Ognuno di noi, se ha un minimo di senso etico e forse ancor più di amore per l’umanità, è portato non solo ad amare, ma anche a indignarsi per qualcosa. Nell’epoca di Internet, c’è chi sceglie di concentrare buona parte della propria indignazione, o quanto meno della propria contrarietà, verso figure o gruppi dalle idee particolarmente lontane dalle proprie. Da cui la marea di utenti della rete che si schierano da una parte di un conflitto di opinioni contro una parte avversa, trasformando tutto in quadri a tinte bianche o nere, senza alcun spazio per altri colori, sfumature o ragionamenti. E come sappiamo, tutto questo ha addirittura portato alla creazione di movimenti e partiti politici o sociali dirompenti.
Nell’ambito dei mondi a cui in qualche misura mi sento di appartenere, ovverosia quelli ispirati ai valori evangelici (a prescindere dalla fede o meno in un dio) e della sinistra (che pur rispettando la libertà le affianca con dignità almeno uguale il valore della giustizia sociale), questo porta spesso all’identificazione di nemici da combattere con ogni mezzo (auspicabilmente lecito, ma non sempre…). Ne potremmo citare molti, quasi in ordine cronologico. Nell’ambito politico si pensi alla partitocrazia, ai politici corrotti, a Craxi, Berlusconi, la “casta”, Salvini e la Meloni, e via dicendo. In ambito religioso si pensi a tutti coloro che si ritengono colpevoli di abusi (sessuali, finanziari, di potere), di clericalismo, di immoralità pubbliche o private di ogni genere, e l’elenco potrebbe anche qui essere lungo.
Sebbene possa sembrare bello e confortante il senso di appartenenza alla parte “giusta” (ammesso che mai ne esista una totalmente tale…), io ho sempre ritenuto più importante sviscerare i cliché, i cortocircuiti o anche solo le contraddizioni irrisolte racchiuse in posizioni teoricamente più vicine al mio sentire. Da cui il mio essere amorevolmente ma anche esigentemente critico verso mondi come quello cristiano o della sinistra.
Sebbene un simile atteggiamento possa essere bollato come sindrome da “bastian contrario”, o più semplicemente come un’inclinazione a essere dei rompiscatole (non ho mai preteso di essere un uomo semplice…), in realtà è frutto di almeno due modalità del progresso della conoscenza umana che ho approfondito mediante i miei studi in diversi campi del sapere.
Da un lato, come ripeto spesso nei miei scritti, la distinzione kantiana tra conoscenza e pensiero (almeno come riformulata da Hannah Arendt) mi porta non solo a cercare di acquisire costantemente nuove conoscenze, ma anche e soprattutto a sottoporre a continua revisione, giudizio e ampliamento mediante la facoltà faticosa e rischiosa del (ri-)pensare ogni conoscenza acquisita, che altrimenti può diventare un puro cliché che non aiuta più in alcun modo a seguire la realtà, la vita e i suoi continui cambiamenti.
Dall’altro, sono consapevole che gran parte delle nostre identità si formano in contrapposizione a ciò che si riconosce “altro” o diverso, e che questo può portarci facilmente ad assorbire e fare nostri criteri e valori estranei o addirittura incompatibili rispetto al nucleo più profondo delle nostre convinzioni e dei nostri principi vitali.
Una possibile risposta in ambito religioso ai meccanismi dell’indignazione, di per sé semplificatori o addirittura violenti, è rappresentata a detta di molti dall’individuazione di modelli o di figure di “santità” che diventino fattori (o fattrici) di trasformazione non tanto tramite le loro critiche nei confronti del prossimo quanto piuttosto mediante l’esempio della loro vita. Tra gli slogan più diffusi in molti ambiti cristiani vi è sicuramente il motto “meno avvocati di Dio, più testimoni del Vangelo”. Problema risolto? L’invito a cercare di diventare santi (tra l’altro avallato in un certo senso sia dalla Scritture ebraiche sia da quelle cristiane) mette tutto a posto? Il rispetto della dignità umana, l’eliminazione della violenza ne risultano garantiti? Dipende.
Dietro alla venerazione dei santi, giustamente ritenuta problematica dai riformatori protestanti, si celano infatti meccanismi pericolosi, smascherati peraltro ampiamente in epoca moderna soprattutto dagli studi di René Girard. Il “desiderio mimetico”, che è ineliminabilmente alla radice di larga parte dei comportamenti umani, quando si esercita nei confronti di figure alla nostra portata, ovverosia potenzialmente “al nostro livello”, diventa spesso paradossalmente fonte di violenza e di morte più che di comprensione, vita e riconciliazione.
