Nel contributo precedente ho parlato della crisi della vita religiosa, sottolineando in particolare come tra gli elementi che la definiscono (almeno agli occhi di molti nostri contemporanei) ve ne siano alcuni che sono ormai radicalmente messi in discussione sia dalla cultura moderna sia dal sentire sempre più diffuso delle stesse persone che si definiscono credenti e praticanti.

Su tutti la sacralizzazione dell’autorità e dell’obbedienza a scapito del primato della coscienza, l’idea della possibilità di prendere impegni “perenni” e “definitivi” (i voti), la difficoltà enorme di vivere in comunità gestendo in maniera adeguata le logiche di potere che sempre sorgono quando si dà vita a convivenze stabili con forti elementi di condivisione, e infine l’idea di poter regolamentare o addirittura non esercitare la propria sessualità sine die. Per quanto tutto ciò possa sembrare importante, ritengo tuttavia che nessuno di questi elementi sia, in ultima istanza, al cuore dell’ideale o anelito monastico. Ed è di questo, perciò, che vorrei parlare.

Dal punto di vista etimologico (almeno nella cultura di derivazione greco-romana), monaco significa “uno”, “solo”. Dunque in primo luogo tale termine allude a un eremita, un asceta itinerante o semplicemente a chi non ha un partner o non appartiene a un clan o a una famiglia “ordinari”.

Nel cristianesimo latino la parola monachesimo allude a qualcosa di più ristretto: non fanno formalmente parte della vita monastica, ad esempio, né i canonici regolari, né gli appartenenti a ordini mendicanti, né molti altri “consacrati” e “consacrate”. Dai tempi di Benedetto di Aniane, inoltre, monachesimo significa quasi unicamente la strutturazione benedettina della vita religiosa, con una Regola ben chiara e prassi altrettanto ben definite (pur con molte varianti quanto agli stili di vita dei vari ordini monastici).

Come sa chi mi legge fin dai primi contributi che ho dedicato al tema della vita religiosa, pur riconoscendo una palese e ricca policromia nelle sue declinazioni, ritengo che sia importante cogliere nel “monachesimo” in senso più lato e originario la radice di un anelito e una ricerca che hanno un valore sia religioso sia antropologico di portata universale. E un simile anelito attraversa e regge, a mio parere, ogni forma odierna di vita religiosa.

Negli oltre trent’anni in cui mi sono occupato di monachesimo – vivendolo in prima persona, incontrandone e frequentandone declinazioni a ogni latitudine e in ogni religione, studiandone le fonti e la storia – raramente mi sono imbattuto in lucide disamine delle sue fondamentali radici antropologiche, con rare eccezioni. Sicuramente, in ambito cristiano, resta molto arricchente la lettura de Il senso della vita monastica di Louis Bouyer, pubblicato in francese nel 1950 e oggi disponibile in italiano presso le edizioni Qiqajon. Ancora più cruciale, per andare oltre il cristianesimo, l’opera di Raimon Panikkar Beata semplicità: la sfida di scoprirsi monaco, apparso nel 1982 in inglese e nel 2007 in italiano da Cittadella.

Di recente mi sono imbattuto in un articolo scritto nel 1987 (e costantemente aggiornato fino ad oggi sul sito www.encyclopedia.com con ulteriori riflessioni e bibliografie) da George Weckman, storico della religione americano allievo di Mircea Eliade. Secondo Weckman, i quattro elementi fondanti della vita monastica sarebbero: 1) uno status sociale ben distinto, ovverosia un’autopercezione e un ruolo pubblico di monaci e monache come appartenenti a una categoria “sui generis” di persone, 2) uno specifico programma o disciplina di vita orientati a uno scopo “religioso”, 3) una ritualità che segna le tappe di un cammino e 4) un’opzione scelta solo da alcuni nell’ambito di tradizioni religiose che la sorreggono ma che non si esauriscono in essa. È un punto di partenza interessante, che però vorrei rielaborare e sfumare, in un tentativo sicuramente baldanzoso ma convinto di offrire a mia volta una sintesi dei tratti essenziali della vita monastica.

