In una ricerca promossa dall’NICM Health Research Institute della Western Sidney University, pubblicata nel 2019 e portata avanti da un gruppo di studiosi provenienti dalle università di Sidney, Harvard, Oxford, Manchester e dal King’s College di Londra, si è studiato come la rete stia cambiando il cervello umano e sia suscettibile di indurvi in futuro ulteriori cambiamenti.
In tale studio sono riemersi innanzitutto i già noti problemi di natura patologica collegati all’uso eccessivo degli schermi, in particolare di computer, come i disturbi cronici dell’attenzione e i fenomeni di dipendenza. A cui va aggiunta l’altrettanto nota esposizione a rischi come quelli rappresentati dal bullismo digitale e dal possibile sfruttamento di chi non è ancora in grado di esprimere giudizi maturi e compiere scelte libere, come sicuramente è il caso nei bambini e negli adolescenti.
Uno dei dati più importanti che emergono dalla ricerca appena citata è tuttavia come quella che viene definita la “instagrammificazione della società” stia trasformando sia la struttura che il funzionamento del cervello, alterando al tempo stesso il tessuto sociale in cui viviamo. Ciò che risulterebbe mutato significativamente sono “i modi in cui immagazziniamo e addirittura valutiamo i fatti e la conoscenza nella società e nel nostro cervello”.
Se a questo si aggiunge la nota tesi proposta dalla sociologa di Harvard Sherry Turkle nel suo libro Insieme ma soli, comparso in italiano nel 2019 ma pubblicato già nel 2011, secondo cui la rete promette più socialità ma in realtà ci rende più soli e fragili emotivamente, quello che emerge è un impatto globale, sia sociale che fisiologico, che tocca nel profondo tanto la nostra natura quanto la nostra cultura (per quanto sia possibile distinguerle).
Certo, è innegabile il grande giovamento che tutti abbiamo tratto quasi quotidianamente fin da quando la rete e le nuove tecnologie digitali e informatiche sono divenute patrimonio comune a gran parte di noi (non ancora a tutti nel mondo, non va dimenticato!). E ancor più grandi saranno in avvenire i vantaggi che ne potranno ovviamente derivare.
Partiamo dall’informazione. Diciamo subito che a tale concetto si possono associare quantità discrete e misurabili (i bit di informazione), che sono cresciute in maniera incredibile grazie alla rivoluzione informatica. L’universalizzazione dell’informazione rappresenta il più grande successo del “metodo” ideato negli anni ’70 del XX secolo dai progenitori dell’attuale sviluppo digitale, che secondo lo scrittore americano Stewart Brand mosse dall’intuizione che sarebbe stato molto più facile cambiare gli strumenti a disposizione della gente che non la testa degli esseri umani. Il secondo cambiamento sarebbe avvenuto di conseguenza.
La crescita e la diffusione dell’informazione si sono rivelate lo strumento cruciale per dinamizzare le società di tutto il mondo, promettendo democratizzazione del sapere, sovranità dell’individuo e fine delle élite. E in parte (solo in parte, e non sempre in meglio) hanno realizzato quanto promesso. Il mondo dell’economia e della politica ne sono usciti radicalmente trasformati.
Non solo, grazie alla rete e ai nuovi strumenti tecnologici è cresciuta notevolmente la quantità di “conoscenze” disponibili a chiunque, a costi relativamente bassi, in qualunque parte del mondo. Basti pensare a Wikipedia o alla Khan Academy, per citare solo due tra gli esempi di maggiore impatto.
Altro settore enorme che la rete ha favorito sono ovviamente i collegamenti tra persone lontane, sia tramite i sistemi di comunicazione in tempo reale che mediante i servizi di rete sociale. Da questo punto di vista, il mondo delle relazioni personali è mutato radicalmente agli occhi di chi ha oggi più di quarant’anni.
Ogni struttura, però, come già insegnava Jean-Jacques Rousseau e in maniera assai più dettagliata Karl Marx, non è mai un contenitore neutro bensì una realtà che condiziona e spesso addirittura determina il nostro modo di pensare, e per tale ragione presenta sempre qualche aspetto problematico ed è accompagnata inesorabilmente da un’eterogenesi dei fini. La domanda fondamentale che emerge è perciò: come è cambiato il nostro modo di conoscere, pensare e comunicare per effetto dei computer e della rete?
Per poter rispondere dobbiamo, anche se solo in maniera approssimativa, dotarci di una comprensione delle ragioni per cui abbiamo bisogno di esercitare queste attività dello spirito. Ed è solo rispondendo a questa domanda che sarà possibile identificare qualche correttivo ai problemi strutturali indotti dalla rivoluzione digitale al nostro pensare, conoscere e comunicare.
