Con questo contributo termina una prima serie di riflessioni sul tema della comunità, che verranno raccolte in un e-book che sarà alla base di alcuni webinar di approfondimento. Se, come mi auguro, i contributi saranno significativi, e soprattutto se io stesso riuscirò ad approfondire a mia volta ogni tema grazie agli stimoli ricevuti, l’e-book verrà ampliato e stampato anche in forma di libro cartaceo.

Grazie in anticipo a tutti coloro che vorranno collaborare!

Come abbiamo visto nei precedenti contributi sul tema della comunità, viviamo in un’epoca in cui c’è un forte bisogno di ricreare legami sociali intermedi tra quelli familiari (peraltro a loro volta non in grande salute) e quelli tipici dell’appartenenza ad ampie comunità virtuali o alle società in cui viviamo. Malgrado ciò, le forme classiche di comunità intermedie, dalle associazioni e i partiti fino alle parrocchie e alle comunità o associazioni religiose, paiono in preda a crisi di difficile soluzione.

Se da un lato il nostro porci come individui molto liberi di fluire e defluire da qualsiasi impegno e fedeltà a progetti comunitari rappresenta una risorsa di libertà, per contro il sacrificio della dimensione comunitaria depotenzia l’impatto che possiamo avere sulla trasformazione della società, e soprattutto depaupera la nostra umanità, sottraendoci a un rapporto prolungato nel tempo con l’alterità degli altri, che proprio perché ci interroga e ci sprona in maniera “scomoda” è un forte fattore di crescita, sia individuale sia collettiva.

Nei miei contributi ho cercato inoltre di indicare, con l’ausilio tra gli altri di Henri Bergson, come le comunità e le società di cui facciamo parte dovrebbero restare sempre “aperte”, ovverosia luoghi “in cui prevalgono le forze di crescita, l’individuo è libero nella sua capacità inventiva e in cui i membri sono collegati da una forza spirituale”. Non per negare l’importanza e l’utilità di istituzioni, norme e autorità, ma per ribadire come queste ultime, tutto ciò che è “statico”, debbano sempre e comunque essere al servizio della dinamica della vita.

Infine, mi sono addentrato nella natura delle comunità religiose di matrice cristiana, sottolineando come esse funzionino e fioriscano solo se la ricerca spirituale del singolo viene compaginata con quella di ogni altro singolo che si riconosce in una medesima vocazione o scelta di vita, nonché se la ricerca di ideali forti ed elevati non crea confini tali tra la comunità e il suo esterno da renderla una società chiusa di “perfetti”, sostanzialmente ostile a ciò che è diverso dai suoi ideali fondatori. Anche perché, per sua natura, il cristianesimo non può che essere aperto e universale.

In questo contributo finale sul tema della comunità vorrei perciò concentrarmi su alcuni problemi che impediscono la creazione di comunità cristiane (di qualsiasi genere) sane e capaci di alimentare la vita e il fiorire dei propri membri.

Il primo, grande non detto delle comunità di matrice religiosa, condiviso con ogni altro genere di comunità umana, è l’inevitabile scatenarsi di logiche e conflitti di potere che ha luogo ogni volta che degli esseri umani si fanno prossimi gli uni gli altri in maniera più stabile e duratura. La questione ha un tale rilievo che sono ormai non pochi coloro i quali ritengono impraticabile la vita comunitaria, perché inevitabilmente porterebbe all’esercizio di abusi di potere di natura più o meno seria. Ogni compagine ecclesiale, peraltro, deve sempre fare i conti con questo snodo fondamentale del “camminare insieme”.

Che fare allora, procedere come cristiani singoli, alla Silone (figura peraltro straordinaria e degna di ogni rispetto), senza chiesa e senza riferimenti comunitari di alcun genere? Io credo che, piuttosto, lo snodo cruciale sia studiare a fondo i meccanismi del potere umano per far sì che, nei limiti del possibile, solo ciò che in esso è utile e vitale venga custodito e alimentato, e ogni suo pungolo velenoso venga combattuto e controllato. Ma è un cammino lungo, che nelle nostre chiese è stato affrontato solamente in misura minima, anche perché, ovviamente, chi detiene il potere (ovverosia il clero) non ha un forte interesse a mollare la presa.

