Nel gennaio del 2022 hanno preso avvio i miei tentativi di riflettere, con cadenza mensile, sul monachesimo/vita religiosa, nella convinzione che si tratti di qualcosa di essenziale dal punto di vista umano, a prescindere dalle molte fedi (o dai contesti non strettamente religiosi) in cui questo modo di vivere è praticato.
Sono partito dalla (ri-)presentazione del pensiero di Henri Bergson, e in particolare dalla sua convinzione che esista uno slancio vitale, un motore o anima della vita naturale e spirituale, che tramite un continuo processo di “evoluzione creatrice” porta costantemente la vita stessa ad assumere forme nuove.
Ho quindi cercato, al di là dell’immaginario collegato alla vita religiosa e monastica, e a partire dalle sue origini e la sua storia, di identificarne i tratti essenziali. Ho ritenuto di poter ritrovare tale nucleo generatore nella ricerca di un principio fontale, aderendo a cui diventa possibile dare forma alla vita, creando in essa gli spazi e i tempi necessari per conferire il giusto primato a tale principio.
Mi è parso importante stabilire un legame di significato e di contenuti tra la ricerca monastica e il desiderio di ogni essere umano di raggiungere la propria eudaimonia, che già i Greci avevano pensato in termini di benessere, di quiete e soprattutto di “realizzazione”, non di un ideale unico e generico, ma di qualcosa che solo ciascuno di noi, nella propria coscienza, può individuare e perseguire.
Attraverso questa lente ho analizzato, una alla volta e senza timore di smascherare corto circuiti e contraddizioni di ogni sorta, le idee e le pratiche collegate al monachesimo e alle sue varie forme. Ad alcune (ascesi, contemplazione, presa di distanza dal “mondo”) ho riconosciuto un valore importante, pienamente conforme all’essenziale della ricerca e dell’esperienza monastiche, a condizione di liberarle da teologie o ideologie che rischierebbero di vederne compromettere la capacità di favorire la crescita spirituale. Di altre – come ad esempio il ricorso a regole di vita – ho messo in dubbio la centralità, e di altre ancora addirittura la perdurante pertinenza – come nel caso dei voti, compreso quello di celibato o castità.
Ho dedicato quindi molto spazio all’analisi dell’accompagnamento spirituale, tra gli elementi maggiormente in crisi oggi, ipotizzando nuovi itinerari meno invasivi della coscienza umana, e soprattutto slegati dal tema dell’obbedienza, che ritengo non solo inutile, ma addirittura deleterio per qualsiasi esperienza umana o religiosa.
La serie di contributi che termina oggi si è affiancata a quella che l’aveva preceduta, dedicata al tema della voglia di comunità, non unicamente nell’ambito del monachesimo. Di conseguenza, non ho ripetuto quanto avevo già espresso riguardo al vivere insieme, declinandolo in maniera specifica per la vita religiosa. Ciò nonostante, la questione della comunità rimane cruciale, per tutta una serie di ragioni.
Innanzitutto, la creazione di qualsiasi tipo di comunità significa imparare a riconoscere e a gestire il potere umano, mai eliminabile e tuttavia da neutralizzare, arginare e indirizzare ogni volta che diventa minaccia alla libertà e all’eudaimonia personali.
Per questo, pensare oggi a qualsiasi forma di vita comune significa essere consci fin dall’inizio delle forme che il potere assume: tentazione di dominare l’altro, di possedere beni, di utilizzare il prossimo per il proprio piacere, e molto altro ancora.
La vita religiosa ha da un lato posto giustamente al centro il tema dell’ascesi intesa come esercizio di corpo e spirito per assecondare le forze che ci abitano laddove possono produrre frutti positivi per noi e per gli altri, e dall’altro per combatterle laddove sono foriere di esiti inesorabilmente negativi. Per contro, ha cercato di imbrigliare il potere attraverso strumenti come i voti e l’idea di obbedienza, entrambi sostanzialmente inadeguati o addirittura latori di ulteriori e ancor più gravi problemi.
Credo che oggi si debba far tesoro delle ricerche storico-filosofiche sul potere (ho accennato più volte a Michel Foucault nelle mie considerazioni), compreso quello legato alla sessualità, e a quanto le scienze umane hanno mostrato riguardo alla complessità delle relazioni umane, soprattutto laddove l’istanza religiosa ha un ruolo importante.
Cosa fare? Prendere atto delle sensibilità e delle esigenze molto diverse di ciascuno di noi, dando vita a forme di comunità a cui è possibile appartenere a vari livelli e con coinvolgimenti differenti. La pretesa di poter gestire esperienze “forti” e univoche di comunità ha mostrato tutti i suoi limiti, perché laddove l’ideologia prevale sullo slancio vitale, quando la religione statica cerca di arginare quella dinamica (sempre per usare il vocabolario bergsoniano), si viene necessariamente a limitare il senso critico, e con esso la libertà umana.
