Nuovo contributo sul significato universale della vita monastica che comparirà in gennaio su Rocca. Buona lettura e buon anno a tutte e a tutti!
Nel tentativo un po’ ardito ma necessario di spiegare quali siano i tratti essenziali che rendono il monachesimo una ricerca antropologica universale di senso, ho ripreso in uno dei miei contributi precedenti un’interessante riflessione dello storico della religione americano George Weckman. Più in particolare, ho sottolineato come al cuore della ricerca monastica vi sia l’individuazione di uno specifico programma o disciplina di vita orientati alla trasformazione delle nostre esistenze a partire da un principio vitale, “religioso” in quanto fonte di valori a cui aderire, di energie trasformatrici e di direzioni verso cui tendere.
Lo stesso Weckman, parlando di questo tratto del monachesimo e della vita religiosa, cita immediatamente come suoi esempi “più ovvi” (parole sue) regolamentazioni della vita monastica come il Vinaya del buddhismo o la Regola di Benedetto, e più in generale tutti quei generi letterari che hanno contribuito nella storia monastica a fissare per iscritto attese di vario genere riguardo al comportamento e le attività che dovrebbero caratterizzare monache e monaci.
In buona parte delle tradizioni monastiche di ogni religione, la consapevolezza che non basta sapere o essere consci di qualcosa per trasformare la vita ma è necessario praticare ed esercitarsi al cambiamento, ha condotto non solo alla creazione di pratiche ascetiche, ma anche alla stesura di regole più o meno articolate e complesse. La domanda che sorge da una prassi così antica e consolidata è perciò: le regole monastiche sono necessarie? Cosa sono di preciso? Quali benefici recano e quali rischi comportano?
In maniere molto diverse, gli studiosi delle religioni hanno sottolineato come la componente vitale, capace di trasformare le nostre vite, di un’esperienza religiosa, si trasmetta sempre attraverso segni e simboli che sono al tempo stesso limitanti e generatori di senso.
A prescindere dai tratti specifici dell’esperienza monastica vissuta da un singolo in un determinato momento della storia, per far sì che tale esperienza rimanga eloquente – e dunque almeno in parte partecipabile – per altre persone in tempi e luoghi diversi è necessario che l’esperienza si depositi in segni e simboli che consentano ai posteri di riconnettersi all’origine.
Le opere letterarie sono probabilmente il mezzo più potente che gli esseri umani hanno ideato per operare la trasmissione di idee ed esperienze nella storia. Sono dunque – assieme alla ritualità e ai simboli che permeano e rendono possibile quest’ultima – il segno più importante per consentire allo spirito di una ricerca umana ed esistenziale di riverberare nei secoli e da un continente all’altro. Senza scritture, inoltre, la pura tradizione orale avrebbe effetti e una portata decisamente inferiori.
Non stupisce dunque che nella storia della vita monastica e religiosa vi siano sempre stati uomini (soprattutto, e forse non a caso) e donne che hanno deciso di mettere per iscritto i tratti essenziali della loro esperienza, per fare memoria, condividere, ispirare e rendere praticabile anche ad altri la loro ricerca. Da un lato perché convinti di aver vissuto qualcosa di bello e di universale, dall’altro anche per la tendenza umana – sempre un po’ sospetta e che va riconosciuta e smascherata – a imporre ad altri le proprie “verità”.
Nessuna regola però ha la pretesa di sostituirsi ai principi vitali dell’esperienza religiosa. Ciò nonostante, soprattutto nell’ambito del cristianesimo latino (che è il mondo religioso più vicino a tutti noi), è prevalsa spesso l’idea che non solo sia necessario raccontare un’esperienza e fissarne per iscritto la memoria, ma che sia altresì utile definirne modalità di attuazione in maniera sempre più meticolosa, mediante regole e addirittura consuetudini che rischiano di mettere in ombra sia la forza elusiva del principio fondante (il vangelo, nel caso del cristianesimo) che pure cercano di istituzionalizzare, sia la libertà e l’unicità di ogni singola persona alla ricerca, mediante l’adesione alla vita monastica, di qualcosa che non è mai pienamente definibile a priori e che può essere molto diverso per ciascuna e ciascuno di noi.
Del resto, è nell’alveo dello stesso cristianesimo latino che si è giunti a definire in maniera sempre più ampia e onnicomprensiva il diritto canonico e addirittura a ipotizzare, sessant’anni fa, di poter definire una Lex Ecclesiae Fundamentalis, una sorta di “costituzione della chiesa” che – giustamente – grandi figure come il Michele Pellegrino e Giacomo Lercaro osteggiarono con vigore nel timore che si potesse perdere di vista che il nucleo fondante (nonché l’unica ragione di vita) della chiesa è il vangelo.
