Da duemila anni a questa parte un ebreo marginale, un galileo che aveva intravisto e annunciato l’irrompere di una misteriosa signoria di Dio, finendo non solo per mietere scarso successo in vita ma addirittura per conoscere una morte turpissima, da reietto da Dio e dagli uomini, non cessa di interrogare popoli e culture di ogni angolo della terra.

A partire dalla sua figura sono state costruite vere e proprie cattedrali, sia fisiche sia di pensiero. Il suo messaggio, soprattutto nella reinterpretazione di alcuni suoi discepoli uscita vincitrice nei primi secoli della nuova era da lui inaugurata, ha addirittura dato luogo a intere civiltà definite per l’appunto “cristiane”. Per certi versi si potrebbe interpretare questa progressiva conquista dello spazio pubblico e privato da parte della “nuova” religione come un cammino, non privo di ambiguità, di sacralizzazione del mondo.

Come succede un po’ inesorabilmente in ogni religione, però, anche nel cristianesimo la forza ispiratrice dell’origine non è mai bastata a tenere uniti coloro che facevano riferimento al suo fondatore, Yeshùa da Nazareth. Se guardiamo infatti con onestà al cammino della chiesa, fin dai suoi albori, si può certamente dire che si è trattato di un percorso caratterizzato da pressoché inesorabili e continue divisioni, malgrado i tentativi irenici già del primo storico del cristianesimo, l’evangelista Luca, o di chi aggiunse un capitolo finale al vangelo di Giovanni onde inserire la comunità che lo aveva ispirato in un cammino di comunione con la chiesa facente capo ai discendenti spirituali dell’apostolo Pietro.

L’incapacità della “cristianità”, nel senso di un mondo le cui istituzioni fondamentali erano permeate dai valori e dalle dottrine cristiane, di rimanere unita è certamente una delle radici dell’epoca moderna, anche se probabilmente non l’unica. Non di meno le guerre di religione sorte nel cristianesimo sul finire del Medio Evo portarono all’esigenza di cercare altrove l’unità della società e della politica. La radice del termine “secolarizzazione” sta proprio qui, a significare l’inversione di tendenza rispetto alla progressiva sacralizzazione del mondo dei primi quindici secoli cristiani, tramite il passaggio di beni e territori dalla chiesa a possessori civili, a cui farà seguito la ricerca di principi dipendenti dalla ragione piuttosto che dalla religione per governare la società.

Con l’epoca della ragione ha avuto inizio una sottolineatura dell’autonomia dei singoli individui nella scelta di principi, valori e orientamenti che ha messo fortemente in crisi ogni religione. Ciò non tanto per una presunta irrazionalità dell’esperienza religiosa – tutta da provare – quanto piuttosto per la tendenza delle credenze tradizionali a proporre strutture umane di mediazione tra la fonte dell’esperienza religiosa e le coscienze dei singoli credenti. Detto altrimenti, per la tendenza delle strutture di potere religiose all’eteronomia, alla direzione “dall’esterno” della coscienza umana, in contrasto con la scoperta da parte della ragione moderna del fondamentale e irrinunciabile desiderio di autonomia di ogni essere umano. Tutta l’epoca moderna è stata perciò teatro dell’incontro/scontro tra fede e ragione, tra religione e razionalità, secondo dinamiche che hanno attraversato e diviso non solo interi gruppi di persone ma l’intimo stesso dei credenti, che sono stati spronati a nuove sintesi, a tutt’oggi ancora molto lontane da approdi stabili e condivisi.

L’attacco sferrato dall’Illuminismo alla fede cristiana ha suscitato risposte di vario genere negli ultimi due secoli e mezzo. Il XIX secolo, ad esempio, ha visto il sorgere di un tentativo per certi versi grandioso di reazione di alcuni intellettuali cristiani alle critiche radicali rivolte loro dai maestri illuministi, compiuto utilizzando una delle armi cruciali coniate dalla modernità: il metodo storico-critico. 

