Come ogni anno, a prescindere dalla disposizione d’animo o dalle circostanze che stiamo vivendo, il triduo pasquale irrompe come una pietra d’inciampo nel cammino di ciascuna e di ciascuno di noi che abitiamo in quelle parti del mondo la cui cultura è radicata in maniera più o meno profonda nella fede cristiana. La forza d’urto delle sue immagini e dei suoi elementi simbolici è infatti così straordinaria da suscitare qualche effetto anche su chi pensa di avere poca fede o di non averne affatto, come pure su chi alla pasqua non si è preparato mediante alcun cammino specifico, sia esso quaresimale o di altra natura.

Il primo elemento che, pur molto travisato nella religiosità umana di ogni latitudine, balza ai nostri occhi in tutte le espressioni artistiche suscitate dal ricordo degli ultimi giorni umani e terreni di Gesù di Nazareth, è quello della sofferenza, capace di rivolgere domande a ogni donna e ogni uomo, sia che siano preda di problemi e angosce anche insopportabili, sia che vivano un’esistenza senza gravi preoccupazioni o addirittura “felice”.

La sofferenza, come spiega molto bene la Bibbia, ci afferra nelle splánchna, ovverosia le viscere, le interiora, lavorandoci dal di dentro, fino spesso a sfinirci.

Proprio per questo può prostrare un essere umano fino a fargli desiderare di non vivere più per porre termine a un simile rovistamento senza fine. E se non si comprende e si accetta il potere onnicorrosivo e distruttivo della sofferenza, si rischia di proclamare un vangelo antiumano, puramente ideologico, in cui “la vita a tutti i costi” ha come riflesso l’incapacità di accogliere davvero il prossimo, qualsiasi prossimo, dicendogli semplicemente: “Qualunque scelta farai, non giudicherò mai il tuo modo di reagire alla sofferenza, ma sarò semplicemente lì per te, se e quando lo vorrai”.

Se apparteniamo al novero fortunato di coloro che riescono a non soccombere alla sofferenza che ci è toccata in sorte, possiamo compiere un ulteriore passo: iniziare a comprendere che la sofferenza è un tratto comune, universale, che può aprire a cammini di condivisione e di solidarietà. Le splánchna, come spiega mirabilmente Zaccaria nel suo cantico, possono diventare eco delle splánchna eléous – le “viscere di misericordia” – di Dio, possono cioè diventare il luogo a partire dal quale com-patire con gli altri e con-sentire alla vita.

Alla radice di tutto questo, c’è il miracolo dell’ascolto, che la sofferenza può rendere possibile, interrompendo ogni nostro autismo spirituale per aprirci al mondo esterno a noi, proprio a partire da quanto ci tormenta e mette in moto dal nostro intimo più profondo.

La sofferenza, allora, può diventare occasione per ricevere e trasmettere misericordia, nella consapevolezza che solo laddove si giunge a scoprire di essere sollevati “malgrado noi”, si può diventare balsamo per le ferite altrui, come amava dire Etty Hillesum.

L’altro elemento cruciale del triduo pasquale è il crogiolo del silenzio, che segue alle prolungate riflessioni sulla sofferenza per amore del Nazareno e alle sue ultime parole pronunciate sulla croce.

Viviamo in un mondo inflazionato di parole, pronunciate in centinaia di (inutili?) talk show, scritte e pubblicate su carta o supporti digitali, che hanno portato a una proliferazione enorme della comunicazione, secondo logiche che difficilmente dominiamo e che il più delle volte finiscono per cambiare il nostro modo di essere e il mondo in cui viviamo. Il filosofo Luciano Floridi ha definito tale cambiamento una vera e propria “riontologizzazione del mondo” suscitata dalle nuove tecnologie.

Il silenzio non è necessariamente d’oro, né ha automaticamente una valenza costruttiva, vitale o vivificante. Così come la parola, anche il silenzio può far vivere o uccidere, accogliere o respingere, creare legami o approfondire solchi.

Il silenzio del Sabato santo, però, viene dopo lo “shock” provocato dall’irrompere della sofferenza e della morte, altrui e nostre, che spezza il ritmo delle nostre vite, le nostre abitudini mentali. Allora può diventare un’occasione di custodire, come in un grembo, il germe di vita nuova che l’ascolto dell’inaudito, dell’inatteso e di ciò che è scomodo ha generato.

Vorrei perciò formulare un augurio, molto laico – come sempre – ma anche molto “cristiano” nella sua ispirazione, a tutte voi e tutti voi che seguite il mio sito Riprendere altrimenti. Un augurio basato sulla mia esperienza personale, o per lo meno su ciò che vorrei vivere realmente e non solo auspicare a me stesso e a coloro che amo.

L’incontro con la sofferenza e la morte, seguito da un silenzio di decantazione e attesa, mi hanno aiutato spesso a ricentrare la mia comunicazione, a cercare di raffinare e dosare meglio le parole, perché acquisiscano più spessore e più significato.

Auguro perciò a voi tutti (e a me stesso!) di poter vivere questa duplice fase del triduo pasquale come un’occasione per ritrovare parole più vostre, vere e autentiche, e dunque più importanti anche per tutte coloro e tutti coloro che incontrate ogni giorno nella vita.

La risurrezione, forse – detto sempre laicamente – è anche questo: la nuova vita che può sorgere in noi quando riusciamo – non per merito nostro – ad attraversare la valle della sofferenza e del silenzio aprendoci agli altri e alla possibilità di essere sorpresi dalla vita.

Non è obbligatorio crederci, non vi è nessuna colpa se la luce non affiora. Sappiate però che, in tal caso, siete particolarmente vicini e vicine al mio cuore.

Buona Pasqua!