Quando si insegna la teoria dell’argomentazione, ovverosia come cercare la verità e sostenere le proprie posizioni in pubblico, uno dei primi capitoli, decisamente fondamentale, tratta delle cosiddette fallacie argomentative. Con tale termine si allude ai modi errati di sostenere le proprie posizioni (e soprattutto di criticare quelle altrui). Una delle fallacie più usate, ma non per questo meno eticamente deprecabili, è la cosiddetta argomentazione ad hominem, in cui non si risponde alle posizioni dell’interlocutore, ma lo si attacca personalmente screditandolo o addirittura deridendolo.

Il commento dedicato in data 23 settembre dal direttore del settimanale online dei dehoniani al mio libro sulla parabola globale della comunità di Bose ricorre precisamente a una simile strategia, che io non ritengo di dover seguire per rispondere alle critiche che mi sono state mosse in tale sede. Mi limiterò dunque a qualche doverosa precisazione e considerazione.

Il commento si apre infatti con la ripresa (quasi) letterale della autopresentazione che compio nell’introduzione al libro, il cui scopo, molto onesto, è ovviamente di consentire al lettore di essere informato preventivamente riguardo ai miei inevitabili “pregiudizi” (chi non ne ha?), dovuti alla mia storia e alle mie convinzioni personali. Nella critica mossa al libro, le mie parole vengono utilizzate invece per dire sostanzialmente che io, non essendo più a Bose da anni, e soprattutto non essendo più dichiaratamente “cattolico” (quando sono entrato io a Bose, era una comunità ecumenica, non cattolica…), vivrei una estraneità profonda rispetto alla comunità, a differenza del direttore del settimanale in questione e di altri commentatori (quali, di grazia?). E invece, come sa chiunque si occupi di ermeneutica (l’insieme di discipline che si occupano dell’interpretazione), è proprio la giusta miscela di distanza e prossimità a consentire analisi profonde, soprattutto nell’ambito delle scienze umane. Perché, ad esempio, non si può parlare con competenza di vita monastica senza averla vissuta, né la si può criticare lucidamente (peraltro con rispetto e con amore, come faccio in ogni pagina dei miei scritti) senza averne preso una certa distanza.

Detto questo, stupisce profondamente che il recensore passi dalla disamina della fase di ricostruzione della storia bosina (i primi dieci capitoli più l’introduzione del mio testo, per un totale di 114 pagine, che anch’egli elogia per competenza e profondità) a quella della critica che muovo all’intervento della Santa Sede (il capitolo XIII, ovverosia 14 pagine, dalla 151 alla 164), omettendo completamente di citare l’ampia analisi che compio dei problemi sorti in seno alla comunità col tempo (i capitoli XI e XII, per un totale di ben 36 pagine). Chiunque ha avuto già modo di leggere il libro, infatti, ha sicuramente notato come in quei capitoli, lungi dallo schierarmi da qualsiasi parte, io evidenzi con fraterna schiettezza, puntigliosità e perfino un certo dolore le problematiche sorte a Bose a causa della crescita e della complessificazione della comunità, soggiacenti e precedenti ai successivi “conflitti di potere” che, lungi dal risolverle, hanno finito per generare sofferenze inaudite in tutti i fratelli e le sorelle di Bose, a prescindere dalle differenti letture maturate in senso alla comunità stessa al riguardo.

Uno dei tratti tipici delle argomentazioni ad hominem, inoltre, è accusare l’“avversario” delle stesse incongruenze in cui siamo noi a cadere per primi. E infatti l’autore della recensione, fortemente ostile da anni a Enzo Bianchi, nonché totalmente e palesemente schierato fin dall’inizio dalla parte del delegato pontificio, il canossiano Amedeo Cencini, afferma che il mio libro è totalmente di parte, senza peraltro riuscire a evidenziare o provare alcun errore nelle mie affermazioni. I due unici appunti concreti mossi in tale direzione sono infatti di facile confutazione.

Per il primo (la presenza a Bose di tutti e tre i membri della delegazione mandata dalla Segreteria di stato a cavallo tra il 2019 e il 2020 solamente per una manciata di giorni, e non per un mese intero come millantato) posso contare, oltre che sulle testimonianze di numerosi membri della comunità, anche su documenti scritti, che non ritengo opportuno rivelare per non danneggiare chi me li ha trasmessi.