A Oxford un drappello di intellettuali credenti di assoluto valore, tra cui Edward Pusey e John Keble, si dedicò a uno studio approfondito delle fonti antiche del cristianesimo alla ricerca di criteri capaci di farlo sopravvivere alla critica moderna. Uno degli esponenti del cosiddetto “movimento di Oxford”, l’allora giovane prete anglicano John Henry Newman (che in seguito si convertirà al cattolicesimo), descrisse il proprio itinerario di ricerca intellettuale e spirituale in un libro intitolato Apologia pro vita sua. Dopo anni di studio e di ricerca, Newman trovò che l’affermazione compiuta molti secoli prima da sant’Agostino nelle sue lotte contro i dissidenti donatisti, Securus judicat orbis terrarum (il mondo giudica in modo sicuro), era il criterio ultimo per giudicare la verità e affidabilità di qualsiasi insegnamento di natura religiosa. Non la ragione, dunque, ma il giudizio certo e unanime della chiesa (antica), era il fondamento di tutto, con il corollario che tale giudizio, per volere di Dio, è e rimarrà sempre saldo e presente in ogni epoca nella chiesa apostolica.

Malgrado la sottolineatura da parte dello stesso Newman del “primato della coscienza” in alcuni suoi scritti pubblicati all’epoca del concilio Vaticano I, in realtà egli rappresenta un tentativo molto colto e raffinato di sottrarre alla sfera della ragione alcune mediazioni umane, ponendole in un ambito intoccabile e di per ciò stesso sacro. Non a caso Newman figurerà tra i sostenitori del dogma dell’infallibilità papale (ancorché sulle sole questioni di fede).

L’intera storia del magistero cattolico in epoca moderna è per certi versi un tentativo di compaginare fede e ragione salvaguardando il più possibile gli insegnamenti tradizionali del cristianesimo (distinguendo spesso a fatica fra tradizione evangelica e tradizioni successive e secondarie), ma con essi anche (e soprattutto, sarei tentato di dire) l’autorità della chiesa e la sua struttura in qualche misura “sacrale”. Lo stesso Vaticano II, infatti, pur inaugurando traiettorie importanti di apertura alla ragione e alla cultura dell’epoca moderna, finirà per ribadire nella Lumen Gentium (la costituzione dogmatica sulla chiesa) la struttura gerarchica della chiesa e la sacralità dei suoi ministri, i quali, nel Codice di Diritto Canonico promulgato nel 1983 sulla scia dei pronunciamenti conciliari, saranno i soli a cui verrà riconosciuto un pieno potere non solo di “santificazione” ma anche di insegnamento e di governo nella chiesa.

La domanda che personalmente mi pongo da decenni è tuttavia questa: la via percorsa da Newman al Vaticano II, passando per le affermazioni nient’affatto casuali sul primato petrino e l’infallibilità papale della costituzione Pastor Aeternus del Vaticano I, è una risposta veramente credibile alla sfida della modernità e alla forza difficilmente negabile della secolarizzazione? È l’unica risposta possibile?

In contemporanea con gli sviluppi che ho appena narrato della teologia cattolica in epoca moderna, si sono succedute in tutte le chiese e nel mondo accademico anche laico una serie di ondate di quella che è stata definita la ricerca sul Gesù storico. Come è noto, i risultati essenziali di tutti gli studi storici dedicati al Nazareno sono stati relativamente scarni e per molti versi insufficienti a fondare da soli una teologia o una cristologia (e un’antropologia) profonde. Ciò nonostante le ricerche su Gesù continuano ad avvenire, così come continua a essere affascinato da quell’uomo vissuto due millenni fa tutto il mondo dell’arte, della letteratura e della cultura. Perché? Così conclude la sua immensa panoramica sulla prima ondata degli studi storici su Gesù Albert Schweitzer (la traduzione che propongo è abbastanza libera e ne sono consapevole):

«Nessuna confessione cristiana sa esprimere l’essenza di Gesù. Egli viene a noi come uno sconosciuto senza nome, così come si avvicinò sulla riva del lago a quegli uomini che non sapevano chi fosse. Pronuncia la stessa parola: “Seguimi!” e ci pone di fronte ai compiti che deve risolvere nella nostra epoca. Egli parla con autorevolezza. E si rivelerà a coloro che lo ascoltano, siano saggi o poco saggi. Si rivelerà nella pace, nell’azione, nelle lotte e nelle sofferenze che costoro vivranno in comunione con lui. Ed essi sperimenteranno chi egli è, come si conosce un segreto ineffabile».

