Sono sempre stato affascinato dalla genialità della mitologia greca che, come abbiamo visto nel contributo precedente dedicato all’importanza universale dell’ascesi, è alla radice di moltissime teorie e pratiche ancor oggi diffusissime in ambito religioso.
Secondo Pausania, Zeus generò tre muse giacendo per nove notti con Mnemosine: Aede (la voce/il canto), Mneme (il ricordo) e Melete. L’etimologia di quest’ultima comprende l’idea di cura e di pensiero, ma anche quella di studio, esercizio e attenzione. Dal greco melétē derivano i concetti latini di meditatio e quelli odierni che gravitano attorno all’idea di meditazione.
Senza spacciarmi per esperto della cultura greco-antica o ellenistica, vorrei solo far notare come Pausania sembri voler dire che una delle radici fondamentali di una vita “ispirata”, vissuta secondo un “buono spirito” (vi ricordate l’eudaimonia?), sia la meditazione, la pratica del pensiero, di un pensare attento, cosciente e coltivato.
L’idea che la meditazione sia uno dei fondamenti della vita umana ha radici in realtà ancora più antiche e universali. Un contemporaneo sanscrito di Pausania, Paňtajali, ricorda che tra le più remote radici delle filosofie e delle religioni asiatiche vi è il concetto di dhyāna – risalente a diversi secoli avanti Cristo e già presente nelle Upaniṣad – ovverosia lo “scorrere di pensiero unificato” che è superiore alla ragione e che consiste nel liberare la mente da ogni attaccamento e avversione per diventare pura consapevolezza.
Nel buddhismo, una delle tre pratiche che conducono alla liberazione del nirvāna (le atre due sono la pratica delle virtù morali e della sapienza) è il samādhi, che letteralmente significa “unione” tra colui/colei che medita e l’oggetto della sua meditazione. Per conseguire il samādhi sono necessari lo sviluppo calmo della mente (bhāvanā) e il vedere le cose in profondità, così come sono (vipaśyanā).
In ogni antica esperienza sapienziale e religiosa è presente perciò l’idea che la mente umana abbia bisogno a sua volta di esercitarsi, per potersi liberare da ciò che le impedisce di essere “pura”, trasparente a sé stessa e al mondo. E questo a prescindere dalla credenza o meno in un essere trascendente.
Il monachesimo è stato, in pressoché tutte le culture e tradizioni religiose dell’umanità – e in forme decisamente diverse e variegate –, un testimone fondamentale di questa esigenza che è, prima ancora che spirituale o religiosa, fondamentale per la nostra umanità e umanizzazione. Perché in fin dei conti, noi tutte e noi tutti ambiamo a liberarci da qualsiasi elemento possa offuscare la nostra percezione delle cose e di noi stessi.
Per certi versi, al contrario del celebre incipit del Contratto sociale di Rousseau (che ovviamente allude ad altri elementi della vita umana), noi tutti nasciamo dipendenti e sviluppiamo costantemente forme di incatenamento e di illibertà da cui vorremmo affrancarci. E avvertiamo intimamente, anche quando non abbiamo le chiavi di lettura intellettuali per farlo, che vorremmo poter essere noi stessi vivendo una vita piena, liberandoci il più possibile da ciò che ci condiziona.
Non sorprende dunque che programmi di meditazione di ogni sorta si siano sviluppati a macchia d’olio nel mondo moderno, compreso nell’Occidente secolarizzato: mindfulness, meditazione silenziosa, tecniche per scoprire il proprio sé e via dicendo, sono onnipresenti su Internet e negli scaffali delle sezioni religiose delle nostre librerie (che ormai sono sempre più la vetrina di un “self help” che flirta tanto con insegnamenti tradizionali quanto con teorie esoteriche e decisamente strampalate).
Volendo sintetizzare – in maniera sicuramente rischiosa ma inevitabile nel breve spazio di un contributo come questo – potremmo dire che la meditazione è un esercizio umano fondamentale per sottrarci alla lente deformante (ancorché ineludibile e per altri versi necessaria e umanissima) delle emozioni, che spesso non ci consentono di vedere né noi stessi né il mondo esterno in maniera lucida. Per dirla con il linguaggio del buddhismo, meditare significa placare i turbini di pensiero e predisporsi a vedere le cose in profondità.
