Nella lunga serie che sto proponendo dal gennaio dell’anno scorso, ho ripercorso vari aspetti della vita monastica e religiosa più in generale, nella convinzione che contenga valori antropologici universali i quali, una volta ripensati e “ripresi altrimenti”, possono essere di grande aiuto alla vita spirituale e umana di tutte e di tutti, a prescindere dalla fede o credo religioso che si professa.

Ho perciò delineato al cuore dell’anelito monastico la ricerca di un principio radicale o fontale grazie al quale dare forma alle nostre vite, creando gli spazi e i tempi necessari per esercitarsi alla sapienza e cercare la propria realizzazione in armonia col mondo e con gli altri. Lungo tale cammino ho cercato inoltre di riprendere la possibile utilità delle regole di vita, quindi mi sono soffermato sulla complessa questione dell’accompagnamento spirituale.

Con questo contributo desidero iniziare a riflettere su una delle tipicità forse maggiormente in crisi nella vita religiosa odierna, ovverosia quella dei voti. Da dove vengono? Che cosa sono? Quali sono? Hanno ancora senso, e secondo quali modalità?

Vorrei partire dalla definizione della Encyclopædia Britannica, per la quale un voto è “una sacra promessa volontaria di dedicare se stessi o i membri della propria famiglia o comunità a un obbligo speciale che va oltre le normali esigenze sociali o religiose”. Esaminiamo alcune parole chiave di questo lemma.

Promessa: Pro-mettere deriva dal latino e significa “mettere davanti”. La promessa è dunque un impegno assunto di fronte ad altri (o a sé stessi) di fare o dare qualcosa. Al tempo stesso, la stessa locuzione allude a un riservare o ipotecare almeno in parte il nostro futuro.

Volontaria: Un voto non può essere mai una promessa “estorta” contro la nostra volontà, ma comporta una libera adesione alla parola che si proferisce, una libera scelta di riservare a qualcosa una porzione più o meno significativa del nostro tempo, o meglio del nostro avvenire.

A un obbligo speciale che va oltre le normali esigenze sociali o religiose: L’espressione in questione contiene almeno due concetti fondamentali: quello di “obbligo” e la sua qualifica in termini di obbligo “speciale”. Un voto è espressione di libertà, ma con tale libertà in una certa misura si decide di fare violenza a sé stessi, di forzarsi in qualche direzione, di imporre a sé dei binari o dei limiti; ed è forse qui che sorgono le maggiori difficoltà, appunto dal fatto che il voto comporta una convivenza di libertà e costrizione che non è affatto scontata. Secondo la definizione che abbiamo riportato, tuttavia, la questione diventa ancora più complessa: con un voto non ci si forza normalmente in una direzione scontata, dettata da quanto la società o la nostra fede ci domandano, ma a compiere qualcosa di “straordinario”.

Sacra promessa: Lungi dal qualificarla in maniera univoca e aiutarci a chiarire il concetto di voto, l’aggiunta dell’aggettivo “sacra” a promessa in realtà complica le cose, in quanto l’idea di sacro soggiacente a un voto religioso varia enormemente tra le religioni e conosce evoluzioni anche profonde all’interno di una stessa religione da un’epoca all’altra. Per ora mi limito a dire che la sacralità del voto allude al fatto che si riconosce una qualche potere o forza esterno a noi, che è portatore di vita e/o di una certa verità, e nel rapporto con il quale è possibile accedere alla nostra realizzazione (sia essa ciò che stabiliamo noi, o invece ciò che la divinità o la trascendenza paiono indicarci).

Storicamente, le forme più antiche di voto sono probabilmente quelle “condizionate”, perché il votante o la votante si impegnavano a compiere una determinata azione purché la divinità, invocata solennemente a testimone, ne accordasse prima a sua volta un’altra. Sottintesa era la possibilità almeno inconscia di esercitare un certo potere costrittorio sugli dèi, o quanto meno di poter patteggiare con loro mettendosi su un piano paritario tramite la promessa di compiacerli. Nella tradizione veterotestamentaria, un caso di questo genere è Anna, la madre di Samuele, la quale giurò che se Jhwh le avesse concesso un figlio, lei lo avrebbe dedicato al servizio del Signore. E così avverrà.

