“Il messaggio di Gesù è diverso da quello del cristianesimo. L’annuncio del cristianesimo è la morte, la risurrezione e la nuova venuta di Gesù. Il messaggio di Gesù è fondato su un verbo all’indicativo, il regno di Dio «è» imminente, da cui consegue un imperativo: convertitevi, cambiate vita. Il suo messaggio è la profezia, l’utopia, il mondo come dovrebbe essere, ovvero caratterizzato dalla giustizia. Per Gesù la giustizia è il valore più alto, ancora più dell’amore. E la costruzione della giustizia è l’impegno di tutti.” (Vito Mancuso)

Ci conosciamo da più di venticinque anni con Vito Mancuso e ci stimiamo reciprocamente (almeno posso dire, per quanto mi riguarda, di essere un suo grande estimatore) per molti motivi. Di lui ammiro, tra l’altro, l’itinerario sincero, limpido, che lo ha portato a una fede non scontata, pensata, profonda, nonché, come lui stesso afferma, in certo qual modo al di là del cristianesimo, in maniera analoga seppur diversa dal mio itinerario personale.

Mancuso è, a mio modesto parere, un uomo di grande conoscenza, e ancor più di pensiero, volendo seguire la nota distinzione kantiana tra queste due attività dello spirito. La conoscenza rileva, attesta, riproduce. Il pensiero interroga, esplora, formula ipotesi e intravvede nuove vie e soluzioni.

Confesso di non avere ancora letto il suo nuovo libro, e dunque che è possibile fraintendere la sua citazione con cui si apre questo mia breve riflessione. Ma non importa, visto che voglio assumerla come un’occasione per riflettere con lui e con voi, sia sottolineando ciò che coindivido, sia esprimendo qualche divergenza. Sono sicuro che Vito, da buono studioso di Hegel, apprezzerà forse ancor di più gli elementi dialogici di divergenza di ciò che scrivo rispetto a quelli di consenso.

Innanzitutto, mi pare fondamentale cogliere la verità profonda della sua prima affermazione: “Il messaggio di Gesù è diverso da quello del cristianesimo”. Questo non per creare contrapposizioni ideologiche o radicali, ma molto semplicemente perché si tratta di un dato di fatto, basilare per chiunque abbia studiato i meccanismi della creazione dell’identità e dell’interpretazione del passato.

Senza entrare troppo in dettagli tecnici, si può dire che, dopo che Gesù morì, la sua esperienza fu ricordata da chi gli aveva vissuto accanto, capendolo (e fraintendendolo…). Il ricordo, accompagnato da gesti e segni che lui stesso aveva praticato (il battesimo del Battista, lo spezzare il pane), generava senso e costituiva già un’interpretazione, dunque un rinnovamento della sua esperienza in altri, “altrimenti”. Per questo stesso  motivo in continuità ma con accentuazioni diverse, secondo il modo di essere dei suoi interpreti.

Come accade il più delle volte nella storia, le tracce scritte di una tradizione compaiono in una fase ancora ulteriore, quando iniziano a scomparire i testimoni oculari e diventa necessario strutturare la memoria. E ogni strutturazione della memoria ha un suo Sitz im Leben, un contesto che determina le domande a cui il componimento scritto risponde. E ogni contesto ha domande diverse, da cui i ritratti diversi di Gesù che emergono dagli scritti del Nuovo Testamento.

Infine giunge una terza fase, quella della “canonizzazione” della tradizione, nel senso della trasformazione di (una parte di) essa in norma, con tanto di criteri di lettura, “credo”, simboli di fede. Qui nasce il cristianesimo come confessione, operando una cernita tra le interpretazioni esistenti, e definendo un quadro “ortodosso” che determina i confini di appartenenza alla comunità chiamata “chiesa”.

Di per sé questo è umanissimo, secondo alcuni (non il sottoscritto, che ritiene si siano perse e si perdano troppe sfumature seguendo questa via) necessario, e l’importante è che anche le “ortodossie” continuino a ridiscutersi e ridefinirsi alla luce dell’origine, compiendo ogni possibile sforzo in tale direzione. Non di meno, il messaggio di Gesù è indubbiamente diverso da quello del cristianesimo, secondo una tensione molto salutare. Il cristianesimo (Paolo ma non solo) diede un senso ben preciso alla sua passione e morte, un senso che Gesù stesso probabilmente non aveva intravisto, o che al massimo aveva intuito solo vagamente.

