Come probabilmente avrete appreso da varie fonti di informazione, da oggi ha ufficialmente preso avvio ad Albiano d’Ivrea l’avventura di Casa della Madia. Quattro ex fratelli (Claudio, Giovanni, Goffredo e Maurizio) e due ex sorelle (Antonella e Laura) di Bose, una volta rassegnate formalmente le dimissioni dalla comunità di origine, hanno deciso di seguire Enzo Bianchi, fondatore della storica comunità monastica ed ecumenica piemontese, in questa nuova avventura.

Non è la prima volta che, per un motivo o per l’altro, alcuni membri di tale comunità “sciamano” verso nuove avventure comunitarie. Né ovviamente si tratta di un fenomeno inconsueto nella storia della vita religiosa, sia in seno alla chiesa cattolica sia in seno ad altre denominazioni. Anzi, quando un’esperienza cenobitica ha alle spalle un po’ di storia, si tratta di una tendenza piuttosto normale.

Al di là di singoli membri di Bose che hanno lasciato negli anni la comunità per intraprendere cammini diversi di vita religiosa – tre sorelle e un fratello professi in tutto fra il 1978 e il 2004 – nel 2009 è avvenuta la prima uscita di gruppo di quattro sorelle, due delle quali (Donata e Laura) conducono tuttora vita monastica in provincia di Arezzo. La seconda uscita non individuale è avvenuta invece nell’ottobre del 2021, quando il consiglio della Comunità di Bose ha concesso formalmente l’autonomia alla fraternità di Cellole, dove vivono da allora quattro ex fratelli (Adalberto, Dario, Emiliano e Valerio) e una ex sorella (Natalia) di Bose.

I processi di ridefinizione dell’identità e della composizione di esperienze che assumono una durata temporale significativa e proporzioni analoghe a quelle di Bose non sono ovviamente mai semplici. All’apice del suo sviluppo e della sua fama, infatti, la comunità fondata da Enzo Bianchi è arrivata a superare alcuni anni fa le ottanta unità (tra professi e novizi), con quattro fraternità contemporaneamente attive, oltre alla casa madre di Magnano. Nella sua storia, per inciso, più di settanta persone hanno emesso i voti monastici definitivi.

Due anni fa, come sapete, ho scritto vari articoli e addirittura un libro per cercare di spiegare al grande pubblico – ma soprattutto a quanti hanno amato Bose per molti anni – sia la ricchezza dell’intuizione e della tradizione bosina, sia il progressivo dispiegarsi di problemi culminati con lo scriteriato intervento della Santa Sede.

Alla luce di tutto ciò che è accaduto negli ultimi anni, delle confidenze fattemi da diversi protagonisti delle tristi vicende recenti occorse alla comunità fondata da Enzo Bianchi, nonché di quel poco di storia e tradizione monastica che ho studiato e sperimentato, oggi credo che mi sia possibile condividere alcune riflessioni che per certi versi costituiscono il complemento o il coronamento di quanto ho detto e scritto nel 2020 e nel 2021.

Il primo elemento di riflessione, che sta alla radice di tutto il resto, è che tanto in una comunità quanto in un rapporto di coppia, le crisi esistono ed esisteranno sempre. Per questo è importante creare strumenti che aiutino a fare emergere le tensioni e a risolverle quando ancora è possibile. Nel mio libro ho parlato in tal senso dei tentativi che la comunità compì a inizio nuovo millennio per dotarsi di strumenti di dialogo interno e supervisione esterna di cui almeno alcuni suoi membri avvertivano ormai il bisogno, anche e forse soprattutto alla luce della progressiva diversificazione delle sensibilità umane avvenuta con l’ingresso di nuove generazioni di sorelle e di fratelli. Quanto accaduto negli ultimi vent’anni, segnati da un crescente numero di abbandoni individuali e dall’emergere sempre più marcato di una differenziazione di visioni della vita monastica, è conferma del fatto che gli strumenti abbozzati a Bose non sono stati sufficienti, e che invece è prevalsa la tendenza a sottostimare le crisi e la tentazione di rispondere alle difficoltà ricompattando in vari modi la comunità, malgrado i molteplici campanelli d’allarme che emergevano in misura più o meno percettibile.

