Mi ha sempre intrigato la celebre frase attribuita a Woody Allen (ma probabilmente scippata scaltramente a Eugen Ionescu dal noto registra americano): “Dio è morto, Marx è morto, e neanch’io mi sento molto bene”. Mi pare rappresentare bene la condizione attuale, “post-moderna”, in cui viviamo.

“Dio è morto” non significa che siano morte le religioni e le fedi, sia ben chiaro. Né credo che mai potranno morire, visto il bisogno umanissimo di credere in qualcosa di importante, che dia senso alla vita, anche solo per un poco. Ma è indubbio che l’uomo moderno abbia gradualmente messo da parte le spiegazioni soprannaturali, il ricorso a un essere superiore e supremo per tappare le falle e dissipare le ombre dell’esistenza. Ed è una morte che hanno vissuto anche i credenti (salvo una minoranza di irridubicili, non necessariamente illuminati ancorchè vocianti), che sono stati chiamati dalla modernità a ripensare profondamente la loro religiosità e le loro convinzioni riguardo al divino, uscendone più liberi e liberati.

“Marx è morto” per tante ragioni. È probabilmente morta la più grande utopia della storia, quella di poter realizzare un mondo in cui ciascuno avrà secondo i suoi bisogni, in cui al posto del dominio del possesso ci sarà quello della giustizia e della condivisione. È morta per il fallimento umano e storico dei suoi promotori. È morta, come ha ben compreso Karl Popper, perché ogni tentativo di chiudere la società, di imporle modelli “decisivi”, alla fine è totalitario, non fa spazio alla diversità, alle differenze, alla pluralità degli dèi e delle razionalità umane; ma è morta anche perché, come ha compreso Levinas, un pensiero monologico, totalizzante, alla fine è violento e nega l’altro, anche quando afferma con profonda sincerità di volerlo promuovere.

“… e anch’io non mi sento molto bene”. La scommessa sulla capacità della libertà umana di dare vita a valori condivisi e condivisibili non fondati su alcuna verità previa, come hanno sognato gli esistenzialisti, Sartre in testa, ci ha lasciati in realtà confusi, senza bussola, affascinati dall’abisso della libertà (forse l’elemento più vicino al divino), ma anche intimoriti dall’arbitrarietà, dalla mancanza di qualcosa di ulteriore cui ispirarsi.

Facciamo dunque maledettamente fatica a trovare ragioni comuni, pensieri comuni, speranze comuni. E quando troviamo modesti progetti comuni, li sovraccarichiamo quasi disperatamente di significato. Abbiamo un enorme bisogno di sapienza. Ed è qui, all’inizio dell’Avvento (almeno secondo il calendario della chiesa cattolica di rito latino), che vanno i miei pensieri, anche se in realtà ci vanno da una vita. La domanda fondamentale è: dove trovare sapienza, da quale pensiero, ispirazione, cultura?

Personalmente ritengo deboli le definizioni del post-moderno, da Jean-François Lyotard in poi. Non di meno mi sento intriso di post-modernità, nel senso dell’aforisma di Woody Allen/Eugen Ionescu. E ho trascorso tutta la vita a cercare, con passione, la sapienza, ovunque essa si celasse. Per questo amo figure come Ipazia, che esploravano tutto con passione divorante, dalle religioni alle scienze, per trovare un senso, una direzione che le aiutasse a vivere. E che potesse permettere loro anche di morire in maniera “sensata”.

Ho sempre cercato la compagnia dei sapienti. Non tanto dei dotti, degli esperti (anche se è spesso dalle loro fila che emergono i sapienti), quanto piuttosto di chi, secondo la radice latina del verbo sapere, fosse capace di gustare, intuire, intravedere il filo rosso che ci rende umani. Chi, in poche parole, sapesse vivere e comunicare la capacità di vivere. Perché vivere è difficile, non è scontato, e non so neppure se sia un dono.

Amo perciò i sapienti di ogni tempo, senza crearmi idoli. Ho vissuto abbastanza a lungo da sapere che ogni essere umano, anche quello in apparenza più santo, luminoso, straordinario, ha lati problematici, tenebrosi.