Per quanto riguarda il conoscere e il pensare, mi pare molto feconda l’impostazione data al problema da Hannah Arendt, la quale, riprendendo la distinzione kantiana tra queste due attività dello spirito umano, vede nel conoscere la legittima aspirazione della ragione a un sapere certo e verificabile, mentre ritiene il pensare il bisogno altrettanto fondamentale che l’essere umano ha di andare oltre l’intelletto, alla ricerca – tramite un dialogo nella mente e tra le menti – del significato per certi versi invisibile che si cela tra le maglie del già conosciuto, avvalendosi di percorsi di ogni genere: storici, metastorici, etici, religiosi, estetici, artistici. In tal modo non viene certo negato che anche l’arte e l’esperienza pratica diano accesso a un sapere (o ancor meglio a una sapienza), ma si effettua una distinzione utile a cogliere lo specifico della scienza e di altre forme di conoscenza.
Per comunicazione intendo per contro, con Mario Morcellini (professore ordinario del Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale dell’Università di Roma), qualsiasi scambio tra soggetti personali e collettivi teso a dare risposte ai bisogni radicali di identità, riconoscimento, legame sociale e mobilitazione della mente. La comunicazione è sicuramente un fenomeno complesso e un elemento fondamentale della società, che esiste tramite il linguaggio ed è uno dei principali agenti di socializzazione.
Partendo dalla comunicazione, è possibile dire con un gioco di parole che per moltissime persone “la rete ha preso il posto delle reti”. Se prima di Internet, infatti, contenuti e tendenze erano elaborati da corpi intermedi (i mezzi di comunicazione di massa tradizionali come giornali, radio, televisioni, ma anche i partiti e le associazioni culturali, e più in generale tutte le élite che i fautori dello sviluppo informatico non paiono amare) che quindi li distribuivano alla popolazione, l’avvento della rete ha conferito un forte protagonismo in tal senso all’individuo. Del resto, uno dei massimi dirigenti di Facebook, Chamath Palihapitiya, poi fondatore e amministratore delegato di Social Capital, ha preso atto almeno una decina d’anni fa di tale rivoluzione affermando, con un certo autocompiacimento: “Facebook e le reti di comunicazione sociale stanno facendo a pezzi la nostra società”.
Grazie alle nuove forme di comunicazione messe in atto dalla rete, ogni persona dotata di connessione ha visto riconosciuto in linea di principio un suo fondamentale diritto di cittadinanza: quello consistente nel poter esprimere liberamente la propria opinione, sapendo di poter essere ascoltata da qualcuno. Tramite la rete si è assistito sulle prime a una forte crescita della partecipazione politica in tutto il mondo: dalla campagna elettorale di Obama, alle “primavere arabe”, alla creazione di nuovi movimenti in cui il popolo poteva contribuire “direttamente”.
Proprio quest’ultimo punto, però, si è rivelato particolarmente problematico. La rete ha generato dinamiche del tutto nuove, prontamente colte da chi, studiandole, ha dato vita a veri e propri imperi – non più soggetti come i vecchi corpi intermedi tradizionali a forme seppur indirette di controllo democratico – che in realtà hanno reso per molti versi l’individuo che si credeva ormai sovrano ancor più suddito di prima. E ad antiche élite di ricchi e di intellettuali si sono sostituite nuove élite di (super-)ricchi divenuti tali grazie alla pura conoscenza delle regole del “gioco”.
Sul versante della conoscenza, la riduzione di sofisticazione e di ampiezza nelle forme di comunicazione, e la contemporanea accelerazione nella diffusione e accorciamento del “tempo di vita” di teorie, contenuti e argomenti, ha fatto sì che a prevalere sia oggi la componente emotiva rispetto a quella razionale o veritativa della conoscenza stessa. Se infatti quest’ultima è, secondo una sua tradizionale definizione, una “credenza vera e giustificata”, ovverosia un’adesione a un’idea che si forma nella mente, che è assoggettabile a verifiche e che in qualche modo corrisponde a verità, quando viene sottratto il tempo necessario al processo di verifica (sia all’interno che all’esterno della mente) della veridicità, la conoscenza viene sempre più ridotta all’opinione e alla pura credenza. In parole più semplici, la necessaria componente emotiva, il nostro credere o aderire a qualcosa per mille ragioni rispettabili, viene privato di tutti quegli elementi che lo trasformano in un sapere condivisibile, comunicabile e “verificato”, ossia in conoscenza.
Ad andare in crisi è l’idea stessa di verità, a prescindere da quale sua definizione si scelga di seguire. Va in crisi infatti la concezione della verità come corrispondenza tra quanto è nella nostra mente e la realtà, vista la difficoltà (se non addirittura l’irrilevanza) di sottoporre a verifica le nostre credenze. Viene meno anche la possibilità tipica del pensiero moderno di vedere la verità come la coerenza delle credenze che sposiamo con l’insieme delle nostre mappe mentali, perché la rapidità della comunicazione non lascia più lo spazio e il tempo necessario a un’attività di mappatura di tal genere, che propriamente appartiene al pensare più ancora che al conoscere. E infine va in crisi anche la visione pragmatica della verità, quella che ritiene vera una credenza solo se si realizza nel tempo, dato che il tempo normalmente richiesto da simili processi è più quello della storia che non quello della cronaca, e giunti al punto in cui sarebbe possibile verificare e contraddire ipotesi e teorie, i meccanismi della comunicazione digitale hanno già “bruciato” ogni vecchio interesse, sostituendolo con qualcosa di più “nuovo” e “attuale”.
