Tempo fa mi sono imbattuto in un articolo di un fotografo agrigentino, Tano Siracusa, dal titolo molto interessante: Il Mediterraneo. Da Tangeri a Marsiglia, da Agrigento a Istanbul, la stessa luce. Da persona che vive lontana ormai da anni dalle proprie terre, comprendo bene come il tema della luce sia tra quelli che più caratterizzano il modo di essere e di affrontare la vita di un popolo o di popoli similari. Io mi sono sempre sentito a casa dappertutto nel Mediterraneo, in parte a motivo della sua luce.
Con questo non voglio fare alcun torto alla magia peculiare della luce di altre terre. Del resto vivo in Estonia, dove la luce ha un’importanza fondamentale, sia d’inverno, quando manca e si possono talvolta vedere gli affascinanti bagliori dell’aurora polare, sia d’estate, quando le sfiancanti notti bianche sono teatro di incontri e di improvvisa socializzazione. Alla luce mediterranea sono tuttavia legate le figure che più hanno ispirato il mio personale viaggio verso qualche barlume di sapienza, contraddittorio come la compresenza nello stesso orizzonte di montagne innevate e di deserti, di calore umano e violente divisioni, di luce e ombra.
La prima di esse, per certi versi tormentata e tragica, è quella di un prete inglese del xix secolo (dunque non certo nato nel Mare Nostrum), John Henry Newman, canonizzato nel 2019 dalla chiesa cattolica.
Newman era cresciuto anglicano e aveva studiato a Oxford, dedicandosi dapprima a un approccio puramente razionale alla propria religiosità, per poi accostarsi a forme più tradizionali del cristianesimo. Due esperienze fondamentali lo portarono pian piano a cambiare prospettiva riguardo alla propria fede: da un lato gli studi storici, unitamente all’adesione al cosiddetto Movimento di Oxford, che mirava a riscoprire gli elementi comuni al cattolicesimo in seno alla tradizione anglicana; e dall’altro un lungo viaggio che fece nel Mediterraneo per accompagnare un amico malato di tubercolosi verso terre più calde e accoglienti rispetto all’umida campagna oxoniana.
Durante quel viaggio, dopo un soggiorno a Roma si recò nel 1833 in Sicilia, dove si ammalò a sua volta seriamente e fu costretto ad attendere a lungo prima di poter ripartire alla volta di casa. Lì scoprì la “luce gentile” del Mediterraneo, che esaltò erigendola a sua guida nel difficile cammino della vita nel poema La colonna e la nube, divenuto poi un inno corale cantato su diverse melodie. E la luce gentile lo condurrà per il resto della sua lunga vita terrena (Newman morì nel 1890, quasi novantenne), in particolare nei dodici anni successivi, descritti in maniera letterariamente avvincente nell’autobiografica Apologia pro vita sua pubblicata nel 1864, in cui maturò la decisione di lasciare l’anglicanesimo per passare alla chiesa cattolica.
Non è quest’ultima decisione di Newman che trovo particolarmente ispiratrice, né ho mai amato (mi perdonino i miei amici cattolici) la sostanziale perdita del senso della dolorosa e faticosa ricerca che sembra caratterizzare ogni suo scritto post-conversione, quasi che, trovata la “verità romana”, non vi fosse ormai più spazio alcuno per lo stupore intellettuale. Il mio itinerario personale va, per certi versi, in direzione opposta. Ma ho sempre apprezzato il fatto che un inglese avesse trovato la forza per attraversare i propri tormenti personali grazie alla luce del mare in riva al quale ho trascorso infanzia e adolescenza.
La ricerca della purezza della luce è un tema costante nella lirica e nella spiritualità mediterranea. Mario Luzi si spinse a ipotizzare e descrivere un Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini da Avignone a Siena, alla ricerca di una luce ancor più pura di quella che aveva pure esaltato i colori dei dipinti di quest’ultimo.
In realtà Simone morì ad Avignone nel 1344, ma Luzi immagina una sorta di ritorno all’origine del pittore, anziano e ormai prossimo alla morte, attraverso la metafora del viaggio verso la città natale in cui, in dialogo con la moglie, il fratello, la moglie di quest’ultimo e un teologo, Martini si interroga da un lato sul senso ultimo della creatività, ma ancor più in profondità sul senso della vita e della propria vocazione, giacché all’origine dell’arte giunge a cogliere un invito, una parola personale che pone in essere il viaggio esistenziale di ciascuno.
A dare il là alla ricerca, la luce che permea sia la carne che lo spirito dell’artista:
Ma la luce non giunge all’uomo nella sua purezza e trasparenza:
La luce è raggiungibile solo attraversando il chiaroscuro della storia, viaggiando nella vita e verso la morte animati da una speranza di senso, anche se, avverte Simone-Mario, la voce dell’origine sembra spesso essersi spenta totalmente:
Resta a dare sollievo e speranza l’anima del mondo, “da tutto ferita, da tutto risarcita”:
La ricerca di Martini-Luzi approda infine, pur a fatica, alla luce, che il lettore è invitato a cercare tra le pieghe d’ombra della storia, nell’afflato della natura, ardendo nella carne e nello spirito, in cerca di voci fecondanti e originarie.
