In un contributo sul tema della comunità che ho scritto per Rocca due anni fa, ho spiegato come si generano sempre delle situazioni molto delicate – e spesso pericolose – quando si mescolano i meccanismi di governo di una comunità con tentativi di controllare l’esercizio della sessualità dei suoi membri. In tale sede ho sottolineato come la sacralizzazione dell’autorità non solo non risolva le difficoltà che insorgono, ma rischi al contrario di renderle insormontabili.
Riprendo ora il tema del rapporto tra sessualità e vita comunitaria da un punto di vista differente, che può aiutare ad arricchire e ad approfondire la discussione: quello dell’eudaimonia posta al centro dell’anelito monastico, del dare forma alla vita cercando di assecondare lo slancio vitale che porta ciascuna e ciascuno di noi a cercare di realizzarsi, di crescere in umanità assieme agli altri.
Se l’eudaimonia è centrale ed è l’obiettivo ultimo, altrettanto lo è il desiderio, che ne è la forza portante, il mezzo che ci porta a trovare e a realizzare la nostra eudaimonia, diversa e unica per ognuno. Senza dimenticare che il desiderio stesso è a sua volta parte dell’obiettivo, e non è unicamente strumentale. Se il desiderio muore, si spegne la vita, perché non si riesce più ad afferrare lo slancio vitale, a sintonizzarsi con esso.
Il desiderio umano si manifesta in molte forme. Può riguardare vari aspetti della vita e ha una natura ampia e complessa. Può essere desiderio di affetto, sessuale, di appartenenza, di successo, di conoscenza, di riconoscimento, di potere, di sicurezza, di bellezza, di divertimento e svago, di giustizia, spirituale e molto altro ancora. Ogni persona può esperire uno o più di questi desideri in diversi momenti della propria vita e con intensità variabili. La comprensione dei propri desideri e di quelli altrui gioca un ruolo fondamentale nelle relazioni interpersonali e nella costruzione di una società equilibrata.
La sessualità è una forma importante, per certi versi portante del desiderio. Come è noto, secondo Freud ogni desiderio umano è una manifestazione specifica della libido, ovverosia dell’energia sessuale. Se anche non si fosse totalmente d’accordo con le tesi radicali del padre della psicoanalisi, penso sia tuttavia importante, in analogia con quanto egli stesso ha insegnato, comprendere che laddove il desiderio viene represso tramite meccanismi di censura esterni o interni, ci si avvia inesorabilmente verso una vita monca o addirittura malata.
La libido non ha né la stessa intensità in tutti, né porta automaticamente agli stessi tipi di desiderio o a desiderare le stesse cose. E desiderio di matrice “sessuale” non si traduce automaticamente in necessità di esercitare la genitalità. In altre parole, traviseremmo lo stesso Freud se pensassimo che solo esercitando fisicamente la nostra libido sessuale possiamo raggiungere la nostra eudaimonia.
Detto questo, però, la possibilità di escludere dalla nostra vita l’espressione sessuale del desiderio è non solo problematica, ma anchilosante e destinata a fallire, in quanto il desiderio sessuale non si riduce mai alla sola genitalità ma contribuisce alla nostra identità di genere e alla strutturazione della nostra psiche.
In varie esperienze religiose si ritiene possibile accogliere i voti emessi da singoli di escludere in via definitiva l’esercizio della sessualità di tipo genitale. Nel caso del cattolicesimo, ciò riguarda qualsiasi forma di vita religiosa e consacrata, nonché la promessa di celibato richiesta nella chiesa latina ai candidati al presbiterato. La giustificazione di una simile prassi risiede da un lato nell’idea di natura teologica che vi sia chi è stato chiamato (e dunque abbia ricevuto i mezzi per rispondere a una simile vocazione) a una vita senza esercizio fisico della sessualità, e dall’altro nella convinzione che sia possibile dare umanamente sostegno a chi emette voto di castità per aiutarlo o aiutarla a perseverare fino alla fine.
A chi obietta che, alla luce delle scienze umane e delle trasformazioni della società, risulta molto difficile favorire uno sviluppo umano pieno (e perciò eudaimonico) di chi decide di escludere dal proprio orizzonte una componente molto difficilmente controllabile a lungo termine come l’esercizio fisico della sessualità, la teologia tradizionale risponde ribadendo il valore di testimonianza resa alla signoria di Dio di chi si vota per sempre al celibato.
Mi permetto – e non sono l’unico – di esprimere forti dubbi al riguardo. Ammesso e non concesso che le parole di Gesù sul “farsi eunuchi per il regno dei cieli” siano state pronunciate per “istituire” forme di vita celibatarie, non penso sia né razionalmente né teologicamente giustificabile la trasformazione di un impegno anche sincero a dare una priorità a forme di desiderio diverse da quella sessuale, in una gabbia da cui è impossibile sfuggire. Non esiste alcun collegamento logico o automatico tra la decisione di venire meno a un voto e il ferire l’altro (nella comunità di appartenenza o al di fuori di essa). Anzi, spesso è proprio la hybris del volersi anchilosare quando ormai non è più possibile farlo a trasformarci in un danno per noi stessi e per gli altri.
E se qualcuno pensa ancora a categorie come la possibile “offesa” recata a Dio, non si dimentichi mai che nel cristianesimo parliamo di un Dio che sana in radice ogni possibile offesa che arrechiamo alla divinità, affinché diventiamo capaci di sanare le offese che noi tutti continuiamo a recarci reciprocamente nel mondo.
Riprendendo Michel Foucault, sarebbe molto più opportuno interrogarsi su in che misura la nostra intransigenza su qualsiasi tematica afferente alla sfera della sessualità non appartenga piuttosto a pratiche di potere e discorsi storici che non hanno nulla a che vedere con il vangelo e con l’umanizzazione delle nostre vite. Ancora una volta, con l’eudaimonia.
L’ascesi come preparazione all’esercizio consapevole di ogni forma di desiderio, compreso quello sessuale, è e resta fondamentale per l’anelito monastico, per la ricerca di una vita piena e realizzata per noi tutti. La mutilazione, la riduzione dell’umano in nome di Dio non dovrebbe mai trovare posto in nessuna religione. Men che meno nel cristianesimo, in cui Gesù ha narrato un Dio che ha scelto di vivere dall’interno la nostra umanità, per aiutarci a farne un capolavoro. O almeno per impedirci di renderla uno scempio.
Condivido pienamente la riflessione e mi chiedo,in particolare,quanti religiosi (presbiteri e no) sarebbero oggi disposti a condividerla ma non solo in cuor loro ma anche pubblicamente,alla luce del sole e all’interno delle comunita’ ed istituzioni nelle quali operano e vivono,senza il timore dei castranti (credo che l’aggettivo sia abbastanza opportuno) interventi delle gerarchie; le quali gerarchie a loro volta dovrebbero fare esame di coscienza su quanto certe tematiche siano da loro state strumentalizzate al fine del processo di manipolazione delle coscienze!