Certo, creare e normare delle routine riguardo alle pratiche quotidiane, religiose e non solo, può aiutarci a operare quella trasformazione globale delle nostre vite a cui aneliamo abbracciando una vita di tipo monastico. Se però le routine diventano prigioni che impediscono di perseguire lo slancio vitale e i valori fondanti che pure le definiscono, allora è meglio contraddirle e spezzarle. L’osservanza e il rispetto di una regola non possono mai essere fine a se stessi, ma vanno subordinati a principi superiori, che possono sempre essere narrati ma mai fossilizzati o ingessati in norme dal valore effimero e parziale.
Il rapporto con la legge, inoltre, contiene sempre il rischio del legalismo e della corrispondente autogiustificazione. Le leggi hanno un senso se indicano o suggeriscono cammini di vita e di crescita per noi e per chi ci vive accanto. Se invece sono solo uno strumento per sentirci “a posto” psicologicamente, oltre a essere di scarsa utilità, possono dar luogo a meccanismi contrari a quelli per cui sono state create. O la legge è una memoria del mio essere in relazione con il prossimo e con il mondo, oppure rischia di trasformarsi in pura lettera che uccide.
Quali regole possono allora essere utili per un monachesimo odierno, cristiano o non cristiano?
In primo luogo, dotarsi di una disciplina alimentare e di riposo che renda il nostro corpo capace di funzionare in maniera regolare e perciò di reagire meglio agli stimoli che provengono dal mondo esterno e dalla mente. Se vogliamo trasformare in meglio noi stessi e aiutare chi ci sta accanto a realizzare la propria eudaimonia, non dobbiamo mai perdere di vista il nostro essere un’unità psicofisica in cui tutto è interdipendente. Siamo, alla radice, dei corpi materiali.
In secondo luogo, credo sia utile una qualche disciplina della mente, a partire dal riservare tempi relativamente fissi alla fruizione di fonti capaci di ispirare la nostra vita interiore, tenendo presente che è fonte non solo un libro o uno scritto, ma qualsiasi stimolo che ci aiuti a spezzare la routine delle conoscenze e delle consapevolezze acquisite per pensare un oltre, per spingerci in territori inesplorati alla ricerca di senso e di pienezza. Arte, musica, viaggi: tutto può alimentare in profondità lo spirito.
Un terzo elemento può essere la definizione di tempi di silenzio, collegati alla lettura e alla meditazione, ma anche alla presa di distanza dai nostri rapporti quotidiani, mediante un farsi da parte, in luoghi diversi e silenziosi, per non dare nulla per scontato e consentirci di fare costantemente spazio al nuovo che può irrompere in qualsiasi momento nelle nostre vite ma che va anche atteso e fatto crescere in noi.
Un quarto spunto è favorire l’attività della memoria e dell’autoconsapevolezza mediante la stesura di un diario che ci aiuti nel tempo a cogliere errori, traiettorie vitali e a ritrovare almeno in parte una narrazione della nostra identità che ci aiuti a vivere consci di quello che facciamo. Un diario non solo e non tanto come autonarrazione, ma come deposito di idee, riflessioni, sensazioni ed emozioni che hanno attraversato anche solo per un istante la nostra mente, lasciando tracce che può valere la pena riprendere, approfondire e seguire in tempi successivi.
Se sia o meno necessario scrivere (e continuare a riscrivere) per noi stessi un programma specifico in cui raccogliere gli spunti essenziali per trasformare le nostre esistenze a partire da un principio vitale, dipende dall’indole di ciascuno e ciascuna di noi. Così come dipende da molti fattori complessi la necessità o meno di farsi accompagnare nella ricerca monastica da guide umane che l’abbiano già intrapresa.
Ma di questo argomento, oggi probabilmente cruciale visto l’emergere sempre più palese di abusi di ogni genere che le chiese non sembrano in alcun modo in grado di contrastare, parleremo nel prossimo contributo.
I vari tipi di monachesimo sono stati sempre identificati dalle loro regole. La”regola” o “prescrizione” è stata pertanto da sempre non solo modello di vita conviviale ma soprattutto espressione di una spiritualità e di un ascetismo col quale raggiungere la piena realizzazione della vita religiosa e della intimità con Dio. Quindi la regola perde il suo significato di regolamentare i rapporti tra monaci o i rapporti col mondo per assurgere a traccia di santificazione personale. Oggi invece si tende a rileggere la “regola” come modello di appartenenza ad un gruppo che vuol specificare la propria identità. Penso che anche nella nostra epoca le regole di un monachesimo moderno debbano tener conto dell’obiettivo che i monaci vogliono raggiungere.