Il destino ha voluto che quest’anno trascorressi il Venerdì Santo sul mare, lontano da terra, da nazioni e grandi folle. Amo molto la rotta che collega Travemünde a Helsinki, servita non da navi da crociera ma da trasporto merci, con una limitata capacità per quanto riguarda i passeggeri comuni. Poca gente, grandi spazi e silenzi a disposizione, trenta ore di viaggio nel Mar Baltico, pochi volti che si incrociano e che quasi ci si illude di iniziare a conoscere e riconoscere. Camminate, sorrisi, gioie e tristezze, pensieri… l’umanità concreta e variegata, con i suoi sogni e le sue preoccupazioni, le sue abitudini e qualche rara irruzione di novità e sorprese.
Ho fatto colazione la mattina in un tavolino posto a prua della nave, senza nessuno che mi impedisse di guardare verso l’orizzonte e di riflettere, con un mare leggermente mosso e ripetitivo, come una sorta di eterno salvaschermo nel mio viaggiare verso un futuro incerto. E ancora una volta ho cercato di far tesoro di un tempo – il Triduo pasquale – che da sempre è per me al cuore della mia esperienza non solo cristiana, ma anche umana.
Già ho detto qualcosa riguardo ai profondi e inquietanti interrogativi sollevati dall’epoca presente, in particolare per quanto riguarda la riduzione della forza e degli orizzonti della ragione umana. Ho cercato, come sempre, di non fermarmi alle emozioni e alle polarizzazioni del momento, rinvigorite (mai come in occasione di quest’ultima, stramaledetta guerra) dai meccanismi perversi e distorsivi di Internet, per guardare un po’ più lontano, verso una comprensione di come la ragione moderna e postmoderna sia ora messa in crisi da quella che ho definito la tentazione di una “Intelligenza 3.0”, che riducendo tutto a meccanismi binari torna, in maniera molto preoccupante, a fare spazio di frequente alla violenza (verbale e non solo) o all’abbandono come metodi di “soluzione” delle naturali divergenze di vedute e di opinione.
Oggi, però, in questo giorno per me davvero speciale (chiamatelo “santo”, se volete), ho meditato a lungo sul ruolo delle religioni, e in particolare del cristianesimo (in quanto religione a cui in un certo senso mi sento di appartenere, pur come “diversamente cristiano”). Come ho segnalato sulle mie pagine, cristiani molto saggi e competenti come Adalberto Mainardi e Enzo Bianchi hanno offerto alcune prospettive lucide e delle possibili interpretazioni del (non) ruolo dei cristiani nel conflitto russo-ucraino. A loro rimando sempre con piacere, conscio tra l’altro delle intenzioni sempre disinteressate e costruttive del loro studiare e avanzare analisi e proposte. Ma qui vorrei fare un discorso più radicale da seguace del Nazareno. Un discorso che, ne sono consapevole, potrebbe scuotere lettrici e lettori. Ma a volte è bene scuoterci dal torpore umano e spirituale in cui rischiamo di cadere.
Partiamo da una constatazione relativamente ovvia e semplice. Nel mondo “occidentale” (perché è sempre poco intelligente generalizzare le nostre analisi e periodizzazioni della storia a mondi culturali che non vivono con noi in situazioni di “contemporaneità” o di “sincronicità”), in epoca moderna la religione ha faticato non poco a definirsi. In parte per le critiche radicali che la ragione le ha rivolto, e a cui il pensiero religioso non è – a tutt’oggi – riuscito a dare risposte a mio avviso convincenti. In parte perché la sottolineatura illuministica della ragione quale fondamento della convivenza civile è stata suscitata anche dall’incapacità del cristianesimo medievale di offrire una pace reale e duratura fra gli stessi popoli che si definivano cristiani.
Dal XV secolo in poi, i pochissimi tentativi di (ri)stabilire forme di società “cristiane” – da Savonarola a Cromwell alla rivolta di Münster, alla stessa idea di “nuova cristianità” proposta come ideale storico concreto da Jacques Maritain – sono stati giustamente ritenuti in qualche modo totalitari o inadeguati e sono stati respinti, se non a furor di popolo, quanto meno con un forte senso di libertà e di liberazione da parte di molti. Di conseguenza, l’impulso politico del cristianesimo si è trasferito principalmente in due direzioni: sul versante cattolico, soprattutto verso una contrapposizione (guidata dalle gerarchie) agli stati moderni, durata di fatto fino al concilio Vaticano II (ma con segnali di ripresa ancor oggi in varie aree geografiche, Italia compresa, a mio parere preoccupanti). In vari modi, forme e intensità, e in tutte le chiese cristiane, la seconda direzione assunta dai discepoli del Nazareno è stata invece quella della “testimonianza”, in gruppi parzialmente separati. Si è così assistito a svariati fenomeni di “risveglio religioso”, talvolta settari e talvolta più aperti all’interazione col mondo e con la chiesa, che hanno portato a plasmare nuove modalità di rapporto tra fede e storia e tra chiese e mondo, all’insegna della fecondazione della terra mediante il sale del Vangelo.
