voti che hanno lasciato, a cui vanno aggiunti i 4 membri professi allontanati per decreto e altri 4 membri che hanno già chiesto o stanno per chiedere un tempo extra domum, possibile preludio all’abbandono; di tutti costoro, nessuno ha lasciato a causa di Enzo Bianchi, e in diversi hanno imputato al nuovo priore o alle disposizioni del Vaticano le ragioni della loro dipartita. A questi vanno aggiunti un’ulteriore decina di fratelli e sorelle che, pur restando in monastero, hanno manifestato il proprio dissenso con i provvedimenti presi contro i loro confratelli e la loro consorella, e si sono dichiarati disponibili a trasferirsi in una fraternità assieme a Enzo Bianchi. Infine, per completare il tracollo, va segnalato che all’elezione di Manicardi nel gennaio 2017 il noviziato era composto da 15 membri tra fratelli e sorelle, mentre ora il noviziato maschile è vuoto e quello femminile si compone di due sole unità.

A questo punto, non si possono che auspicare le immediate dimissioni dai loro relativi incarichi di Amedeo Cencini e Luciano Manicardi.

Il primo, è bene dirlo con forza, renderebbe un enorme servizio al vangelo e alla chiesa (e a molti “piccoli” innocenti) se si ritirasse definitivamente a vita privata, dopo aver compiuto una serie di disastri di cui quest’ultimo è la triste ciliegina sulla torta, rassegnando le dimissioni anche da qualunque incarico che attualmente detiene in dicasteri vaticani e nella propria congregazione.

Alle dimissioni del secondo (e di tutti i suoi più stretti collaboratori) dovrebbe accompagnarsi una nuova visita canonica che stabilisca le condizioni reali di un dialogo, sotto la possibile guida di un monaco o una monaca esterni (chiamatelo pure, se volete, in termini laici, un “commissariamento” temporaneo di Bose), realmente aperti a qualsiasi soluzione all’insegna della comunione e del vangelo, che non vogliano escludere nessuno ma aiutino tutti a ritrovare il primato del vangelo e della comunione, e che aiutino a individuare anche per il fondatore una soluzione rispettosa, sia per lui che per il corpo comunitario.

A questo mi sento assolutamente in dovere di aggiungere che si è parlato troppo del solo Enzo Bianchi, dimenticando gli altri tre allontanati (con la disumana e “mortale” aggiunta di un divieto rivolto loro di intrattenere qualsiasi contatto con altri membri della comunità per almeno cinque anni, senza che neppure il priore faccia sentire loro la vicinanza del corpo a cui continuano ad appartenere!) nonché i molti “caduti” in quella che sembra più una guerra tra maschi alfa che non una lacerazione pur profonda in un contesto evangelico. È assolutamente vitale che Goffredo Boselli, Lino Breda e Antonella Casiraghi vengano pienamente coinvolti nel necessario processo di riconciliazione, da subito.

Quanto al rinnovamento globale della comunità, sono sicuro che, se si torneranno a porre al centro le due intuizioni fondamentali delle origini, gli uomini e le donne che ho amato e che tuttora amo e che costituiscono quella straordinaria esperienza che  è Bose, disporranno sia dell’intelligenza che dei carismi necessari per trovare soluzioni all’altezza della loro meravigliosa tradizione. La radicalità evangelica può essere infatti sempre ritrovata, e non viene smentita dalle cadute, ma soltanto dall’eventuale indisponibilità a rialzarsi.

La dimensione laico-ecumenica temo sia stata ormai fortemente compromessa. L’utilizzo della giurisdizione diretta del papa per risolvere le questioni comunitarie ne è una sorta di pietra tombale, che difficilmente sarà dimenticata dalle altre chiese. Certo, in realtà l’ecumenismo istituzionale è morto e sepolto in quasi tutte le chiese, a  partire da quella cattolica. Nulla impedisce, però, che si ritorni a essere segno tramite la riscoperta di quella semplice laicità e radicalità evangeliche, più forti di ogni discorso sulle “forme di vita”, sulle “strutture” e sulle “dottrine” di singole confessioni.

Affidando a Dio ogni singola persona coinvolta in questa vicenda, mi assumo ogni responsabilità di quanto ho scritto, totalmente di mia iniziativa, sapendo di averlo fatto soltanto per servire la verità nella carità. La verità che è la carità.

Riccardo Larini

Tallinn, 13 febbraio 2021