In un secondo punto si scrive che, contrariamente alle mie “illazioni” sulla presunta cattolicizzazione e omologazione di Bose voluta dalla Santa Sede, «nello statuto attualmente in discussione vengono nettamente confermate le genialità comunitarie relative alle innovazioni liturgiche ed eucologiche, alla compresenza monastica di fratelli e sorelle, al servizio all’ecumenismo e ai percorsi formativi». Da un lato mi sembra interessante che il direttore del settimanale dehoniano si dichiari in possesso dello statuto attualmente in discussione, visto che, ad esempio, sia la comunità sia il vescovo di Biella hanno ricevuto l’ordine tassativo (di cui ho le prove documentarie) dal delegato pontificio di non condividere con nessuno né gli statuti passati né quelli presenti, come hanno potuto verificare quei giornalisti che hanno provato a indagare vicende poco chiare riguardo proprio agli statuti comunitari. Faccio tuttavia notare che la questione delle prassi liturgiche e di preghiera non è materia degli attuali statuti, ma che le mie osservazioni in proposito si basano sulla lettura della lettera inviata dal Segretario di Stato alla comunità il 13 maggio 2020, in cui si dice chiaramente al punto 5: «Anche in ambito liturgico si raccomanda un’attenta riflessione sulla prassi e sugli usi celebrativi – tenendo conto della natura ecumenica della Comunità – in modo che siano conformi allo spirito e alle norme stabilite dall’Autorità ecclesiastica competente [quella cattolica]». A tal fine il medesimo documento appena citato ha invitato la comunità a costituire una Commissione liturgica che si avvalesse di esperti esterni scelti d’intesa con padre Cencini (che, peraltro, non ha alcuna specifica competenza liturgica). Ovviamente auspichiamo tutti che il tesoro liturgico di Bose, dovuto pressoché interamente a Enzo Bianchi e a Goffredo Boselli, non si disperda, ma la possibilità alle donne di fare l’omelia durante la celebrazione eucaristica, ad esempio, difficilmente verrà confermata…

Su un punto, invece, devo esprimere una preoccupazione estrema, invitando l’autore della recensione a un doverosissimo chiarimento. Nella sua accorata difesa del delegato pontificio egli afferma: «Nel caso di Villaregia, la comunità commissariata a p. Cencini dal Vaticano e che ha visto espellere i fondatori, vale la pena ricordare che a loro carico vi erano decine di abusi sessuali». Così facendo, egli dà luogo, come hanno fatto in troppi, a un pericolosissimo e fuorviante innuendo: sta forse dicendo che il fondatore di Bose e gli altri tre “allontanati” si sono resi colpevoli di abusi di natura sessuale? Se così fosse, credo ci sarebbe ampio materiale per pesanti azioni legali nei confronti di chi butta lì, tra una riga e l’altra, calunnie pesantissime di cui, a oggi, né la magistratura ha ricevuto alcuna notifica, né è emerso in alcuna sede alcun elemento, probatorio o di altro genere. Il Decreto singolare, infatti, lo ricordo, non cita nella maniera più assoluta fatti di tal sorta, e le lettere inviate da papa Francesco confermano a Enzo Bianchi (che ne faceva esplicita richiesta) la totale assenza di accuse relative a reati civili, penali o colpe gravi contro la morale cristiana sia suoi sia dei suoi confratelli e delle sue consorelle.

Per contro, rinnovo la mia (e di molti altri, a partire da una fitta schiera di giuristi che già si sono pronunciati) fortissima perplessità e critica riguardo al fatto che, ancora una volta, su un organo di stampa di matrice cattolica si taccia l’unico “fatto” certo e acclarato dell’intera vicenda, e cioè che allo strumento radicale del decreto singolare approvato in forma specifica dal papa (che, ricordo, è inappellabile e di applicazione immediata) si sia giunti senza nessun processo previo di alcun genere, né civile né canonico, in palese violazione della Dichiarazione universale dei diritti umani. Questo non è schierarsi per il fondatore di Bose, ma per i principi basilari che mai nessuna istituzione religiosa dovrebbe contestare, pena la deriva totale dell’umanità (e dunque anche del vangelo). Tira una pericolosa aria di giustizialismo in Italia, che pare essersi impossessata anche di diversi ambienti ecclesiastici, compresi quelli che annoverano tra i loro campioni dei presunti “teologi liberal”…

Concludo dicendo che in molti mi hanno scritto per ringraziarmi dell’equilibrio, dell’amore e anche della fede (commento che non credo di meritarmi) che ritengono trapeli dal mio scritto. Ovviamente saranno i lettori a giudicare i miei sforzi, che hanno dato vita a 224 pagine ricche di documenti anche inediti, che si concludono con proposte concrete e positive per riprendere un cammino di dialogo e di riconciliazione, nonché con riflessioni importanti sul futuro della vita religiosa e dell’esercizio dell’autorità nella chiesa. Sono perciò un po’ deluso di non aver trovato, nelle quasi mille parole dedicate alla critica di Bose, la traccia del vangelo, nessun cenno a tutte queste cose, di cui nella chiesa c’è un tremendo bisogno di parlare, senza rinchiudersi in difese di questa o quella casta, ma con la franchezza e la fiducia che derivano dalla fede nell’unica realtà infallibile: Gesù Cristo e il suo vangelo, di cui siamo tutti null’altro che umili servi.