Quando poi il desiderio di imitare si applica a leader molto concreti a cui siamo legati, il culto della personalità che ne consegue può sia rafforzare i meccanismi violenti spiegati da Girard, sia obnubilare la nostra capacità di individuare e cogliere i problemi concreti delle nostre comunità e delle nostre società (laddove ciò sarebbe possibile).
In ambito religioso tutto questo viene ulteriormente reso problematico da concezioni della verità come un qualcosa a cui qualcuno (una religione, un leader carismatico) avrebbe un accesso privilegiato, che da un lato parrebbe garantire tranquillità e sicurezza a chi invece non dispone di privilegi equivalenti, e dall’altro fornirebbe ad alcuni dei “diritti esclusivi” che sono sempre, inesorabilmente, fonte di ulteriori violenze.
A questi meccanismi collegati in maniera più palese alle religioni, si affiancano oggi altri meccanismi per nulla virtuosi, di cui molti cadono vittima nel mondo politico e della comunicazione, tanto a sinistra quanto a destra: il rifiorire di un certo culto dei leader, decisamente paradossale. Ma perché si “scommette” così tanto sui leader “giusti”, in ogni ambito?
Una prima risposta è data dalla ricerca di semplificazione in un mondo sempre più complesso. Siccome ormai ci sono molte cose che non sappiamo dominare o spiegare, ci facciamo piacere a tutti i costi narrazioni che rendono le cose meno inquietanti perché più semplici(stiche) e maggiormente assimilabili (ancorché non necessariamente più accettabili). Esempi palesi di tutto questo sono la volgarizzazione del discorso economico secondo presunti modelli “scientifici” inoppugnabili (cosa che di per sé è già un ossimoro per chi abbia conoscenze serie dell’ambito scientifico), o addirittura secondo modelli pressoché unici e standardizzati.
A ciò si affianca il bisogno di “credere” (senza alcuna conferma dalle discipline storiche) che la storia sia fatta in maniera preponderante dai leader di valore. L’attuale divinizzazione a priori di Mario Draghi da parte della stampa italiana (e di larga parte del mondo cattolico) ne è un esempio. La corrispondente esaltazione a priori di Joe Biden da parte degli stessi settori è invece un fenomeno molto più preoccupante, su cui bisognerebbe riflettere appositamente (specie se compiuta in nome del “cattolicesimo” di Biden). Questo porta sicuramente a perdere di vista il faticoso lavoro di ripensamento e di cambiamento di legislazioni e sistemi che è sempre possibile in qualche misura, e che può avere conseguenze ben maggiori dell’elezione di questa o quella figura a ruoli di prestigio.
Il problema non è solo di democrazia – anche se sarebbe ora di aprire gli occhi su come la crescente esaltazione dei leader contribuisca non poco a ridurre la nostra fede e la nostra pratica della partecipazione democratica, a ogni livello – ma anche di comprensione del peso fondamentale delle strutture e delle sovrastrutture delle nostre società.
Non è tuttavia solo un problema politico, bensì una realtà che ha conseguenze molto profonde anche sul mondo del vangelo e delle chiese. E a questo punto scopro le carte del mio discorso, sapendo che così facendo lascerò molti a bocca aperta. Ma lo faccio ponderatamente, chiedendo a tutti di ascoltare con pazienza e di riflettere profondamente. Mi pare infatti che regni ben poca consapevolezza riguardo al modo errato di leggere e interpretare papa Francesco da parte soprattutto degli ambienti cristiani “progressisti” e del mondo politico di “sinistra” in senso lato.
Il giorno che Francesco fu eletto papa, per essere chiari, io piansi di gioia. Pur sapendo infatti che aveva aspetti controversi (sia dal punto di vista del carattere e della personalità, sia delle concezioni teologiche), ero altresì consapevole di altrettante sue qualità evangeliche. E la scelta del nome Francesco era a sua volta di buon auspicio. In particolare la sua insistenza sul tema della misericordia, che ritengo sia il centro assoluto del messaggio cristiano (forse la sua unica verità in un certo senso ineccepibile), mi faceva sperare molto per i miei fratelli e le mie sorelle cattolici.