Tra i frutti di questa seconda tendenza più carichi di speranza vi è stato sicuramente il movimento ecumenico. Da cosa è nato, l’ecumenismo? A detta di molti dallo “scandalo” rappresentato dalla divisione tra cristiani (che, ricordiamolo per inciso, è stato un fenomeno inesorabile e sempre più ramificato sin dagli albori della fede in Cristo), che rappresenterebbe una delle fondamentali ragioni della scristianizzazione del mondo in epoca moderna. Del resto, se nel Vangelo di Giovanni Gesù aveva pregato perché i suoi discepoli “fossero una cosa sola” e il mondo potesse credere che era lui l’inviato di Dio per narrarne e spiegarne il vero volto, a non pochi cristiani parve sempre più chiaro, fin dalla metà del XIX secolo, che la divisione e addirittura le lotte tra le chiese fossero la radice fondamentale della progressiva secolarizzazione del mondo occidentale, nonché dei successi molto limitati in molte nuove terre di missione.
Con la prima guerra mondiale, tuttavia, l’ecumenismo iniziò a essere collegato in maniera insistente con la ricerca della pace. Infatti, sotto la guida di uno dei grandi del movimento ecumenico moderno, l’arcivescovo luterano di Uppsala Nathan Söderblom (in seguito insignito del Nobel per la pace nel 1930), nel 1914 venne lanciato agli inizi del primo conflitto mondiale un appello “per la pace e la comunione cristiana” che intendeva coinvolgere i responsabili di tutte le chiese onde porre fine alla guerra e aiutare le chiese stesse a ripensare in profondità la loro missione di pace e fratellanza globali. Com’era infatti possibile predicare il vangelo e benedire nel contempo le guerre fratricide tra cristiani e non solo?
Sebbene l’appello di Söderblom venne firmato solo dalle chiese dei paesi neutrali e, come è risaputo, fallì, non di meno l’idea di lavorare insieme tra credenti in Cristo su temi come la pace e la giustizia, a prescindere dalle divisioni dottrinali, portò alla convocazione nel 1925 della prima conferenza cristiana dedicata a “Vita e azione”, che costituirà una delle due gambe (l’altra è il movimento dottrinale detto “Fede e costituzione”) su cui camminerà a partire dal secondo dopoguerra il Consiglio ecumenico delle Chiese. Quest’ultimo ha, tra i suoi meriti più grandi, quello di aver posto il tema della pace come uno dei cardini della missione cristiana nel mondo.
Certo, a distanza di più di un secolo dall’appello appena citato si può dire con onestà che il pacifismo cristiano non abbia avuto molto successo (con le dovute eccezioni). Le chiese hanno continuato, in una maniera o nell’altra, a benedire le guerre, o a “giustificarle”, o quanto meno a balbettare nei momenti decisivi poche parole, più prossime all’omertà che non alla costruzione della pace. Molte di esse, sempre pronte a parlare di valori “non negoziabili” quando sono in gioco realtà etiche molto più complesse (come l’aborto, l’eutanasia, il controllo della natalità, l’esercizio della sessualità) e molto difficilmente collegabili alle parole di Gesù di Nazareth, non hanno saputo trovare quasi mai il coraggio necessario a denunciare i governi del mondo quando in gioco era il tema certamente più gesuano ed evangelico della mitezza e della pace.
Quello che però preoccupa maggiormente non sono tanto le gerarchie cristiane (che in fondo sono dei sistemi di potere, con tutti i limiti del caso), quanto piuttosto la crescente impressione che si stia tornando indietro nel cristianesimo, quasi fosse nuovamente possibile giustificare per un cristiano modi di essere e di pensare che è davvero difficile ritenere compatibili con il vangelo di Gesù Cristo. Quasi fossero in atto nuovi connubi tra una certa cultura e un modo di essere religiosi che, invece di rappresentare un pungolo, un contrappunto o un contraltare al(i) pensiero(i) dominanti – e dunque sempre tentato(i) di farsi totalitari(o)– sono molto più utili a cementare la ragion pratica civile, a prescindere dalla sua qualità razionale e morale. Una nuova religione civile, in poche parole, che sta ormai affascinando moltissimi esponenti del cosiddetto “cattolicesimo democratico”, che si trova probabilmente ai punti più bassi di rilevanza e di creatività della sua intera storia contemporanea.
