Il genere di educazione che offriremo alle generazioni future dipenderà soprattutto da cosa riteniamo veramente importante nella vita. I filosofi dell’antica Grecia coniarono un termine decisamente interessante per parlarne: eudaimonia, che si potrebbe tradurre letteralmente con “buon demone/genio”. Ma quale dovrebbe essere il buon genio delle nostre vite? La traduzione classica di eudaimonia con “felicità” in realtà è fuorviante, dato che rischia di farci sostituire all’essenza più profonda dell’eudaimonia uno dei suoi possibili frutti, di farci scambiare i fini con i mezzi. Per questo è forse meglio rendere tale vocabolo con una gamma più ampia e ricca di termini, compresi “compimento” e “realizzazione”.

Se lo scopo principale delle nostre vite è l’autorealizzazione o il compimento di noi stessi, allora i sistemi educativi più adeguati dovrebbero averlo ben in mente quando sviluppano curricula, metodologie dell’apprendimento e strategie formative per chi in futuro sarà chiamato al ruolo di docente. Sebbene infatti si possa concordare sul fatto che il mondo in cui viviamo è complesso e richiede una molteplicità di approcci in ogni ambito delle nostre esistenze, compresa l’istruzione, è importante disporre di alcuni principi fondamentali che aiutino a dar forma alla nostra visione delle scuole, delle università e dei centri di formazione del futuro.

Ed è proprio qui che si materializzano sfide e insidie. Nel caso dei nostri sistemi di istruzione scolastica, i bisogni che abbiamo appena citato hanno portato dapprima a passare da un’educazione basata sui contenuti a una istruzione basata sulle abilità, quindi allo sviluppo di programmi di orientamento professionale negli istituti dediti all’educazione secondaria e superiore. Il principio soggiacente a queste innovazioni sulle prime pare giusto ed è fondamentalmente orientato al mercato del lavoro: come aiutare i nostri figli e le nostre figlie a trovare un lavoro adatto quando termineranno il loro cammino educativo? In taluni ambienti questo aspetto ha assunto un tale rilievo da portare, per quanto possa suonare bizzarro, alla creazione di programmi di orientamento professionale già durante l’istruzione primaria… Tutto ok? Non ne sono sicuro, e con me sono perplessi molti educatori di tutto il mondo, soprattutto europei, i quali hanno incominciato a scrivere appelli perché un modello di tal genere venga rivisto. Perché? Non è forse bene ritenere il futuro lavoro dei nostri figli e delle nostre figlie l’obiettivo più importante, e quindi fornire loro le competenze che li aiuteranno a sopravvivere in un mondo e un mercato del lavoro decisamente difficili?

Il problema fondamentale è che gli adulti ragionano sempre più a partire dal presupposto che vi siano “buoni lavori” (ovverosia che assicurano un buon reddito e/o prestigio) e quindi le giuste competenze ad essi associate. Essi operano inoltre nel quadro di un principio liberale molto seducente: ognuno di noi può scegliere cosa essere, nonché a partire da uno dei corollari (non provati) di tale principio: a patto di avere gli strumenti giusti e abbastanza forza di volontà, tutti possiamo ottenere quello che vogliamo.

Di fatto, però, ai giovani studenti vengono presentate nozioni prefabbricate di ciò che è buono e ciò che non lo è, sia in generale che per ciascuno di loro, piuttosto che permettere loro di scoprire cosa sia meglio individualmente e direttamente, anche da un punto di vista professionale; le “giuste competenze” sono quelle in linea con la società “adulta” e devono essere introdotte il prima possibile. Più preoccupante è tuttavia il fatto che lo schema proposto è adatto ai “vincitori” e non ai “perdenti”. I bambini vanno costantemente incoraggiati e valutati positivamente per far sì che realizzino le grandi cose che ci si aspetta da loro, e molto poco è pensato per coloro che non ce la fanno nella società secondo i modelli proposti. Nella mia carriera di educatore mi sono imbattuto sempre di più in adolescenti che non hanno la più pallida idea di quello che vogliono fare e in genitori che cercano di costringerli (più subdolamente e con meno violenza visibile rispetto al passato) nella “giusta direzione”, possibilmente proiettando su di loro le proprie frustrazioni e insicurezze. E mi imbatto sempre di più in adulti che non sanno come affrontare il fallimento.

Ciò che finisce per essere fortemente preso sotto gamba in un approccio simile è la diversità delle intelligenze e delle aspirazioni umane, che anche in una società globalizzata, che impone ovunque uniformità, non può essere trascurata. Ed è fondamentalmente l’eudaimonia. Perché? In parte perché, a causa della forte enfasi sulla libertà nelle nostre società, consideriamo con sospetto chiunque instilli dubbi o faccia intuire limiti, in qualsiasi modo, nei cuori delle persone: tutti abbiamo il diritto di sognare ciò che vogliamo per noi stessi e nessuno dovrebbe dirci cosa fare, poiché ciò rappresenterebbe una ferita insopportabile inflitta alla nostra autostima; qualsiasi persona che possa contraddire le nostre aspirazioni è un nemico della libertà, o una sorta di guru che sta cercando di indottrinare i nostri figli.

Ma non abbiamo dimenticato qualcosa di vitale? Nell’antica Grecia la gente visitava gli oracoli per interrogarli sui principi fondamentali della vita. Coloro che si recavano per questo motivo al Tempio di Apollo a Delfi restavano subito colpiti dalle parole incise al suo ingresso: gnothi seauton“conosci te stesso”. Fin da allora questo motto è stato considerato il pilastro principale della saggezza umana, come dimostra l’incredibile mole di libri scritti sull’argomento, nonché l’ancor più sorprendente quantità di citazioni del celebre oracolo di Delfi.

Lungo gli anni mi sono convinto, come consulente e manager dell’apprendimento e dell’educazione, che questo dovrebbe essere uno dei due principi fondanti di tutti i nostri sistemi scolastici (l’altro è la necessità di scoprire e conoscere con passione, attraverso cammini di apprendimento, il mondo esterno). Per questo ritengo che la grande enfasi, seppur interessante, posta sull’orientamento professionale andrebbe ripensata in termini di accompagnamento dello sviluppo. Le varie fasi della scolarizzazione e della formazione dovrebbero aiutare i nostri figli e le nostre figlie a scoprire se stessi, indipendentemente da ciò che la società propone o vuole per loro, e a scoprire il mondo. In tal modo toccherà a loro, e ai loro sforzi personalissimi, l’unione delle due: la conoscenza di sé e il corretto apprezzamento del mondo esterno, il tutto al fine di raggiungere la loro realizzazione personale.

Come tradurre tutto questo in modelli di istruzione prescolare, primaria, secondaria, superiore e continua? Come implementarlo nelle scuole pubbliche e private (per non parlare delle aziende!)? Come fornire tutoraggio e accompagnamento? Come possono collaborare in questo senso genitori e pedagoghi, datori di lavoro e dipendenti? Quali sono gli ostacoli principali sul cammino verso un giusto apprezzamento dell’eudaimonia e dell’accompagnamento dello sviluppo?

Questo è il nostro compito, e questo è ciò che credo si debba sostenere e promuovere. Ed è il motivo fondamentale per cui è nata Larini² educazione: mettetevi in viaggio con noi!