Per anni ho citato con approvazione, come immagino molti di voi, l’adagio attribuito a Fëdor Michajlovič Dostoevskij: “La bellezza salverà il mondo”. In realtà, come mi ha fatto notare un giorno l’amico Rowan Williams, di cui ho tradotto in italiano lo splendido studio sul grande romanziere e pensatore russo, queste parole sono messe in bocca da Dostoevskij, nei quaderni di appunti per L’idiota, al principe Myškin, per il quale il bello è semplicemente ciò che esercita un’attrazione superficiale e coercitiva, e non un valore di particolare spessore o importanza. In termini biblici, un idolo.

Con questo non voglio tessere alcuna lode della bruttezza, in qualsiasi senso la si voglia intendere, non vi preoccupate! E sicuramente credo che l’esperienza estetica sia una delle componenti più importanti del pensiero umano, in grado di dischiudere importanti orizzonti di senso e di fungere da balsamo per molte nostre ferite (parafrasando Etty Hillesum).

Vorrei però concentrarmi sul nostro bisogno di “salvezza”, che in tempi difficili può, come accade al principe Myškin, rivolgersi verso ciò che in realtà è superficiale e inconsistente, o addirittura creare idoli cui attribuire poteri che in realtà non possiedono, o quanto meno fare leva su speranze mal riposte.

Che cos’è la “salvezza”? Nelle sue radici ebraiche, greche e latine vengono sottolineate sfumature leggermente differenti. Nell’ebraico ješu‘ah prevale il senso di “liberazione”, nel greco sōtēria quello di “sicurezza” e nel latino salus quello di “integrità”, “incolumità”. Perciò, come si coglie già da questo dato, non sorprende che nell’ebraismo e nei vari cristianesimi siano prevalse sfumature differenti.

Confesso di prediligere, senza dubbio in modo arbitrario, fra tutte queste possibili spiegazioni, la resa di salvezza con integrità, nel senso di scoperta e preservazione di tutto ciò che ci rende pieni, realmente umani, sia come singoli che come specie, come umanità tutta, senza sognare necessariamente l’impossibile.

Proprio per questo trovo che, paradossalmente, la medicina più “salvifica”, in quasi tutti i campi delle nostre esistenze, sia il pensiero critico, soprattutto all’epoca della rivoluzione digitale e della comunicazione in rete, veicolo di molte narrazioni in apparenza forti e certe, e in realtà, il più delle volte, decisamente fatue, transeunti, inconsistenti e sopravvalutate.

Sicuramente un posto di rilievo, nell’immaginario di molti, lo occupano in tal senso le molte teorie della cospirazione, che identificando il male in maniera netta e inesorabile, annunciando al tempo stesso come difenderci da esso, in nome di ragioni che sanno molto più di credenza che non di conoscenza. In tutti i fautori di grandi teorizzazioni, che ci consegnerebbero grandi “verità”, prevale un’idea della salvezza come “sicurezza”, in fin dei conti quasi una sorta di “gnosi”, ossia la convinzione che, possedendo dei grandi sistemi di verità, si sia di conseguenza al sicuro, in qualche modo “salvi”.

Mi dispiace dire, però, che mi colpisce sempre più, in maniera quasi altrettanto forte, l’ondata di narrazioni diffusesi in rete e perciò nella nostre cultura, spesso in risposta ai “cospirazionisti”, che rischiano di cadere nei medesimi vicoli ciechi, sia di natura teorica che pratica. E ciò accade soprattutto quando non si padroneggia la distinzione tra credenza e conoscenza, e quando si hanno idee confuse sul metodo scientifico e sulla grande diversità esistente tra una scienza e l’altra. E infatti le cose che sto per dire normalmente non accadono ad opera di scienziati, ma di frequentatori della rete magari di una certa cultura e tuttavia sprovvisti delle necessarie nozioni di teoria della conoscenza (che a scuola, purtroppo, non si insegnano o si insegnano male).

Procedo con un esempio. Io posso “credere” o meno che una determinata politica economica guiderà il mio paese nella giusta direzione. Se i fatti “verificheranno” in maniera chiara e netta che la mia credenza era giustificabile, allora la mia credenza si trasformerà in “conoscenza”, con la quale è sempre possibile dare ragione di ciò che sta nel passato (sebbene modelli alternativi possano spiegare a volte con analogo rigore i medesimi fenomeni). Quanto a compiere previsioni per il futuro, però, la mia conoscenza è sì necessaria per formulare modelli, ma siccome nessun contesto è mai del tutto identico, le mie previsioni potrebbero risultare disattese, anche di molto. Perciò, in un certo senso, la mia conoscenza, quando la utilizzo per prevedere il futuro tramite determinate discipline, torna ad avere componenti di “fede”, di “credenza”.

Per questo è sempre importante, soprattutto nelle “scienze umane e sociali”, non solo ricorrere a modelli consolidati, ma anche mettere in discussione costantemente tutto, scandagliando il presente con ogni strumento a disposizione per individuare possibili modelli migliori, alternativi, forse addirittura in contraddizione con quelli vigenti e imperanti.

Questo, tuttavia, vale anche per le “scienze naturali” e quelle “applicate”, che pure dispongono di una base per molti versi più solida rispetto a ogni altra disciplina scientifica e umanistica (il che non vuol dire, sia chiaro, che queste ultime siano meno importanti per le nostre vite delle “scienze dure”!).