Negli scritti dei primi apologeti cristiani si spiegava come ci fossero mestieri inopportuni per un cristiano, come ad esempio quello di soldato. I cristiani si sentivano e si sapevano custodi di un modo “altro” di vivere, quali testimoni di un regno, di una signoria di Dio che aveva fatto irruzione nella storia non con battaglie violente contro il mondo, ma nella mitezza, nel silenzio e nella nudità della croce di Cristo. Molti di loro non avevano con questo alcun programma politico: sentivano unicamente di dover vivere secondo logiche diverse, di sottomissione al prossimo per amore e di riconciliazione attraverso la forza del perdono. San Paolo parla di katallaghé, di un “baratto svantaggioso”, in cui le relazioni (e dunque la pace) vengono costruiti accettando di perdere qualcosa per guadagnare qualcosa di più grande: un possibile rapporto con il prossimo, “nemici” compresi.
Certo, erano tutti ben cosci del fatto che senza giustizia non si può costruire nessuna pace duratura. Ma sapevano anche che la giustizia non può essere mai costruita stabilmente con la violenza o la sottomissione dell’altro, in qualsiasi forma ciò possa avvenire. Per fare giustizia ci vuole misericordia, ci vuole una capacità di cercare qualcosa di più grande del proprio interesse personale e della giustizia definitiva in questo mondo.
Dove sta la radice di tutto questo per dei cristiani? Nella katallaghé per antonomasia: l’abbraccio all’umanità intera di Gesù sul Golgota, nel quale i cristiani – nella loro fede – hanno visto l’abbassarsi ultimo di Dio, il suo compiere un baratto svantaggioso in grado di risollevare la nostra umanità, qualsiasi umanità. A condizione di scegliere il lógos toû stavroû (la parola della croce) come logica altra delle nostre vite, come fonte ultima delle nostre sapienze.
Aleksandr Men’ diceva che il cristianesimo, dopo duemila anni, ha mosso solamente i suoi primi passi. Forse, più semplicemente, abbiamo bisogno di mettere la testa ciclicamente nel fango per riscoprire le ragioni essenziali della nostra fede. Dunque dobbiamo costantemente ricominciare, ripartire da quella verità che, come dice Georges Khodr’, risiede solamente nella nudità di Cristo. Una verità che non è un insieme di piccole verità o di valori “non negoziabili”, ma che è la contemplazione di un modo realmente altro di vivere la vita. Il modo che ci ha narrato Gesù di Nazareth, giorno dopo giorno nella sua vita, e che è culminato con un atto d’amore tale da diffondere nel mondo l’energia inesauribile della misericordia e dell’amore di Dio.
Io non credo che tutte e tutti debbano abbracciare la fede in Gesù Cristo o farsi sue discepole e discepoli. In fondo, il sale della terra non è la terra intera. Per contro, davanti alla croce cade ogni possibile falsificazione del cristianesimo, viene svelata ogni nostra idolatria. E il mondo, in questo momento, ne ha un disperato bisogno.
Buona Pasqua a tutti.
Mi piace questo “baratto svantaggioso della croce”come idea di fondo che caratterizza il Cristiano autentico. Il Cristiano può e forse deve vivere “diversamente” per incidere e fermentare il vivere sociale. Non si tratta di fare crociate e neanche costruire gruppi e associazioni che inneggino e propagandino il pensiero , ma vivere autenticamente giorno dopo giorno la vita seguendo il messaggio di Gesù.
Molto bella, lucida e luminosa questa analisi del nostro essere “poveri cristi/ani” in questo tempo post-cristiano (ma c’è mai stato un tempo cristiano???). Il problema vero, secondo me, è che siamo volentieri uomini ( e donne, ma forse – oso dire- un po’più uomini…) “del baratto”, ma soltanto quando è vantaggioso…! Credo che questo sia davvero il “peccato originale” dell’umanità intera, che abbiamo preferito deviare verso i “principi non negoziabili”, che riguardano sempre la sfera privata ed intima della coscienza, piuttosto che verso le relazioni socio-economico-culturali. Cosa che ci destabilizzerebbe molto di più perché metterebbe “a nudo” la nostra illusione di essere, comunque, seguaci di Cristo. Buona Pasqua!