Pochi decenni prima della nascita di Simone Martini era morto a Fiorentino di Puglia un uomo che forse aveva amato e capito più di ogni altro la luce del Mediterraneo: Federico Ruggero di Hohenstaufen, che a dispetto del nome germanico e del titolo di imperatore del Sacro Romano Impero, crebbe e fu educato in Sicilia per poi farvi ritorno da imperatore e guadagnarsi l’appellativo di stupor mundi per la sua straordinaria opera di promozione delle arti.
Camminando per le strade di Ortigia si può capire e respirare ancor oggi come fu la luce a stregare cuore e mente di Federico II di Svevia (così è noto ai più), il quale fece costruire il Castello Maniace su quell’isola, dove ogni pietra, dalla residenza federiciana fino alla meravigliosa piazza Duomo, sembra raccontare la forza generante e rigenerante della luce.
Ma l’apogeo della cultura della luce che fa ardere la vita e il pensiero umano si trova probabilmente ancora più a sud, lungo le coste africane, dove per oltre sette secoli, a partire dalla sua fondazione nel 332 avanti Cristo per volere di Alessandro Magno, Alessandria, la “città della luce”, fu la culla di ogni sapere e ricerca umana. E per parlare di Alessandria non vi è forse nessun personaggio più adatto a caratterizzarla della grande Ipazia.
Ipazia, matematica e astronoma di notevole caratura, filosofa e teologa di scuola neoplatonica, visse ad Alessandria d’Egitto a cavallo tra il iv e il v secolo della nostra era. Oltre al suo essere donna e studiosa, fatto non comune in epoca antica, la sua figura ci è nota per l’orrenda morte che conobbe per mano dei “talebani cristiani” del suo tempo, i fanatici seguaci di “san” Cirillo, papa di Alessandria e (ahimè!) dottore della chiesa, i quali la lapidarono e dilaniarono di fronte all’altare del Caesarion, tempio fatto costruire da Cleopatra in ricordo dell’amato Giulio Cesare e trasformato dai parabolani cirilliani nel loro quartiere generale.
La sua intera vicenda è intrisa dei tratti e del respiro della tragedia antica, ed è per questo che ha catturato l’interesse e l’immaginazione di ogni generazione, dal momento del suo epilogo terreno ai nostri giorni. Di lei hanno trattato storici e studiosi, da Socrate Scolastico a Niceforo Callisto nell’antichità e nel medioevo, e da Edward Gibbon a Silvia Ronchey in epoca moderna e contemporanea. Artisti, poeti, scrittori, drammaturghi e registi hanno ripreso l’ardore della sua passione per la saggezza e la sua tragica fine “sacrificale”, da Raffaello a Mario Luzi, da Lamberto Puggelli ad Alejandro Amenábar.
Nella lunga storia delle interpretazioni ipaziane non sono mancate semplificazioni ed esaltazioni di tematiche tipiche di epoche e culture diverse da quelle della grande alessandrina: da chi ne ha esaltato con un certo cattivo gusto la verginità (peraltro presunta: semplicemente si rifiutò di sposarsi per dedicarsi agli studi) nel medioevo, a chi ai nostri giorni ne ha fatto l’icona del pensiero scientifico contro la superstizione religiosa. Come per ogni cliché, anche in questi vi è qualche scampolo di verità da salvare, ma si rischia di non cogliere l’unicità e l’importanza delle figure a cui li si incolla.
Alessandria è stata uno dei massimi centri culturali dell’umanità di ogni tempo, e fu a lungo teatro di incontri straordinari tra scienze, filosofie e religioni. La bibbia ebraica vi fu tradotta in greco, i primi grandi pensatori cristiani svilupparono le loro altisonanti elaborazioni teologiche, e attorno al Museion e alla Biblioteca si radunarono i più grandi intellettuali dell’antichità.
Perché? I motivi sono tanti, ma Ipazia ne rappresenta una sorta di sintesi iconica. Di lei Niceforo Callisto scriverà: “Chiunque avesse il desiderio di sapienza accorreva da lei”. Ad Alessandria, in cui ancor oggi si può essere testimoni sia all’alba che al tramonto di una luce senza pari, si ardeva per ogni forma di sapere, ma si era soprattutto consci di quanto conoscenza, comunicazione e pensiero fossero perni cruciali della ricerca del vero. Tra chi meglio ha colto l’emblematicità della maestra alessandrina vi è anche in questo caso Mario Luzi, che così scrive nel suo dramma Il libro di Ipazia:
La sintesi luziana è straordinaria: Ipazia rappresenta il bisogno di comunicare, di conservare libri, ma anche di continuare a pensare, a interrogarsi su tutto e a passare al vaglio dell’esperienza e della vita ogni teoria, convinzione, intuizione. Capire Ipazia e la sua sete di tutto – scienza, filosofia, religione – è capire altresì, sempre con l’Ipazia luziana, che “è nel fuoco che bisogna ardere / niente si addice alla parola più che la temperatura del fuoco”. Ricerca, scambio di parole nella mente e tra le menti, passione, luce e fuoco: è la sintesi anche urbanistica e architettonica del miracolo alessandrino, dal Faro alla Biblioteca al Museion. Passione bruciante, mediterranea, per tutto e per tutti.
