Nel contributo precedente sul monachesimo e la vita religiosa, ho cercato di prendere le mosse da una definizione enciclopedica della parola “voto” e di delineare alcune forme fondamentali che i voti religiosi hanno assunto nella storia della religione e delle varie fedi. In questo secondo contributo dedicato a una delle realtà maggiormente in crisi nella vita religiosa odierna (e non solo: si pensi alla crisi del vincolo matrimoniale), vorrei cercare di rispondere alla domanda: ma perché si fanno voti?
In primo luogo, i voti sono spesso considerati un modo per esprimere un profondo impegno nei confronti delle proprie convinzioni spirituali o religiose. Emettendo un voto, gli esseri umani possono provare un senso di maggiore connessione con la loro fede e ritenere di rispondere in maniera più adeguata a una forza e una verità più grandi di loro che si sono manifestate nelle loro vite. Il voto si configura in tal senso come una risposta a un appello che ci raggiunge dall’esterno.
Oltre a questa prima motivazione, un voto può essere una maniera di sfidare e spronare se stessi alla crescita personale, imponendosi in maniera più o meno pubblica l’autodisciplina necessaria a operare una trasformazione della propria esistenza. E ciò riguarda sia la possibile rinuncia a qualcosa che si ritiene possa impedire la fioritura di determinate capacità o virtù interiori ed esteriori, sia l’adozione di pratiche positive tese a creare un’abitudine foriera di benefici per noi stessi e per le nostre relazioni. Il voto diventa allora funzionale alla nostra personale auto-realizzazione, a quell’eudaimonia che ciascuno di noi può individuare e perseguire per sé stesso.
Un’ulteriore possibile motivazione soggiacente all’emissione di un voto può essere la costruzione di legami più solidi con gli altri, in quanto basati non solo e non tanto su sentimenti, bisogni e desideri transitori, ma sulla condivisione di una parola di impegno comune a cui viene riconosciuta una capacità di generare fiducia e responsabilità reciproche. In questa sua terza manifestazione, il voto è sia riconoscimento di un’esigenza interiore, sia presa d’atto che la nostra piena umanizzazione può avvenire soltanto legando il nostro destino a quello degli altri, o quanto meno di alcuni altri.
In ciascuna delle tre ragioni che ho addotto – ma ce ne possono essere altre – la dimensione “pubblica” del voto diventa un modo per rafforzare il proprio impegno e chiedere alla società o alle comunità cui facciamo riferimento di aiutarci a rimanere motivati anche quando la forza dell’intuizione originaria si attenua o addirittura sembra svanire interamente, malgrado possa essere realmente benefica per noi e la nostra eudaimonia.
Accanto a queste motivazioni, in un certo senso positive, soggiacenti alla prassi di formulare o emettere dei voti, è però importante indagare anche le possibili zone d’ombra collegate alla tendenza quasi universale a ricorrere a uno strumento di tal genere.
Il primo, fondamentale dubbio che da sempre si è posta l’umanità nella sua ricerca religiosa, è quello dell’arroganza che può celarsi nel volersi impossessare di una conoscenza o di un controllo sulla vita tanto altrui quanto propria, facoltà che, in molte tradizioni religiose, spettano solamente alla divinità (o che per lo meno sono ritenute impossibili agli umani). Omero cita l’esempio di Odisseo, il quale pecca di hybris ascoltando il canto delle sirene e desiderando accedere a una conoscenza proibita, e per tale ragione viene punito dagli dèi con il naufragio.
Emettere un voto è infatti in qualche misura anche un atto di arroganza, l’affermazione di un possesso assoluto sul nostro avvenire. In tal senso credo che sia importante comprendere che quando “ipotechiamo” con un voto il nostro futuro non possiamo mai pretendere di avere il controllo completo su ciò che ci accadrà. Piuttosto, ci stiamo impegnando ad agire per raggiungere il risultato desiderato e a fare del nostro meglio per trasformare quel risultato in realtà. Stiamo riconoscendo che non possiamo prevedere o controllare ogni cosa, ma al tempo stesso stiamo anche dicendo a noi stessi e agli altri che abbiamo un certo potere sulle nostre vite e sulle decisioni che prenderemo. In tal senso, il voto è un impegno sospeso tra rischio di arroganza e affermazione legittima e creatrice di senso della nostra libertà.