A distanza di otto anni dalla sua elezione, però, sono affiorate molte contraddizioni nel suo operare che non possono essere taciute, per il bene del vangelo e di chi ci crede, e che vanno enucleate senza per questo trasformare Francesco da eroe in paria o in controtestimone. E vorrei tornare a Girard, per spiegarmi.
L’unico modo per eliminare i rischi collegati al desiderio di imitazione non è scegliere modelli sempre più credibili a cui conformarsi, ma ripartire dal meccanismo che ha svelato, una volta per sempre, la violenza del sacro: il sacrificio della vittima innocente, Gesù Cristo. Un solo giusto, un solo sacrificio, una sola croce vivificante. Applicare a noi esseri umani queste categorie significa, di fatto, ricadere nei meccanismi della violenza del sacro. Pensarsi testimoni in quanto “conformati” a Cristo può funzionare solo laddove si comprenda che, alla fine, l’unica verità che egli potè abbracciare fu la sottomissione all’umanità tutta, nessuno escluso, per amore.
Papa Francesco ha in parte predicato queste cose, con parole molto belle, ma ha altresì fatto uso, troppo spesso, di strumenti autoritari. Certamente a fin di bene, come Savonarola o Oliver Cromwell, o come il suo connazionale Juan Perón (che tutto sommato credo operasse in buona fede). Ma è giunta l’ora di dire con franchezza che usare strumenti e atteggiamenti che sorvolano in modo sbrigativo sulla dignità e i diritti umani non può mai essere una soluzione credibile dei problemi strutturali della chiesa e della società. Così come il giustizialismo non può essere mai la risposta più adeguata, dato che colpisce eventualmente (con troppe certezze, peraltro) alcuni erranti, ma quasi mai gli errori. Al contrario dell’insegnamento di Giovanni XXIII, ad esempio.
Allora pensiamo veramente se abbia così tanto senso provare gioia o sollievo di fronte alle tante teste che paiono cadere nella chiesa cattolica, spesso da un giorno all’altro. E se abbia senso cercare di risolvere il problema enorme della pedofilia e degli abusi nella chiesa unicamente auspicando denunce generalizzate alle autorità civili (che sicuramente vanno fatte laddove ci siano elementi seri per compierle) senza interrogarsi nel contempo con coraggio sulle radici degli abusi e della violenza negli stessi fondamenti del diritto canonico e di molte prassi delle chiese. E pensiamo se abbia senso, per chi si dice cristiano, guardare a qualsiasi persona che non sia Gesù Cristo, avvolgendola di un’aura di santità che ne impedisca il riconoscimento di limiti e fragilità.
Thomas Merton, come è noto, durante la prima fase della sua vita monastica, era divenuto famoso per i suoi scritti su tematiche tradizionali nonché un po’ patinate riguardanti la vocazione, la separazione dal mondo, la preghiera e la meditazione cristiane. Già alla fine egli anni Cinquanta aveva tuttavia iniziato ad approfondire tradizioni diverse dalla propria – in particolare quella buddhista – e grazie anche all’allentamento dei rigori monastici portato dal concilio iniziò a mettere con frequenza nel periodo conciliare e ancor più in quello successivo il proprio naso fuori dal monastero, letteralmente a “uscire nel mondo”. Così descrive nel suo Diario di un testimone colpevole, libro dal titolo assai eloquente pubblicato nel 1966, un episodio ritenuto dai suoi più attenti biografi un vero e proprio punto di svolta consentito dal suo farsi fisicamente prossimo ai suoi contemporanei:
A Louisville, all’angolo tra Fourth e Walnut, al centro del quartiere commerciale, all’improvviso mi sentii sopraffatto dalla presa d’atto che io amavo tutte quelle persone, che mi appartenevano e io appartenevo loro, che non potevamo dirci estranei pur non conoscendoci affatto. Era come risvegliarsi da un sogno fatto di separazione, di autoisolamento spurio in un mondo speciale, il mondo della rinuncia e della presunta santità…
Credo che la risposta, timida, ai problemi esplorati in questo mio contributo, si trovi tra Girard e Merton: né indignati, né santi, né leader, ma persone che fanno uso di ogni loro facoltà per cambiare un po’ le cose, sapendo che in radice tutti, persecutori e vittime, ricchi e poveri, “buoni” e “cattivi” sono perdonati, rigenerati e riconciliati dall’uomo di Nazareth, di cui non esistono né sostituti né vicari, ma solo testimoni colpevoli e misteriosamente portatori di una vita non loro.
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