Abbiamo bisogno di nuove comunità in cui aiutarci a vicenda – senza esercitare mai coercizioni – a cercare l’essenziale, in cui poter vivere una ricerca di libertà dal superfluo (e soprattutto dall’inutile e dal dannoso), per poter perseguire quella realizzazione che è unica per ciascuno di noi, ma che in qualche modo non può mai realizzarsi senza l’altro.
Comunità in cui alcuni possono abitare anche in senso fisico, in misura più o meno permanente. Che altri, invece, potrebbero considerare un luogo più spirituale che fisico, un riferimento, un segno di una ricerca comune, ancorché molto personale. A condizione, però, che non esistano appartenenze di serie A e di serie B, scelte “più giuste” di altre.
Perché ciò possa accadere, senza cadere ancora una volta in errori gravi e possibili abusi, è importante sicuramente che vengano stabilite le necessarie tutele giuridiche, tramite statuti che riconoscano e rispettino veramente i cammini di tutti e di ciascuno.
E accanto a questo – non so dire se con maggiore o minore urgenza – è fondamentale che si predispongano le tutele necessarie, sotto forma di strumenti di supervisione che abbiano a cuore sempre e soprattutto il benessere e la libertà di chi decide in qualche misura di “legarsi” per una parte del proprio cammino ad altri.
La vita monastico-religiosa sarà sempre possibile, perché è un’esigenza umana. Potrà assumere volti comunitari, tuttavia, solo se non idolatrerà nulla. Nemmeno Dio, anche perché, al massimo, ne possiamo avere solo un’immagine sbiadita.
Sono d’accordo. Quando parlo della questione giuridica, è per dire che non è possibile iniziare imprese “comuni” di nessun genere senza qualche forma di definizione/tutela legale. Inoltre, sicuramente il diritto canonico non mi pare la forma più idonea, viste le fortissimi limitazioni che contiene riguardo al discorso comunitario (tutto all’insegna di autorità e obbedienza “sacralizzate”). Ad esempio, se ci sono beni messi in comune o prodotti insieme, è fondamentale che si stabilisca con molta chiarezza come funzionano le cose. Il problema degli abusi ha molti volti: sicuramente comporta un netto cambiamento di impostazione ideologica (basta parlare di “obbedienza”, ad esempio…), nonché l’esistenza di strumenti di intervento “esterni”, possibilmente previsti fin dall’inizio dagli statuti di una comunità. Qualsiasi comunità che decida di gestire il potere “da sola” è destinata all’abuso, a mio modesto parere… Comunque, penso sarà interessante organizzare un webinar per parlarne, e spero che tu ti renda disponibile!
Disponibilissima, certo! Ma metto le mani avanti: mi è sempre stato costituzionalmente impossibile “associarmi”,separarmi, scegliere di caratterizzarmi. Il mio discorso sulla comunità, nonostante abbia amministrato decine di Comuni, è quindi piu’ giuridico che sociologico
il tema della comunità mi affascina e la ricerca della “mission” spirituale comune e degli statuti “regolamentari, mi sembrano due chiavi di lettura importanti per sostenerne le pratiche .
Mi chiedo se le riflessioni proposte sulle comunità monastiche possa valere per altro genere di comunità sulle cui sperimentazioni guardo con curiosità: per esempio , le comunità energetiche, per la gestione dei beni comuni, o le comunità di artisti; ma forse vado fuori tema. Grazie per gli approfondimenti offerti
Buongiorno Francesca, e grazie del commento, innanzitutto!
Nei miei contributi sulla comunità di quasi due anni fa ho fatto un discorso che va ben oltre le comunità monastiche, dunque credo tu abbia colto pienamente nel segno. Se facciamo qualche evento online per discutere di queste cose, spero vivamente che tu possa contribuire! Un caro saluto e a presto!
“Abbiamo bisogno di nuove comunità in cui aiutarci a vicenda – senza esercitare mai coercizioni – a cercare l’essenziale, in cui poter vivere una ricerca di libertà dal superfluo (e soprattutto dall’inutile e dal dannoso), per poter perseguire quella realizzazione che è unica per ciascuno di noi, ma che in qualche modo non può mai realizzarsi senza l’altro.”
Le moderne comunità dovrebbero avere un obiettivo ancora più “ambizioso” e socialmente utile.
Se una volta le comunità avevano l’obiettivo di fuggire dal mondo per favorire una pienezza di vita propria, oggi le comunità dovrebbero servire a creare alternative alla vita del mondo ed essere “fermento” trasformativo ed esemplare per una vita sociale allargata più dignitosa e a dimensione umana.