Un secondo, enorme problema, totalmente centrale e al tempo stesso fortemente rimosso nella riflessione e nella prassi di ogni comunità religiosa e di ogni chiesa, è il rapporto con la sessualità. Perché la sessualità è sia un dono meraviglioso sia un possibile strumento di potere e di controllo, tanto quando la si esercita quanto quando si cerca di imporne un dominio e un’amputazione sempre problematici. Per essere molto chiari ed espliciti, quando il potere religioso si mescola a tentativi di regolamentare la sessualità, si entra quasi sempre in un territorio minato, dove gli abusi di ogni genere (anche solo psicologico) aumentano e il rischio di creare delle “caste di puri” che vantano una presunta superiorità morale sugli “impuri” diventa quasi inesorabile.

Dovremmo dunque rinunciare ad esempio ai voti di celibato, al monachesimo e a tutte le sue forme “derivate”, ritenendoli ormai un fenomeno del passato, non più praticabili? Anche in questo caso, la sapienza plurisecolare delle grandi religioni ha sempre riconosciuto un valore alla possibilità che alcune donne e alcuni uomini fiorissero in ogni epoca seguendo questo ideale, desiderio, vocazione (e si potrebbero usare molti altri termini), a beneficio di se stessi ma anche delle comunità e delle società in cui erano inseriti. Quando però si introduce la regolamentazione della sessualità nelle dinamiche comunitarie, che sono comunque sempre anche di potere, i rischi diventano davvero grandi, e sarebbe necessario ripensare a fondo prassi e tradizioni della vita monastica e religiosa. Più l’astinenza sessuale diventa prolungata nel tempo e in qualche misura “eternizzata” o sacralizzata, più i possibili benefici che può produrre diminuiscono e i rischi aumentano in maniera pericolosa. Anche su questo non si è ancora tenuto conto, come nel caso del potere, degli studi moderni e contemporanei nell’ambito delle scienze umane, e il cammino da compiere è ancora molto lungo.

Ma la questione più centrale, a mio parere, sono tutti i cortocircuiti generati dalla sacralizzazione dell’autorità in seno alle comunità religiose di ogni sorta. Fin dall’antichità, infatti, nelle chiese si è iniziato a dire che in esse chi deteneva l’autorità era, in qualche modo, un alter Christus, facendo leva in maniera forzata e a mio parere indebita sulle parole stesse di Gesù: “Chi ascolta voi, ascolta me” (Lc 10,16). Si è inoltre ripristinato molto presto un sacerdozio non di tutti, a cui è stato conferito uno statuto di particolare “conformazione a Cristo”. Nella chiesa cattolica, tra i capisaldi del diritto canonico vi è l’idea che i ministri ordinati siano gli unici ad avere piena potestà di governo nella chiesa, in virtù della loro particolare conformazione a “Cristo Capo”. In questo modo, una necessità umana e ineludibile (dotare di forme di governo e autorità ogni gruppo umano, compresi quelli ecclesiali) è stata impregnata di elementi sacrali, che oltre a essere difficilmente giustificabili a partire dalle parole e i gesti di Gesù di Nazareth, in realtà rendono molto difficile fare quello che, per contro, andrebbe fatto: adeguare e aggiustare strutture e norme per far sì che le persone possano vivere pienamente i loro desideri e la loro vocazione. Detto altrimenti, perché tutti e ciascuno possano fiorire e svilupparsi umanamente e spiritualmente.

La dimensione comunitaria è centrale alla testimonianza cristiana, nonché alla piena realizzazione della nostra umanità. Un antico padre della chiesa diceva: “un cristiano solo, nessun cristiano”, e molti secoli prima Euripide aveva fatto notare nelle Fenicie come “un uomo solo non vede tutto”. Per questo il ripensamento delle forme comunitarie della fede è uno dei compiti più importanti dell’epoca in cui viviamo. Chi scrive è pienamente convinto che solo ponendo al centro la coscienza e lo sviluppo di ogni singolo membro delle nostre comunità sarà possibile renderle delle “comunità aperte”, luoghi di realizzazione e di crescita individuale e collettiva. Ma per farlo sarà necessario non aver paura di affrontare i problemi profondi e radicali appena evidenziati, nonché ogni altra critica mossa da chiunque anche alle istituzioni e le tradizioni più antiche e radicate.