Quello che però mi pone in (parziale) disaccordo con l’interpretazione che Mancuso compie di Gesù, è la sintesi del suo messaggio: “Il suo messaggio è la profezia, l’utopia, il mondo come dovrebbe essere, ovvero caratterizzato dalla giustizia…” e soprattutto l’affermazione che chiude tale sintesi: “…per Gesù la giustizia è il valore più alto, ancora più dell’amore“. E qui si apre il dialogo e il confronto.

Chi ha studiato a fondo o anche solo letto parzialmente l’abbondantissimo materiale sul problema del Gesù storico sa bene che siamo in un campo in cui regnano pochissime certezze, a motivo anche del tipo di fonti che ne veicolano la storia e il messaggio. Proprio in queste settimane, ad esempio, sto traducendo un’importantissima monografia sul vangelo di Matteo che dimostra in maniera abbastanza convincente come la menzione in quello scritto della “giustizia” più grande di quella dei farisei sia ben poco farina del sacco di Gesù, e molto della comunità soggiacente al primo vangelo, che era verosimilmente una “setta” giudaica.

Volendo però isolare alcuni elementi essenziali, è importante cogliere l’annuncio fondamentale di Gesù in tutta la sua interezza: “Il regno di Dio sta arrivando/è arrivato, convertitevi e credete al vangelo“. Ho reso in corsivo ciò che Mancuso omette, credo a torto, rischiando da un lato di equiparare Gesù a Giovanni Battista (di cui fu quasi certamente discepolo), e dall’altro di non cogliere il nucleo della giustizia che Gesù richiede, che si fonda proprio sull’amore misericordioso di Dio, come testimoniano, accanto a altri elementi su cui non mi dilungo, molte parabole che sono quasi certamente attribuibili al Gesù storico.

Certo, è vero: è stato Paolo a “inventare” espressioni e brani molto forti (e meravigliosi, lo dico perché altrove sono meno generoso nei confronti del suo ruolo di “creatore” di un certo cristianesimo) che parlano della katallaghè, dello “scambio a perdere” con cui Dio, nella sua misericordia, si è chinato sugli esseri umani perdonandoli e consentendo loro in tal modo di creare giustizia e riconciliazione.

Gesù accettò probabilmente di morire per fiducia in Dio, non perché pensava in tal modo di compiere il “meraviglioso” scambio che avrebbe salvato l’umanità. Ciò nonostante, i suoi gesti e discorsi fondamentali parlano di una “buona notizia”, di un chinarsi di Dio su di noi che genera e ripristina le condizioni della giustizia a cui Dio stesso chiama tutti e ciascuno.

La giustizia a cui chiede di convertirsi si può realizzare solo, apprendiamo dalla figura di Gesù, tramite la mitezza e l’amore misericordioso, che sono il cuore del vangelo. Anzi, la giustizia che Gesù esige è una cosa sola con la mitezza e l’amore misericordioso e fedele.

Mi pare molto significativo che il quarto evangelista abbia avvertito il bisogno di mutare il “più grande comandamento” dei sinottici da “amate Dio e amate il prossimo” in “amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati”, cioè servendo, dando la vita. Non solo, mi pare fantastico che, quando probabilmente in alcune comunità lo spezzare il pane era  già diventato un fatto molto “ritualistico”, Giovanni decise di non presentare tale gesto durante l’ultima cena, ma di sostituirlo con la lavanda dei piedi.

In realtà, non conosciamo con molta precisione che cosa comporti la giustizia che Gesù predicò. Anche la sua halakhah, come la chiamavano i rabbi, non ha contorni certi. Quello che trapela con molta chiarezza è la via che porta a tale giustizia, fatta di abbassamento e di misericordia. Dunque di amore.

Ovviamente rimane lo scandalo: Gesù predicò l’imminenza del regno, dell’intervento misericordioso di Dio teso a ristabilire ogni giustizia, risollevando tutti i deboli, i poveri, gli umiliati. E a distanza di duemila anni non pare si siano fatti molti progressi in questa direzione. Questo è un problema enorme per chi vuole giustificare il cristianesimo.

Non di meno, l’Avvento può essere un tempo anche laico, secolare, per porsi in vigile attesa delle possibili vie di giustizia che possono manifestarsi in ogni momento, in ogni frangente delle nostre vite. Perché, parafrasando Nicolas Malebranche,  potremmo dire che “l’attenzione è la preghiera laica, naturale, che rivolgiamo alla verità e alla giustizia perché ci rivelino le loro vie”. Il regno di Dio, in qualche frammento, è già lì che ci attende. Lo è laddove ci convertiamo con attesa paziente alle tracce di verità e giustizia che si celano nel quotidiano. Ma lo è ancor di più, secondo il Nazareno, quando serviamo il prossimo nella mitezza, con misericordia e amore, per gettare ponti sugli abissi di non senso della vita.