Nel 1986, quando era presidente dell’IRI (l’Istituto per la Ricostruzione Industriale), Romano Prodi tenne una lezione sul significato dell’economia nel Salone degli affreschi del Collegio Borromeo di Pavia, in cui stavo compiendo i miei primi studi universitari in fisica. A un certo punto, per spiegare il proprio pensiero, citò la parabola dei talenti, affermando che il suo significato indiscutibile era che ciascuno deve fare il massimo delle proprie capacità, anche in ambito materiale ed economico, a meno che non voglia venire meno al proprio più profondo dovere esistenziale (e cristiano).

All’udirlo fui preso da un profondo fastidio, direi addirittura da un certo turbamento: ma davvero Gesù aveva una simile intenzione quando aveva parlato dei talenti nascosti e non nascosti, da far fruttare o conservare?

Nel corso degli anni ho imparato che le esperienze di profondo turbamento o disagio che proviamo di fronte a idee o parole più o meno in vigore o di moda sono fondamentali per la nostra crescita umana e intellettuale. In alcuni casi, è infatti possibile scoprire che dietro al nostro disagio si nascondono nostre immaturità o paure da superare, fantasmi da combattere, ombre da dirimere o accettare, verità non ancora comprese perché osservate a partire da pregiudizi errati. In altri casi, però, grazie alla fatica del pensare e alla lezione del tempo, è possibile giungere poco per volta a mettere a fuoco la nostra contrarietà, e a fugare il disagio mediante una critica seria e profonda delle affermazioni o dei concetti che ci avevano spiazzato, indisposto o addirittura ferito.

Tornando a Prodi e alla parabola dei talenti, come tutti sanno non si tratta assolutamente di un’interpretazione originale. Da Max Weber in poi si è sostenuto da più parti (anche se quasi mai da parte di studiosi seri delle Scritture) che i fondamenti della morale dei sistemi capitalistici sarebbero per l’appunto in tali parole di Gesù, che inviterebbero a far fruttare i doni, e addirittura a far crescere il capitale anche materiale, in segno di riconoscenza verso Dio.

Ad alleviare o addirittura fugare del tutto il possibile senso di ingiustizia latente in una simile interpretazione (perché Dio avrebbe dato di più ad alcuni e meno ad altri da investire?), già ci aveva pensato, ante litteram, il filosofo e teorico dell’economia scozzese Adam Smith, il quale aveva comunque rassicurato che la divina provvidenza fa sempre sì, come una sorta di “mano invisibile”, che paradossalmente, all’interno del libero mercato, la pura ricerca dell’interesse e della crescita personali finisca per favorire non solo se stessi, ma anche l’intera comunità umana.

Nell’Ottocento, infine, non va dimenticata l’opera fondamentale di un gigante della scienza contemporanea: Charles Darwin, il quale a partire da una prospettiva del tutto agnostica ha formulato una straordinaria teoria in grado di spiegare l’evoluzione della vita mediante i meccanismi di mutamento casuale e selezione naturale. Perché citarlo in questo contesto? Perché una sua lettura molto distorta ha finito per prevalere in connessione con i “talenti” umani, portando molti a ritenere che, dato che la “sopravvivenza del più forte” è la massima legge di natura, sia necessario fare tutto il possibile per rafforzare noi e i nostri figli, onde dare loro la speranza di una vita di successo (equiparato alla felicità).

Da questo insieme di idee credo si sia giunti all’enfasi odierna su successo, leadership, merito e resilienza. Il successo è ritenuto eticamente superiore, e tutti siamo invitati a sviluppare qualità che lo garantiscano, soprattutto in termini economici. La scuola troverebbe in questo la sua principale finalità, e di conseguenza dovrebbe insegnare ciò che è “utile”: l’imprenditorialità, la grinta, la capacità di essere resilienti, di tirare fuori tutto da noi stessi.

Non intendo ovviamente dire che tutte queste cose siano sempre negative o da liquidare, ma mi pare importante, proprio mettendoci in ascolto della parabola dei talenti, inquadrarle in un contesto decisamente più ampio e umanamente più pregnante.

In un’intervista molto bella concessa a un rotocalco nazionale per spiegare il senso della propria professione, la consulente di carriera estone Monika Larini ha affermato: “Il mondo sarebbe un luogo fantastico se il culto del successo diventasse culto dell’appagamento”. Premeso che il termine estone che ho tradotto con appagamento (rahulolu) comprende l’idea della realizzazione della propria verità e della pace con se stessi, le sue parole sono riecheggiate a lungo nella mia mente, come una sorta di risposta in nuce al disagio che suscita da molto tempo in me la terminologia del successo e della resilienza.

Così sono tornato ancora una volta alla parabola dei talenti, operandone una prima rilettura, se volete, alla luce della filosofia platonica e aristotelica, che poneva l’eudaimonia, la ricerca del “buon demone/spirito guida”, della “buona sorte”, della “coscienza pacificata” come scopo principale della vita umana. Perché i talenti che ognuno di noi ha ricevuto sono la nostra unicità, la nostra irripetibilità, la nostra dignità unica e inalienabile.

E come ben sapevano Platone e Aristotele, sicuramente l’eudaimonia si può raggiungere solo tramite l’esercizio delle virtù, sia morali che intellettuali, che non servono però a copiare gli altri, a farci calzare modelli imposti dall’esterno, ma a portare ciascuno di noi alla piena realizzazione di se stesso.

Anche questo, però, non basta, e le parole di Gesù diventano ancora più radicali, fondamentali e fondanti se lette coerentemente con il suo insegnamento, e non forzando su di esse le nostre categorie e i nostri interessi. Allora si scopre che alla radice di tutti i talenti vi è il talento più grande che egli ci ha affidato: il suo vangelo, il suo amore misericordioso che ci porta, che è la radice più profonda di ogni appagamento, pacificazione, realizzazione di noi stessi.

È il vangelo il talento da non nascondere, da non custodire come tesoro geloso ed esclusivo (cioè escludendo gli altri dalla portata e dall’abbraccio dell’amore misericordioso), da far fruttare, perché fecondi la nostra vita, il mondo delle nostre relazioni, la società e il mondo interi.

Se questa base è presente, è possibile accettare la vita e scoprire addirittura che può essere un dono. È possibile crescere, portare frutto. È possibile trovare barlumi di pace, frammenti di senso, orizzonti di speranza. E lo è per tutti, anche per chi versa nelle condizioni più assurde e disagiate, per chi non ha pressochè nessuna speranza di “successo” di natura economica, come purtroppo avviene per la stragrande maggioranza degli abitanti del nostro pianeta. 

Allora l’unico successo che acquista veramente senso e che regge e giudica ogni altro successo, diventa il successo dell’accoglienza, del reggere l’altro, del far crescere tutto e tutti, dell’aiutare quotidianamente ad alzare la testa, a sentirsi voluti da qualcuno, anche laddove la realtà sembra essere un inferno. È questa la vera “mano invisibile” che tiene in piedi il mondo, malgrado molte cose, forse troppe, sembrino far tutto perché crolli.