Il secondo elemento, ancora più fondamentale, è che nelle alleanze umane è sempre possibile che si giunga a un punto di non ritorno, di vera e propria rottura. Succede nelle coppie sposate – dove tra divorzi, separazioni legali e separazioni di fatto sopravvive alla prova del tempo in Italia ben meno della metà delle unioni – e in maniera molto marcata anche nella vita presbiterale e religiosa, sia maschile sia femminile. Questo è sicuramente accaduto anche a Bose, secondo alcuni a qualche mese di distanza dal passaggio di consegne tra Enzo Bianchi e Luciano Manicardi nel 2017, secondo altri già dopo la visita fraterna di Michel Van Parys e Emmanuelle Devêche del 2014, per altri ancora addirittura già nel 2010.

Il terzo elemento, collegato al secondo, è che nella chiesa, purtroppo, quando delle alleanze sono ormai giunte al punto di rottura e di non ritorno, invece di accompagnare con sapienza e umanità le varie parti affinché ognuna prosegua il proprio cammino ormai separato nella pace (eventualmente imparando dai propri errori), si continua ancora oggi ad arrogarsi a tutti i costi un potere di giudizio che finisce pressoché inesorabilmente per attribuire tutte le colpe ad alcuni (trasformati in veri e propri capri espiatori) e a intervenire in maniera definitoria, definitiva e lacerante. Il fallimento è sempre equiparato al peccato, e addirittura (si pensi ai divorziati risposati) a un peccato sostanzialmente “imperdonabile”.

Manca profondamente, in particolare nel cattolicesimo, una seria capacità di mediazione umana, e la vicenda Bose ne è un chiaro esempio. Al radicalizzarsi di problemi, divisioni e sofferenze, l’autorità religiosa non ha mai saputo creare vere occasioni di dialogo, ma ha preferito seguire altre vie.

Nella fattispecie dapprima ha raccolto, in riunioni segrete che si sono succedute a più riprese nel 2018 e nel 2019, opinioni di leader della vita tradizionale religiosa fortemente ostili alla stessa Bose e al suo fondatore, integrate al massimo dai pareri di alcuni presunti “conoscitori” della comunità che in realtà avevano avuto ben poco a che fare con essa nella loro vita.

Quindi ha organizzato ufficialmente una visita canonica guidata da uno studioso della vita religiosa noto per le sue posizioni ideologiche e ricette di “guarigione” fortemente opinabili, standardizzate e del tutto indipendenti dall’ascolto delle situazioni concrete. Con l’aggravante di essere stata una visita i cui esiti erano palesemente stati decisi ancor prima che i visitatori mettessero piede sulle colline biellesi.

Infine ha nominato quale esecutore della propria strategia radicale, inumana e inevitabilmente foriera di ulteriori sofferenze, un presbitero senza alcuna esperienza concreta di vita monastica o comunitaria, che per di più applica da anni tecniche psicoterapeutiche a un campo in cui sarebbe opportuno non confondere mai la religione con la terapia.

Qualcuno potrebbe chiedermi: ma perché rivangare tutte queste cose? In fondo si è giunti laddove si sarebbe giunti comunque, anche senza l’intervento di don Cencini e di coloro che hanno spinto perché si facesse esecutore di tutto ciò che è accaduto. Finalmente, poi, la sua missione devastante durata più di tre anni è finita e al suo posto la Santa Sede ha nominato Michel Van Parys – monaco esperto, uomo illuminato e che tutte le parti coinvolte nelle vicende degli ultimi anni rispettano da sempre – quale “assistente ecclesiastico” della comunità di Bose, il quale auspicabilmente promuoverà futuri cammini di riconciliazione.

Sì, è vero, probabilmente si sarebbe giunti comunque a una suddivisione della comunità in più nuclei, ognuno desideroso di continuare a vivere secondo la medesima Regola, interpretata secondo sensibilità e alla luce di valori e priorità differenti. (Sebbene va detto che la chiesa cattolica, per ora, ha riconosciuto pienamente uno solo di tali nuclei: da molti mesi, ormai, il nuovo vescovo di Volterra continua a non conferire un riconoscimento ufficiale alla comunità di Cellole, lasciandola in un limbo giuridico nonché economico estremamente pericoloso; per quanto riguarda invece Casa della Madia, l’autorità religiosa ha cercato in tutti modi di ostacolare la scelta di alcuni fratelli e sorelle di seguire il fondatore di Bose per vivere con lui e ha invitato esplicitamente i vescovi italiani a fare terra bruciata attorno a Bianchi e compagni).