Per nascita e per estrazione culturale, mi sono scoperto fin da ragazzo attratto da un “sapiente” di nome Gesù di Nazareth, attraverso la chiesa (le chiese) e la cultura, ma anche malgrado le chiese e la cultura. Attorno alla sua figura, l’unica a cui ritengo sia applicabile la categoria di “perfezione”, si è sviluppata la mia vita e il mio rapporto con la religione, che ha conosciuto fasi molto diverse, alcune di natura più intima e personale (e dunque meno significative per chi legge), altre segno di un cammino critico nei confronti delle idee religiose. Sono queste ultime a spingermi a condividere riflessioni e itinerari, conscio delle possibili risonanze con i bisogni e le ricerche delle donne e degli uomini miei contemporanei.

Diventai profondamente cristiano (e quindi monaco, quale modalità radicale di vivere il cristianesimo, e quindi teologo, quale modalità dotta di studiarne ogni aspetto con rigore) a seguito della lettura della Teologia dei tre giorni di Hans Urs von Balthasar. Più tardi il mio apprezzamento per questo noto teologo cattolico è scemato notevolmente, ma grazie a lui ho scoperto il fascino della “teologia della croce”: Dio, in Gesù Cristo, ha mostrato la propria presenza laddove, umanamente, noi vedremmo solo assenza. “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Dio ci ha abbracciati in quell’uomo, che noi abbiamo respinto. Parafrasando Paolo di Tarso, Dio ha mostrato il suo amore verso di noi morendo per noi “mentre eravamo suoi nemici”.

Non ho mai trovato nulla di più sensato nella mia vita, a prescindere dalla fede o meno nell’esistenza di un dio. E mi spiego. In maniera molto pragmatica, trovo che il messaggio raccontato dalla vita e dalla morte di Gesù di Nazareth sia latore di una tale sapienza umana, di una possibilità tale di trasformazione e di rinnovamento delle nostre vite nei loro momenti più bui, da far sì che l’eventuale non esistenza di dio sia un problema sostanzialmente secondario. E mi spingo oltre: sia la fede in un essere supremo che quella nella risurrezione di Gesù non mi paiono gli elementi più fondamentali e decisivi, rispetto alla sapienza umana, umanissima, che è possibile imparare alla scuola del Nazareno.

Da cui la domanda fondamentale: come attingere a una simile sapienza? E qui iniziano i problemi (o forse viene il bello…).

Gesù non ha lasciato scritti, e questo, alla luce di quello che sto per dire, è probabilmente una gran cosa. Le fonti delle origini a suo riguardo sono molto scarse, e sono tutte, strettamente parlando, “di parte”. Sono infatti quasi unicamente il prodotto di alcune delle prime comunità di discepoli formatesi dopo la sua morte, avvenuta presumibilmente nell’anno 30. Le più antiche, le epistole paoline, hanno per autore un uomo che non ha mai incontrato Gesù, mentre i vangeli, che ne narrano le gesta e le parole, sono verosimilmente stati scritti diversi decenni dopo la sua morte, ricorrendo a testimonianze di seconda o terza mano.

Non solo, si tratta pure di fonti che interpretano in maniera discordante la sua figura, a tal punto che uno dei più noti teologi del XX secolo, Ernst Käsemann, inaugurò un importante simposio ecumenico tenutosi nel 1951 a Göttingen con queste famosissime parole: “Il canone del Nuovo Testamento non costituisce in sé il fondamento dell’unità della chiesa, ma è al contrario, di per sé, la base della molteplicità delle sue confessioni”.

Nei miei studi sulla nascita dell’identità cristiana, sulla scia del compianto maestro James Dunn, in realtà ritengo di aver rilevato come il Nuovo Testamento contenga almeno due affermazioni fondamentali su cui tutti i suoi scritti convergono: l’unicità della mediazione tra Dio e gli uomini avvenuta in Gesù Cristo, e l’affidamento reciproco dei credenti a strutture di koinonia (comunione/condivisione/reciproca responsabilità) sotto la guida dello spirito di Dio.

In altre parole, le Scritture cristiane convergono attorno all’idea dell’unicità di Gesù ai fini dei piani di Dio, realizzatisi pienamente in lui, e al ruolo della comunità dei suoi discepoli quale ricettacolo dell’ispirazione divina. In realtà, però, già riguardo al contenuto preciso della mediazione del Nazareno, nonché alle strutture e le modalità di condivisione dell’ispirazione divina in seno alla comunità cristiana, è pressoché impossibile trovare indicazioni precise e univoche.