Prendiamo l’esempio (su cui siamo tutti molto sensibili) dei cambiamenti climatici, su cui mi paiono regnare ovunque fin troppe certezze, soprattutto tra chi non ha una formazione in discipline scientifiche affini a quelle della metereologia e della fisica del clima.

Chi nega che siamo in una fase di crescente riscaldamento globale nega un fatto, ovverosia una realtà chiaramente misurabile e sui cui nessuno scienziato al mondo obietta. In questo senso, il “negazionista” del riscaldamento globale è simile al “negazionista” degli effetti fortemente nocivi del Covid-19, ormai corroborati da tutta una serie di dati, in ogni angolo del mondo.

Esistono tuttavia vari modelli per rendere ragione del fenomeno, nessuno dei quali è, in senso assoluto, “verificabile”, a causa del fenomeno stesso (il “sistema Terra”, per dirlo semplicemente, può essere assai difficilmente riprodotto in laboratorio…). E alcuni modelli (al momento minoritari), sostenuti non da multinazionali della cospirazione, ma da gruppi di scienziati credibili di varie parti del mondo, palesano la convinzione che la responsabilità umana non sia la matrice principale (pur senza negarne un contributo) dell’attuale parabola dei mutamenti climatici su scala planetaria.

Infine, un certo numero di scienziati, a prescindere dall’analisi delle cause del riscaldamento globale, dubita che sia possibile cambiare l’attuale tendenza intervenendo con politiche volte alla riduzione delle emissioni di determinati gas. Con questo nessuno studioso serio intende invitare i governi mondiali a infischiarsene dell’ecologia, dell’economia circolare, dello sviluppo sostenibile e di tutte quelle idee meravigliose che ci fanno sentire parte dell’intero mondo naturale e della storia intergenerazionale e che danno dunque un senso e una qualità migliore al nostro vivere. È tuttavia legittimo sollevare dubbi, perché i modelli scientifici più importanti si sviluppano proprio a partire dalla capacità immaginativa, critica, dei grandi scienziati.

Albert Einstein costruì la sua teoria più famosa, la relatività generale (su cui mi sono laureato in fisica ormai molti anni fa), a partire da idee non tratte in alcun modo dall’osservazione della realtà o dall’accettazione delle teorie imperanti, ma grazie alla sua capacità di pensare criticamente, di interrogare e interrogarsi, detto altrimenti di dubitare, che lo spinse a formulare ipotesi che risulteranno decisive in molti campi della fisica. E, come è noto, ben lungi dall’accettare come un “fatto” la teoria quantistica, ne fu un accanito avversario fino all’ultimo dei suoi giorni.

Se poi parliamo dell’ambito della conoscenza religiosa, qui il ruolo del dubbio, del pensare, si fa ancora più delicato e paradossalmente più cruciale e decisivo. Se infatti in ambito religioso, come dice in maniera molto profonda la Lettera agli Ebrei, è la fede a essere “fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede” (Eb. 11,1), è importantissimo che ogni “conoscenza” religiosa sia costantemente aperta al pensiero critico ed esposta alla capacità di dubitare e di immaginare un altrimenti.

La fede, ciò in cui crediamo, ha infatti un potere enorme sulle nostre vite, un potere di generare vita o morte per noi e per gli altri. E la fede può diventare conoscenza solo attraverso un lungo e meticoloso cammino di verifica, senza dogmatismi, restando costantemente aperti all’altro, perché non ci può essere salvezza umana in cui anche un solo essere umano sia diminuito, escluso, ignorato o calpestato. E allora è fondamentale la capacità del credente di dubitare, per non generare pensieri totalizzanti, non capaci di comunicare (e di comunicare vita e speranza) e di includere, perché il dubbio è il vero motore che fa crescere ed evolvere costantemente la conoscenza umana, compresa quella che scaturisce dall’esperienza religiosa.

Ecco allora che un meccanismo fondamentale, da applicare in ogni campo del sapere e in ogni convinzione umana, anche a quelli dai fondamenti più solidi come le scienze naturali e applicate (i cui campi di applicazione sono comunque sempre molto circoscritti e limitati), è quello del dubbio, dell’interrogarsi sulla relatività di qualsiasi cosa stiamo affermando, non per rimanere senza leggi o senza norme, senza bussole per le nostre vite, ma per non spegnere quella fiducia di base nella comune umanità, che è tale proprio perché cade e si rialza, sbaglia e si corregge, pensa, dubita e talvolta rivoluziona le proprie convinzioni e conoscenze, e soprattutto si compone di una miriade di attività, esperienze e competenze che si integrano e arricchiscono a vicenda.

In rete, ma non solo, il veleno delle convinzioni radicali, apodittiche, del “noi sappiamo e voi non sapete” è penetrato ormai ovunque. Ma forse è giunto il momento di compiere ogni sforzo per comprendere che la nostra salvezza o è salvezza di ogni essere umano, dell’umanità tutta, o non è degna di tal nome. E la capacità di dubitare ne è probabilmente la chiave di accesso più efficace. Sicuramente quella di cui abbiamo più bisogno in un tempo di lacerazioni che finiscono per ridurre la nostra stessa integrità personale.