Nel frattempo, però, troppe persone hanno sofferto, molto più di quanto già non dovuto di per sé alla fine di un’alleanza. Molti fratelli e sorelle hanno lasciato Bose dopo parecchi anni (a volte decenni) di vita monastica perché distrutti dalle vicende più recenti, dovute anche e forse soprattutto agli interventi della Santa Sede, e si sono trovati a fare i conti con la notevole difficoltà rappresentata da un reinserimento “nel mondo” in età non più giovane, per di più quasi sempre accompagnati dallo stigma o la macchia di essere venuti meno a un voto fatto a Dio (perché su questo, ancor oggi, nella chiesa si perdona raramente, anche a livello delle nostre piccole comunità locali…).

Perciò è sicuramente bello poter dire che, anche grazie alla presenza di padre Van Parys, ora si può guardare avanti non tanto a improbabili ricongiungimenti, quanto piuttosto a seri cammini di riconciliazione. E chi ha amato e ama Bose non può che gioire profondamente di questa cosa.

Resta però la necessità da un lato di interrogarsi a livello dell’intera comunità ecclesiale – e di ciascuno dei nuclei rimanenti dell’esperienza bosina – su quali siano gli strumenti necessari a rendere oggi praticabile una vita comunitaria che non venga percepita da nessuno come oppressiva della propria libertà e personalità, e questo ben al di là del tema degli abusi (veri o presunti) dei fondatori, che non è possibile mettere tutti sullo stesso piano come hanno fatto varie teste benpensanti del mondo ecclesiastico (peraltro appartenenti a comunità presbiterali o religiose colme di scheletri nei loro armadi…).

Oltre a ciò, è lecito e giusto chiedere conto agli esseri umani di tutto ciò che hanno fatto, soprattutto quando è stato messo nelle loro mani un potere pressoché assoluto per risolvere una situazione estremamente delicata, che hanno esercitato con arroganza e presunzione, senza cercare vie reali di dialogo e riconciliazione, ma aggiungendo sofferenze ulteriori a quelle già in atto prima del loro arrivo.

Infine credo che emerga un’esigenza epocale per la chiesa: quella di imparare, una volta per tutte, a gestire i fallimenti delle alleanze umane senza esprimere giudizi mortiferi e definitivi, anche quando tali alleanze sono state sancite da voti emessi in nome dell’Altissimo o alla sua presenza. Per fare questo bisogna che la chiesa riconosca che nessuna autorità umana può essere mai sacralizzata, e che in ogni cosa l’ultima parola spetta solo a Dio e al rapporto che ciascuno di noi intrattiene con lui nella propria coscienza.

Un grande padre della chiesa, Teofilatto di Ocrida (1050-1109), ammoniva i propri correligionari a non giudicare mai nessuno con un giudizio definitivo, perché un simile giudizio spetterà solo a Gesù Cristo quando tornerà alla fine della storia. Anzi, chiamava addirittura “anticristo” chi emetteva giudizi di tal genere, perché così facendo usurpava il posto del Signore.

Mi pare che abbiamo ancora molta strada da fare non solo per vivere di più il vangelo, ma quanto meno per non impedire al vangelo stesso di essere l’unica e ultima vera parola di vita. Sempre che ci crediamo.

Io nel frattempo auguro di tutto cuore alle donne e agli uomini che hanno fatto la professione monastica a Bose, che vivano ad Albiano, ad Assisi, a Bose, a Cellole, a Civitella San Paolo, a Ostuni, a Tartiglia, per loro conto o in nuove fondazioni a venire (compresi quanti hanno deciso di abbandonare la vita monastica), di vivere una vita realmente serena di trasformazione interiore, di sequela del Signore Gesù Cristo e di comunione profonda tra loro e con l’umanità e il cosmo intero.