La meditazione comporta perciò spazi “vuoti”, di silenzio, e ha certamente delle componenti “tecniche” che ne aiutano il processo. Tuttavia può assumere contorni e contenuti decisamente diversi a seconda dell’impostazione filosofica di fondo di colei o colui che la pratica.
In molte tradizioni asiatiche non teiste, la ricerca fondamentale è quella del sé e del vero aspetto del mondo (normalmente all’insegna della vacuità e dell’illusorietà). Perciò non sorprende che, in forme semplificate, le tecniche meditative orientali siano divenute molto popolari in un mondo come quello occidentale, secolarizzato, dalle ideologie e idee forti sempre più latenti, e alla ricerca di palliativi esistenziali. Come ricordava Eugene Ionesco nel suo celebre aforisma, “Dio è morto, Marx è morto, e anche io non mi sento molto bene”.
Lungi da me, con questo, il criticare tradizioni sapienziali millenarie e di valore straordinario, ovviamente! Vorrei non di meno indicare come l’Occidente abbia fornito un contributo importante alla pratica della meditazione, che la rende probabilmente ancor più utile e importante per il mondo in cui viviamo.
Già nell’ebraismo, la meditazione si esprime con due verbi significativi: hagah (mormorare, ripetere a se stessi delle parole) e siḥah (riflettere, e in ebraico moderno conversare). Perciò il silenzio, la calma, il placarsi delle passioni interiori, diventa orientato a un ascolto delle parole e della Parola per antonomasia, quella di Jhwh.
La meditazione è allora realmente funzionale al pensiero inteso come dialogo attento con se stessi e con il mondo esterno, mediato spesso dalla parola umana che viene fatta emergere mediante la memoria e a cui si cerca di rivolgere un ascolto attento e riflessivo.
Nella tradizione monastica cristiana, sono ancora una volta i padri del deserto a praticare ed esemplificare l’esercizio specifico della meditazione, ma sarà un monaco latino, Guigo il Certosino (1114 – 1193) a sdoganare in maniera decisiva l’idea di meditazione fondata sull’ascolto della parola di Dio per trasformare mediante la lectio divina la nostra visione del mondo.
Quale lezione trarre dalla tradizione plurimillenaria di tecniche e concezioni della meditazione coltivate negli ambienti monastici di tutte le religioni, e da quella propria della tradizione ebraico-cristiana?
Per abbozzare una risposta, vorrei partire dalla constatazione, supportata da studi autorevoli, che l’invenzione di Internet ha trasformato la nostra modalità di comunicare e di pensare – e addirittura la struttura delle nostre reti neurali! – privilegiando le componenti emotive e le continue polarizzazioni (dando vita a quella che altrove ho definito “Intelligenza 2.0”). Il pensare strategico, funzionale alla costruzione di verità di gruppo, finisce spesso per prevalere sulla ricerca comune e condivisa di sintesi che vadano oltre tesi radicali e contrapposte.
La meditazione nel senso di presa di distanza dai propri pensieri, di pacificazione interiore, ma anche di accoglienza non giudicante a priori dell’altro e delle sue parole, diventa allora più che mai una risorsa fondamentale per favorire una convivenza dialogica tra gli esseri umani (e, di conseguenza, una maggiore eudaimonia).
La tradizione ebraico-cristiana, per contro, arricchisce la pura e semplice idea della meditazione come vuoto pacificato del pensiero in cui scoprire il proprio sé più profondo con quella di un dialogo attento e silenzioso con ogni parola altra – da quelle che abitano noi stessi e costituiscono il dialogo interiore del pensiero – a quelle che ci provengono dagli altri e che sono gli altri (e a volte anche l’Altro) in noi. Detto altrimenti, la contemplazione può diventare strumento di profonda e continua trasformazione interiore, alla ricerca di sé stessi e dell’incontro (ineludibile) con gli altri.