Non sono sicuramente l’unico a nutrire un’enorme ammirazione per Schweitzer e tutto ciò che ha fatto nella propria vita, esempio come pochi di sequela di Yeshùa di Nazareth e del suo vangelo. Vorrei però sottolineare alcune cose che rendono particolarmente preziose le parole appena citate, aiutandoci nel contempo a cogliere le ragioni portanti della sua testimonianza.

Per essere ciò che è stato egli non ha avuto bisogno di mandati ufficiali da parte di nessuno, né di dottrine da accogliere a scatola chiusa o da difendere a denti stretti. Né ha mai mostrato peraltro segni di disprezzo verso alcuna istituzione o chiesa. Ha semplicemente coniugato due elementi essenziali: una costante ricerca, con ogni mezzo umano, del volto di colui che aveva deciso di seguire fin da bambino, e  la piena assunzione di responsabilità verso ciò che la sua coscienza gli dettava nella vita a seguito dell’incontro con il Nazareno.

L’itinerario che ha tracciato è simile a quello di coloro che amo definire “diversamente cristiani”, da Ernesto Buonaiuti a Maria di Campello e Evelyn Underhill, da Ernesto Balducci a Giovanni Vannucci, fino a figure molto diverse tra loro dei nostri giorni, come Enzo Bianchi, Vito Mancuso e Rowan Williams: persone che non si sono accontentate di ciò che hanno ricevuto dalle loro chiese o comunità di origine, ma hanno voluto risalire oltre, verso l’origine ultima della loro esperienza di fede, per se stesse e per gli altri, alla ricerca di qualsiasi traccia dell’umano e del divino nelle pieghe della storia e della vita quotidiana.

Rileggendo l’Apologia di Newman durante i mesi estivi dell’anno scorso ho ammirato ancora una volta la profondità e l’onestà intellettuale di quell’uomo. A un certo punto, però, egli sembra avere raggiunto la certezza e quasi smette di cercare. Ma il cammino del mondo non credo ci consenta di fermarci al suo approdo. Abbiamo bisogno della sua stessa serietà ma di esiti diversi, più problematici, per certi versi contrari rispetto al suo.

Il mondo moderno continuerà a combattere qualsiasi sacralizzazione tesa a sottrarre qualcosa al giudizio del dialogo e della ragione, e ancor più al giudizio della coscienza individuale. Ma non credo sia intrinsecamente ostile ai valori vissuti e annunciati da Gesù venti secoli fa. Anzi continua a essere profondamente intrigato dal Nazareno, come lo sono state quasi tutte le culture del globo, in ogni tempo. Come diceva Bergson, però, se la religione privilegia solo la propria componente statica – regole, dottrine e sistemi di governo della vita e della società – sarà sempre osteggiata dalla componente dinamica dello slancio vitale umano: quella che rompe costantemente gli argini e che pur suscitando cammini anche collettivi tende innanzitutto a rispondere alle esigenze fondamentali di sviluppo spirituale dei singoli.

L’«egli viene a noi» di Schweitzer è e resta allora l’invito fondamentale: a cercare Dio e l’uomo, il loro incontro misterioso in Gesù Cristo, senza alcun timore di “sbagliare”. Perché se c’è una certezza nell’annuncio cristiano è il fatto che il Dio che ci ha amati mentre eravamo lontani da lui non ha nessuna intenzione di abbandonarci.

Infine, solo così sarà possibile realizzare una sacralizzazione del mondo aperta a tutti, non escludente, capace di trasformare tutto perché in grado di consentire la crescita e lo sviluppo di ogni singola persona. Una sacralizzazione dinamica, una vera e propria “incarnazione di tutta la materia”, come aveva intuito in maniera geniale Pierre Teilhard de Chardin. Perché quel signore vissuto duemila anni fa a Nazareth ha trasformato una volta per sempre la nostra concezione della religione, abbattendo ogni barriera tra sacro e profano, eliminando ogni casta e ogni separazione, e dando il via a una stagione di speranza per tutte e per tutti, nessuno escluso.