Inoltre, impegnarsi per il nostro futuro può essere visto come un modo per esprimere speranza e ottimismo per il futuro, anche di fronte all’incertezza e alle avversità. È un modo per assumerci la proprietà delle nostre vite e delle nostre decisioni e per assumerci la responsabilità della nostra crescita e della nostra realizzazione.
Ma la prassi di emettere voti è realmente compatibile con il cristianesimo, e se sì, in quale misura?
Per quanto la rivelazione ebraico-cristiana insista sul dialogo tra Dio e gli esseri umani, il rapporto tra umano e divino non è mai considerato in maniera simmetrica. Perciò, anche se gli umani possono parlare con tutta libertà a Dio (basti pensare al linguaggio dei Salmi), alla radice di tutto c’è la parola divina e la sapienza umana ha origine dal suo ascolto: “Il timore del Signore è principio della sapienza” (Pr 1,7). L’asimmetria del rapporto umano-divino fa dunque sì che non sia possibile piegare Dio al volere umano, come nel caso dei voti “condizionali” previsti da molte esperienze religiose.
Per contro, il libero riconoscimento della parola vivificante di Dio genera la fede, l’adesione umana alla parola stessa e alla sua fonte. È dunque possibile agli umani votarsi al divino nel senso di legarsi liberamente alla sua parola. La radice dei riti cristiani di iniziazione è fondamentalmente questa: il voto cristiano per antonomasia è quello battesimale.
Siamo sostanzialmente nell’ambito della definizione di voto che ho citato la volta scorsa dalla Encyclopædia Britannica: “Una sacra promessa volontaria di dedicare se stessi o i membri della propria famiglia o comunità a un obbligo speciale che va oltre le normali esigenze sociali o religiose”. La fede contiene già in nuce una promessa volontaria a qualcosa che va al di là delle esigenze normali della vita umana, già è un salto che solo alcuni si sentono chiamati a compiere, nella loro libertà, e non può mai essere considerata un elemento decisivo per definirci nella nostra umanità.
Vi sono però due ulteriori considerazioni da tenere presente se si desidera essere coerenti con il messaggio veicolato da Gesù di Nazareth.
In primo luogo, la parola che Dio rivolge agli uomini è parola di liberazione, di amore e di misericordia. Questo significa che mai e poi mai, in nome di una risposta o di un “voto” fatto a Dio, sarà possibile tradire il fondamentale amore di Dio nei confronti di noi stessi e del prossimo. Se un voto diventa una gabbia mortifera, va spezzato nel nome del Vangelo stesso, della parola di vita che lo ha suscitato in risposta.
Oltre a questa considerazione totalmente fondamentale, non va mai dimenticata l’asimmetria tra l’umano e il divino. Per questa ragione, siccome nessuno di noi ha un filo diretto con la trascendenza, pur nella certezza che la fede può darci di essere sorretti e portati da una parola fedele di amore e di vita, noi restiamo pur sempre creature effimere e limitate e mai possiamo arrogarci una sorta di onnipotenza divina sulle nostre stesse vite.
Nessuna nostra presunta deviazione da un voto emesso può essere giudicata umanamente come un fallimento, né può essere considerata capace di minare la credibilità dell’amore divino. Può anzi essere vero proprio il contrario, ovverosia che il nostro insistere per arroganza a rimanere laddove ormai siamo solo fonte di inaridimento per noi stessi e per gli altri può essere una contro-testimonianza ancora più grave del nostro accettare l’umanissima possibilità della sconfitta.
È a partire da queste considerazioni di fondo che, nel prossimo contributo, esplorerò i voti tradizionali della vita religiosa cristiana, al fine di riprenderli altrimenti.