Abbiamo appena celebrato il Natale (o lo stiamo per celebrare, a seconda della tradizione a cui apparteniamo), in cui un inizio molto specifico e puntuale – la nascita di un essere umano, più di duemila anni fa, in uno sperduto villaggio dell’attuale Palestina – ha dischiuso orizzonti di attesa e di speranza ben al di là dei credenti in Gesù Cristo. Ed ecco che subito segue un’altra scansione e celebrazione del tempo umano, molto più laica ma non meno significativa, che ci invita a riflettere non solo sull’inizio, ma anche sulla fine: il Capodanno.

Nel paese in cui vivo attualmente, l’Estonia, fino alla sera dell’ultimo dell’anno si augura “buona fine dell’anno vecchio”, e solo a partire dalla mezzanotte del 31 dicembre l’augurio diventa un più familiare “buon anno nuovo”. La saggezza popolare di queste terre porta perciò a celebrare non solo l’inizio, ma anche la fine, una “buona fine”.

Le nostre vite sono piene di inizi e di fini. E le grandi filosofie hanno interpretato il loro succedersi e intersecarsi in maniere decisamente differenti.

A partire dagli stoici e passando per Friedrich Nietzsche, vi è chi ha visto l’universo come un continuo rinascere e rimorire, in cicli che si ripetono eternamente, dove tutto si ripropone, prima o poi, allo stesso modo. Un grande storico e filosofo della religione, Mircea Eliade, ha spiegato che le religioni non fanno altro che reintrodurre costantemente, tramite miti, riti e simboli, il tempo ciclico ed eterno nel corso della storia, del nostro tempo umano, per rigenerarlo, dargli sostanza, spessore e senso.

Per contro, secondo altri, il cristianesimo avrebbe spezzato una simile concezione ciclica del tempo, a favore di un suo sviluppo lineare, di crescita verso il futuro. Una sintesi mirabile della direzione conferita alla storia dalla rivelazione cristiana è contenuta nel potentissimo frammento di Massimo il Confessore (probabilmente preso a prestito da Origene): «Ombra sono le cose dell’Antica, immagine quelle della Nuova Alleanza. Verità è la condizione delle cose future».

Entrambi i modi di leggere il tempo – quello ciclico e quello lineare – hanno vantaggi e svantaggi. Il rischio del secondo, come intuì giustamente Nietzsche, sta nel farci fuggire dal presente, dal vivere pienamente la vita adesso, nella speranza o nell’attesa di un mondo altro, di un domani più vero e reale dell’oggi. Detto altrimenti, è possibile non dare giusto peso o valore né alle opportunità né ai dolori del presente, finendo per essere meno umani. Come diceva quel saggio vecchio monaco francese parlando di alcuni predicatori religiosi: «Pensano di vivere nell’eternità, perché non sanno vivere o comprendere il presente».

Ma anche il tempo ciclico può diventare una maschera che impedisce di cogliere i frammenti di novità che la vita, per sua stessa natura come ricordava Henri Bergson, può sempre recare nella storia di ciascuno di noi e delle nostre stesse società. Chi si spende troppo per la “conservazione dei valori”, dei modelli di governo, di famiglia, di relazioni che “sono sempre esistiti” (per davvero?) rischia da un lato di non cogliere bisogni profondi e reali del tempo presente, e dall’altro di perdere di vista lo straripare continuo della vita al di fuori degli argini in cui cerchiamo costantemente di racchiuderla (e talvolta di rinchiuderla).

I fautori di un tempo lineare sostengono che negandolo si neghi la possibilità di trovare un senso alla vita, una sua direzione. Per contro chi è troppo concentrato sulle possibili direzioni della storia rischia di perdere di vista il valore del presente e delle singole persone, e soprattutto il fatto che tutto, anche i valori più “spirituali”, si esprime attraverso la nostra fisicità, la nostra corporeità che è per natura fragile e passeggera.

Dunque eccomi qui, come tutti voi, posto dinanzi a una fine e a un nuovo inizio, in un periodo della storia, sia di tutti sia mia personale, in cui si vive una fase di soglia. Per essere chiari, non parlo tanto della pandemia, che è stata forse un kairòs, un momento opportuno per riflettere, ma non un vero motore di cambiamenti che – in profondità – dipendono da fattori altri, più misteriosi e profondi anche rispetto all’impatto devastante di un virus come quello del Covid.

Siamo in un tempo liminale, come ho sostenuto altrove, dunque sicuramente incerto e oscuro, ma anche fecondo. Finiscono culture, civiltà, modelli, modi di vivere e intendere anche le cose più essenziali, compresa la nostra fede religiosa o il nostro credere più in generale in un sistema di valori che abbiamo ereditato. E sorgono realtà nuove che la vita stessa impone, al di là di calcoli, ragionamenti o presunte (perché spesso è di presunzione che si tratta) capacità di noi essere umani di determinare il nostro avvenire.

Proprio per questo ho meditato a lungo le parole di Paolo in cui egli afferma che non bisogna perdersi d’animo, perché “sebbene il nostro essere umano esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno” (2Cor 4,16). Pur sapendo che Paolo guarda alla transitorietà del mondo presente, in avanti verso ciò che secondo lui deve venire nell’aldilà, ho cercato di rileggere la sua fiducia a prescindere da una vita dopo la morte, per capire come vivere al meglio la liminalità dell’attuale tempo storico. Ma anche del mio tempo personale.

Quest’anno, infatti, mi ha portato tra l’altro a riflettere maggiormente sul declino fisico che pian piano inizio ad avvertire, e su quello inesorabile, fino all’estinzione, di persone a me care che ho accompagnato verso l’ultimo viaggio, senza ritorno, oltre la vita presente. Come molti di voi mi domando: come sarà la mia vecchiaia? Cosa mi sarà consentito vivere dall’inevitabile venire meno del mio corpo?