Siccome è all’individuo che qualunque soggetto in cerca di potere deve ormai rivolgersi per vendere le proprie posizioni, siano esse politiche o commerciali, e dato che la nozione di verità ha perso sostanza o quanto meno non è più prioritaria, al posto della retorica di stampo platonico-aristotelico si assiste oggi a un trionfo di quella che potremmo definire la “retorica neo-sofista” del marketing a tutto campo. Se infatti per Aristotele i due pilastri della retorica erano la ricerca comune della verità e l’arte del persuadere, quando la prima risulta offuscata sono soltanto le componenti emotive proprie della seconda a prevalere. Sono tali componenti, peraltro, a far sì che la comunicazione crei un’identità di base, un senso di legame con altre persone, e che la rendono uno strumento importantissimo e ineludibile di mobilitazione delle menti.
Non sorprende dunque che si assista a una tale passionalità politica da far crollare molti freni inibitori che in passato rendevano il parlare delle proprie idee politiche in pubblico se non proprio un tabù, quanto meno una questione estremamente delicata, da trattare con pudore e prudenza. E alla passione si accompagnano polarizzazioni sempre più forti su ogni argomento, dando luogo alla situazione paradossale di una “fine delle ideologie” in cui in realtà tutti tendono a diventare più ideologici di prima, grazie a narrazioni estremamente semplificate, difficilmente in linea con la complessità del mondo reale.
Cosa è venuto meno, e cosa bisogna cercare di riprendere altrimenti nel quadro attuale della conoscenza e della comunicazione? A rischio di essere quasi lapalissiani, dico semplicemente quello che Hannah Arendt aveva incominciato a esporre ne La banalità del male e che chiarificherà successivamente ne La vita della mente: il pensare. Nella crescente pletora di polarizzazioni manichee dobbiamo trovare il modo di reintrodurre il motore e i tempi del dubbio, il senso critico, il dialogo interiore della coscienza, che prima ancora di essere una questione morale è una questione di “conoscere con noi stessi”, di sottoporre a scrutinio ogni idea e ispirazione che ci passa per la mente, anche quelle in apparenza più “sicure”.
Nella comunicazione passionale della rete il dubbio trova spesso posto solo nella sua caratterizzazione malata che affiora nelle teorie del complotto (e in molte risposte “anti-complottiste”, formulate sempre più secondo canoni paragonabili a quello dei complottisti). Ma come insegnava la grande filosofa ebrea, alla luce del processo ad Adolf Eichmann a cui aveva preso parte in qualità di giornalista, il male non è un’entità metafisica, assoluta, ma sorge e si sviluppa soprattutto laddove in noi non vi è che una sola voce, certa e incrollabile (sia essa la nostra o quella che altri ci hanno instillato), che non trova più nessuna voce che osi dire: “Ne sei davvero certo?”.
Secondo studi recenti, da un paio di decenni (guarda caso paralleli allo sviluppo della comunicazione in rete, anche se le correlazioni vanno provate) si registra l’avvenuto ribaltamento del cosiddetto “effetto Flynn”, dal nome dello psicologo neozelandese James Robert Flynn che lo aveva teorizzato e misurato, secondo cui il quoziente intellettivo medio delle nazioni più “sviluppate”, indipendentemente dalla cultura media di appartenenza, tenderebbe ad aumentare da una generazione all’altra. Se, infatti, fino al 1983, si era registrato in tal senso un aumento da una generazione all’altra oscilante tra i 5 e i 25 punti, dopo un forte rallentamento si è passati, nell’ultimo ventennio, a un calo medio annuale pari allo 0,25-0,5%.
Diventa perciò importante individuare “antidoti”, meccanismi virtuosi in grado di aiutarci a invertire tendenze pericolose, sia per le nostre vite individuali che per quelle delle nostre società. Ritagliarci spazi e tempi per pensare, per rivolgere domande alle nostre conoscenze o più semplicemente per lasciarci liberi di esplorare il non ancora visto o non ancora detto attraverso ogni arte a nostra disposizione, è la moderna disciplina dell’arcano a cui siamo chiamati per salvare comunicazione e conoscenza, nonché la nostra capacità di intessere relazioni sociali sane e appaganti.
Come facevano i sacerdoti dei culti misterici (compreso quello cristiano!), dobbiamo tornare oggi a rallentare, a deviare, a fare spazio all’altro e agli altri, in modo molto concreto, senza nessuna utilità immediata. E dobbiamo (ri-)pensare a forme aggregative nella nostra società, come suggeriva Ralf Dahrendorf in Quadrare il cerchio, che sottraggano il nostro bisogno di legami al puro gioco frenetico del divide et impera messo in atto dalla rete.
Solo così, per riprendere un’espressione di Alessandro Baricco, potremo conferire al “gioco” stupefacente e incredibilmente fecondo messo in atto dalla rivoluzione digitale quel “supplemento di umanesimo” in grado di impedirne o quantomeno di limitarne significativamente gli effetti negativi. Solo così, ne sono convinto, la rete potrà aiutarci a essere realmente umani.