Nel bel film che Alejandro Amenábar ha dedicato a Ipazia, Agora, il momento centrale, illuminante, ha luogo quando Sinesio di Cirene, vescovo di Tolemaide in Libia, antico discepolo e amico di Ipazia, torna a farle visita per convincerla a farsi cristiana e a evitare conseguenze tragiche per se stessa. Ipazia, con dolcezza e fermezza, gli dice lasciandolo ammutolito: “Sinesio, tu non metti in discussione ciò in cui credi. Io debbo farlo”. Sempre Luzi, in una altra stanza del suo dramma dedicato alla sua musa alessandrina, scrive:
La passione e il bisogno di dubitare e di pensare possono, e spesso lo fanno, portare al martirio, sia fisico che morale. Ma il grande messaggio di Ipazia risuona ancora una volta grazie al poeta fiorentino:
Ipazia di Alessandria è un pressante invito a tenere insieme il fuoco della passione e della curiosità e la lampada chiaroscura del dubbio, la ricerca dei semi di vero e di positivo presenti ovunque, ma stando sempre in guardia per la compresenza inestricabile dal vero e dal buono del falso e del malvagio, o meglio, dell’ombra senza cui, peraltro, la luce non saprebbe delineare nulla, come avrebbe detto Ernst Gombrich.
Perciò, come ha compreso Luzi stesso e ha illustrato con acume Giovanna Pozzi, la figura moderna che più potremmo avvicinare a Ipazia è Cristina Campo, che ne Gli imperdonabili scrive di se stessa (ma potrebbe dirlo della stessa alessandrina negli ultimi periodi della sua vita terrena):
Il viaggio di Simone Martini verso le proprie origini termina con la visione della luce. Quello di Ipazia, pur caratterizzato da un finale tragico, è tuttavia intriso del fuoco per il sapere e della luce del dubitare proprio della filosofia e del pensiero, della sua continua ricerca di chiarezza. Non stupisce perciò che un altro grande poeta, nativo guarda caso a sua volta di Alessandria, abbia saputo narrare in epoca contemporanea il viaggio della vita, in cerca della luce e della chiarezza dell’origine, in maniera tale da renderlo giustamente immortale: Konstantinos Kavafis.
Il personaggio scelto dal poeta alessandrino per narrare la propria visione (o forse più semplicemente la figura mitica che ha ispirato nel profondo la sua riflessione) è Ulisse. Ma invece di invitare i lettori, come aveva fatto Alfred Tennyson, a varcare con l’eroe omerico le colonne d’Ercole per mettersi in viaggio “oltre il tramonto”, Kavafis sceglie il desiderio del ritorno a casa come struttura portante del viaggio esistenziale, e lo illumina di grandi intuizioni dette con parole quasi ordinarie della lingua neo-ellenica (che varrebbe la pena imparare anche solo per poter leggere versi come i suoi).
Ulisse/Odisseo è nato a Itaca e ad essa anela per tutto l’arco dell’Odissea di Omero, affrontando ogni specie di mostro, di pericolo e di sfida. Ma ecco un primo monito del poeta alessandrino, nella bella traduzione di Nicola Crocetti:
Come capiranno millecinquecento anni dopo Odisseo anche i monaci cristiani del deserto alessandrino, i veri mostri sono quelli con cui combattere nella mente e nello spirito, in una lotta possibile solo se qualcosa di più alto ci occupa e cattura nell’intimo ogni nostro pensiero ed emozione.
Da cui l’invito ad arricchirsi il più possibile di esperienze di bellezza carnale:
ma anche dello spirito:
Difficile non pensare, sebbene suoni anacronistico se riferito a Odisseo, che Kavafis non avesse in mente in questi versi la natia Alessandria all’epoca del suo massimo splendore.
Perciò Itaca, il desiderio dell’origine, dell’archē, della luce e del principio della conoscenza, che aveva dato origine alla prima ricerca filosofica a Mileto, acquista senso e valore solo mediante il viaggio che essa stessa ha originato. “E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso”, conclude splendidamente il poeta.
Il nostro itinerario terreno, dunque, può terminare in luce, nel martirio o in una saggia senescenza. Ma è il viaggio spirituale e materiale del sapere, intriso di esperienze di ogni genere e di passione per il mondo e per la riflessione a contare.
Allora Itaca non ci avrà delusi di sicuro.