Vorrei allora riflettere insieme a voi su come cambiano i confini e i tempi della fine e dell’inizio, per capire come sia possibile, umanamente, cogliere l’ottimismo di fondo che trapela dalle parole di Saulo di Tarso. Come vivere bene la fine, senza rinunce né rimpianti, cercando di cogliere l’emergere di qualche luce di nuovi inizi, anche quando la cosa può sembrare un’impresa difficile, titanica, o addirittura impossibile.

La prima cosa, fondamentale, da fare è ridefinire la vecchiaia, riaffermandone la dignità piena per una società – molte società – che tendono a negarla, a respingerla, a cercare in tutti i modi di esorcizzarla (come del resto si fa anche con un’infanzia sempre più “rubata” ai nostri figli). Una cosa, infatti, è promuovere una cultura della salute, tutt’altra cosa idolatrare corpi belli, indistruttibili, immortali, quasi che laddove ci sono rughe, indebolimenti fisici, limitazioni dovute all’età, ci fosse automaticamente “meno vita”, meno valore, meno opportunità, meno “utilità”.

Nelle nostre società occidentali si fanno meno figli, si chiudono case di riposo, si investono sempre meno soldi pubblici nella sanità (specie in ambito geriatrico). Per contro, grazie al progresso globale della medicina, la fase delle nostre vite che ci sarà dato vivere in condizione di forte debilitazione a causa dell’invecchiamento si prolunga sempre più, col rischio di affidare i nostri anziani di domani (e già di oggi) a prolungate fasi di irrilevanza e di “inutilità” sociale e culturale.

Al tempo stesso, sul versante religioso l’unica risposta che sembra si sappia dare a chi è svilito in una progressiva condizione di marginalità e irrilevanza e vorrebbe farla finita è innalzare il vessillo della “sacralità della vita”, quasi dimenticando che non può esistere un dio che ci impone di vivere a tutti i costi, quando né lui né altri ci hanno mai chiesto, prima di metterci al mondo (a volte in condizioni allucinanti) se fossimo d’accordo a vivere…

Dare piena dignità alla vecchiaia non significa negare l’importanza della nostra corporeità e fisicità. Nulla di ciò che conosciamo in profondità può prescindere in qualche misura dalla nostra dimensione materiale. Forse la nostra stessa mente è una mera questione materiale. Ma ogni fase della nostra esistenza corporea, sia quando siamo in parabola ascendente da un punto di vista fisico, sia quando ci stiamo pian piano spegnendo, è occasione di modalità di scoperta del mondo uniche e irrinunciabili. La forza dei sensi consente un determinato impatto sul mondo, il loro indebolirsi una ricerca diversa, ma non meno importante.

Una ventina d’anni fa ebbi l’enorme onore di trascorrere un’intera mattinata con Paul Ricœur, su cui in seguito svolgerò le mie ricerche dottorali, nella sua abitazione alla periferia di Parigi. Aveva quasi novant’anni e ormai riusciva a lavorare solamente (!) alcune ore al giorno. Ma sino all’ultimo dei suoi giorni ha prodotto scritti in cui ha condiviso gli scampoli di luce che ha scoperto incessantemente, per tutta la sua vita.

La più grande spinta che ci possiede, in quanto esseri umani, lo slancio vitale fondamentale che ci caratterizza, è quello di continuare a espandere i confini della nostra coscienza e della nostra conoscenza. E non esiste età in cui ciò non sia possibile, in modi e forme tipici della nostra condizione corporea. E quando si è vecchi, laddove l’espansione della nostra scoperta del mondo tramite il corpo si fa più difficile, rimane la possibilità di andare oltre ogni esperienza fatta tramite il pensiero, estrema e meravigliosa risorsa di noi umani.

È perciò sicuramente possibile continuare a rinnovare il nostro essere interiore, giorno dopo giorno, fino a quando la scintilla della vita non si estinguerà. Ed è sempre possibile condividere, in una miriade di forme differenti, la luce che affiora nelle nostre coscienze e sui nostri volti.

Allora il mio vero augurio, quest’anno, a tutte coloro e tutti coloro che amo e che seguono ciò che scrivo, è veramente quello di una buona fine, di una capacità di vivere al meglio le parabole discendenti, gli indebolimenti, le perdite di ogni genere che hanno prima o poi luogo nelle nostre vite, soprattutto quando si invecchia.

Sempre nella speranza che vi sia luce che trapeli in ciascuno di quei momenti. Senza nessun giudizio da parte di nessuno, anche quando non si riuscirà più a cogliere alcuna luce tra le tenebre.

Come ho accennato più sopra, durante l’anno che volge al termine ho visto spegnersi una persona a me estremamente cara, che ha sempre amato e difeso la vita. Quando però ha capito che la vita volgeva al termine, ha semplicemente scelto di abbracciare il grande buio, preparandosi a varcare l’ultima soglia. Non con gioia (chi descrive in questi termini l’esperienza della morte il più delle volte mente, anche se solo per benevola devozione), non con facilità, ma comprendendo di poter vivere anche una simile fase terminale della vita con una personale ricerca di senso.

Se la religione e la cultura vorranno realmente contribuire a ridefinire in positivo i tempi e i modi della fine, dovranno perciò incominciare col restituire piena dignità e visibilità alla vecchiaia, senza imporre modelli precostituiti a nessuna donna e nessun uomo che vivono quella fase della loro esistenza, ma tornando ad ascoltarli e a riconoscerne fino in fondo la dignità, a prescindere da qualunque scelta che – solo loro! – potranno compiere riguardo alle loro vite.

Buona fine dell’anno vecchio a tutte e a tutti!