Studiando il cristianesimo delle origini, poi, si scopre che il messaggio di Gesù ebbe pure altre eco nelle culture del tempo. Ne abbiamo tracce nelle raccolte ufficiali di libri “sacri” in chiese cristiane diverse da quella greca e latina, che presentano variazioni nient’affatto secondarie, nonché in scritti come il Vangelo di Tommaso, che testimoniano diversità di accenti riguardo all’interpretazione del Nazareno nel meraviglioso e variopinto ambiente alessandrino.

Inoltre, al di là dei tempi delle origini, non si può non rimanere sbalorditi dalla miriade di riletture, interpretazioni e raffigurazioni, nella letteratura e nelle arti e in ogni campo del sapere, che ha conosciuto il fondatore del cristianesimo, comprese quelle ostili o estremamente fantasiose.

Le chiese, per molte ragioni, si impossessarono fin dai primi secoli, seppur poco alla volta, delle Scritture, e ognuna di essere ne ha inquadrato l’interpretazione in strutture di “ortodossia”, dando di fatto il là a un cammino di divisioni che, dal II secolo in poi, non ha conosciuto tregua.

Perché dico queste cose? Non mi interessa molto evocare una “liberazione delle Scritture dalle chiese”, sia perché ogni interpretazione ecclesiale di Gesù contiene elementi di sapienza vissuta ed è lo strumento concreto con cui uomini e donne di ogni tempo e luogo vengono in contatto, ancorché imperfetto, con la sua sapienza, sia perché ritengo comunque che le Scritture siano solo un tassello del possibile accesso a tale sapienza.

Se quell’uomo ci ha veramente narrato qualche verità universale e decisiva per le nostre vite e le nostre sapienze, infatti, l’ascolto di ogni altra vera sapienza umana deve contenere non solo risonanze con il vangelo, ma deve altresì essere uno strumento utile a comprendere più a fondo il messaggio di colui che tale vangelo ha annunciato con la propria vita e le proprie parole duemila anni fa. E lo stesso vale per l’ascolto di qualsiasi interpretazione della figura di Gesù, in qualsiasi ambito ed epoca.

Le scorciatoie che non ci è più possibile adottare sono quelle del fondamentalismo, dell’ortodossia e dell’ecclesiocentrismo. Per contro abbiamo bisogno di continuare ad attingere all’origine, tramite le fonti che abbiamo, con molta libertà e senso critico.

Il fondamentalismo, nel nome di presunti letteralismi, in realtà applica le proprie precomprensioni alle fonti cui dice di ispirarsi, finendo per trovarvi sempre e solo quello che già sa o crede di sapere. L’ortodossia impone briglie all’intelligenza e allo spirito umani che, pur conferendo apparenti sicurezze, in realtà impediscono di compiere scelte esistenziali libere, profonde e ponderate. E spesso umilia l’intelligenza… L’ecclesiocentrismo fa sì che al Nazareno si sostituisca la chiesa e le sue interpretazioni, confondendo pericolosamente i piani e finendo per equiparare i testimoni imperfetti di Gesù alla sua figura unica e irripetibile.

Il rifiuto delle fonti o dell’ascolto del passato, per contro, ci consegna a una povertà spirituale e un’arbitrarietà che non potranno mai essere sufficienti a inserirci in un cammino di senso da cui potersi sentire sorretti e portati.

Vorrei perciò concludere auspicando una liberazione delle Scritture dalle ortodossie ecclesiali, ma anche, paradossalmente, una liberazione (parziale) di Gesù di Nazareth dalle Scritture. Per restituire sia Gesù che le Scritture, mezzo privilegiato per comprenderlo, alle chiese stesse e al mondo. Per restituire a chiunque sia in cerca di senso e di speranza qualche fondamento solido, ancorchè elusivo.

Ma proprio qui sta il bello: proprio perché l’interpretazione di Gesù non nega la nostra libertà, ma anzi ne ha bisogno e la coinvolge, la sapienza che potremo scoprire dalla sua figura sarà reale, nostra. Sarà umana.