L’origine di ogni ricerca monastica sta a mio parere nella ricerca di un principio radicale, “fontale”. Per alcuni tale principio è Dio, per altri una qualche forza spirituale, per altri ancora la fonte ultima del sé più autentico. Penso sia a questo che il “monos” di monaco/monaca alluda più in profondità, a quella che Enzo Bianchi ha definito “monotropia”, ovverosia il riconoscimento di una relazione privilegiata e unificante con un principio fondamentale.

In secondo luogo, tale principio radicale lo si ricerca costantemente per dare forma alla propria vita, fondandola su qualche verità sempre in grado di vivificare e far sviluppare la ricerca umana di senso, di pace, di pienezza: tutti aneliti ancestrali, che si manifestano tanto laddove la verità ultima che è stata individuata è la vacuità di ogni cosa, l’impermanenza, quanto in prospettive religiose che hanno al centro un continuo cammino di espansione e di crescita verso realtà positive sempre più grandi. Ogni ascesi, ogni lotta spirituale, ogni disciplina, ogni regola a cui ci si sottopone è per l’appunto funzionale a questa trasformazione, a questo plasmare quotidiano la propria vita a partire da un principio radicale. Per questo Panikkar vede nel monaco un archetipo della “beata semplicità”, dello sviluppo verso la pienezza e il senso a cui ogni essere umano ambisce nel profondo.

In terzo luogo, infine, la ricerca di un principio con cui dare forma alla vita viene operata creando gli spazi e i tempi necessari. Per questo il monachesimo è anacoresi – mettersi in dispare, abitare uno spazio più “vuoto” e silenzioso dove fare spazio all’essenziale, scoprire nuove vie e seguirle con maggiore convinzione. E per le stesse ragioni il monachesimo è anche celibato, digiuno, ritmo dato alle giornate e alla vita più in generale: per assicurare tempi e spazi in cui al centro venga posto ciò che si ritiene cardinale.

Di fatto, riassumendo in questo modo ciò che ritengo essenziale, ho ripreso e fatto mio soprattutto il punto 2) di Weckman. Il punto 3) mi lascia sostanzialmente perplesso, nel senso che pur ritenendo una certa ritualità necessaria a qualsiasi vita spirituale, e malgrado sia conscio che nella vita in generale segnare le tappe del proprio cammino è un’operazione antropologicamente importante per la propria identità – tra memoria di ciò che è avvenuto e anticipazione di ciò a cui si tende – penso tuttavia che si possa vivere a fondo una dimensione monastica senza tappe predeterminate e cammini universali da segnare. Il punto 4) – e perfino il punto 1) – dipendono infine dalla tradizione religiosa soggiacente alla forma di vita monastica: ci sono religioni e spiritualità in cui si privilegia l’idea che sia necessario avere figure in qualche misura specializzate nella ricerca monastica, a cui tutti possono rivolgersi per attingere insegnamenti e comprensioni che nella vita “del mondo” non è possibile scoprire, e altre in cui si ritiene che sia meglio se la fondamentale ricerca “monastica” diviene appannaggio di tutte e di tutti, almeno in alcuni segmenti dell’esistenza di ciascuno, per consentire una piena padronanza “dall’intimo” e “per esperienza” degli strumenti che conducono a una vita piena e sensata.

Così inteso, il monachesimo diventa una ricerca antropologica universale di senso, resa possibile dalla creazione di diastasi nella vita di ogni donna e ogni uomo, in cui scoprire, praticare e fare sempre più propria la forza trasformante dei principi fondatori che abbiamo identificato nelle nostre esistenze e per le nostre esistenze. Ciò che perciò mi propongo di fare nei contributi che seguiranno, è passare al vaglio di queste intuizioni fondamentali e fondanti tutte le pratiche e le categorie della vita religiosa come la conosciamo oggi, sia per comprendere cosa ha veramente una perdurante pertinenza, sia per intravedere cosa stia emergendo nell’attuale fase liminale, tra un futuro che non c’è ancora e un passato che non pare reggere più.