Accanto ai voti al divino, esistono in realtà fin dagli albori della civilizzazione anche i voti “di alleanza”, con cui ci si lega a gruppi di persone tramite rituali e giuramenti di osservare determinate regole. In tal caso, oltre alla eventuale sacralità del divino, si riconosce una forza particolare e un completamento di sé stessi reso possibile solamente dalla forza comunitaria, dagli altri. Fare un voto comunitario diventa un elemento importante, per alcuni, per definire la loro stessa identità personale. Non a caso questa seconda forma di voti è presente anche in varie correnti del buddhismo, religione non teista, e in sette esoteriche come quella dei pitagorici sorta a Crotone nel 530 a.C. In entrambi i casi, la mancata osservanza dei voti emessi comportava o comporta tuttora l’espulsione dalla comunità.

Una terza forma di voto, il cui legame con il sacro è più incerto e complesso e che non ha necessariamente natura pubblica, è quella tramite la quale ci si impegna per un certo tempo a compiere rinunce o a seguire determinate discipline in vista di un obiettivo. Un esempio potrebbe esserne il nazireato della Bibbia ebraica, ma anche il “monachesimo temporaneo” proposto in diverse comunità monastiche buddhiste. L’obiettivo può variare da una maggiore unione con il divino a una trasformazione di sé stessi che si intende operare.

Nell’ebraismo sono previste forme sia positive sia negative di voto (neder), come ad esempio la promessa volontaria di consacrare qualcosa a Dio o fare qualcosa che non è richiesto dalla Torah, o la promessa sempre volontaria di astenersi da qualcosa di legittimo. Tuttavia la tradizione rabbinica (due interi trattati del Talmud, Nedarim e Nazir, sono dedicati al tema dei voti) tende a scoraggiare queste pratiche, salvo in casi estremi e particolari.

Venendo al cristianesimo, la questione è complessa.

Innanzitutto la predicazione di Gesù di Nazareth – il suo euanghélion, la sua buona notizia – è interamente tesa a orientare gli sguardi verso l’irrompere nella storia della signoria di Dio, perché ne venga accolta l’essenza, che è fatta di amore misericordioso, di guarigione, di riconciliazione. Gesù stesso non formula alcun voto pubblico, né di nazireato, né di castità o di povertà, mentre l’obbedienza al Padre che indubbiamente è parte integrante della sua missione, diventa nelle parole che rivolge ai suoi discepoli una richiesta di ritorno a Dio e di adesione al Vangelo.

In secondo luogo, l’idea del sacro viene profondamente trasformata nella fede pasquale delle comunità cristiane: la presenza di Dio che era “separata” – come ben simboleggiava la struttura a cortili concentrici del Tempio di Gerusalemme e il sistema sacerdotale della Bibbia ebraica – diventa ormai disponibile ovunque mediante l’effusione dello Spirito del risorto sul mondo. Lo stesso sacerdozio cessa di avere una funzione di mediazione tra Dio e i credenti, per lasciare il posto a un sacerdozio universale dei credenti.

Infine, l’unica forma rituale che Gesù stesso e i suoi primi discepoli paiono praticare è il battesimo del Battista, reinterpretato come rito di immersione nello spirito di Dio ma sprovvisto di formule di impegno o voto solenne. Malgrado ciò, la tradizione cristiana conoscerà molto presto dapprima un’incorporazione di voti e promesse nel rito del battesimo – anche se né il Nuovo Testamento né i primi scritti cristiani ne parlano esplicitamente – quindi la creazione di forme di “speciale consacrazione” con emissione pubblica di voti, probabilmente nella Siria del IV secolo attraverso la creazione dei cosiddetti “figli del patto”.

Nei prossimi contributi cercherò di approfondire le possibili ragioni umane dei voti religiosi, nonché di proporne un ripensamento alla luce del pensiero moderno e del nucleo evangelico.