La creazione, più di trent’anni fa, del World Wide Web, ha sicuramente rivoluzionato la comunicazione globale. Con la comparsa e la diffusione su larga scala dei social network, a partire dalla creazione di Facebook nel 2004, l’intero panorama dell’informazione e della condivisione di informazioni è stato rivoluzionato, subendo quella che Luciano Floridi ha definito una nuova “re-ontologizzazione del mondo”.

Tra i molti effetti di questa profonda trasformazione che abbiamo vissuto nell’arco di meno di due decenni vi è sicuramente la continua creazione di tematiche attorno a cui polarizzare le posizioni, quasi costretti a schierarci e ad assumere un punto di vista chiaro e netto, salvo poi dimenticarle nel giro di pochissimo tempo. Tutto ciò non aiuta ad affrontare con cognizione di causa e riflessione critica alcuni temi di grande importanza, né consente di valutarne il peso e la portata reali.

L’attuale dibattito sull’intelligenza artificiale è in un certo senso un caso emblematico delle distorsioni del sistema informativo odierno, che promette più informazione ma in realtà garantisce meno approfondimento delle conoscenze, ci fa credere di essere maggiormente collegati e con scelte di più ampio respiro mentre in realtà – come ha osservato acutamente la psicologa di Harvard Sherry Turkle – ci rende più soli e maggiormente omologati.

La complessità del tema intelligenza artificiale è peraltro davvero notevole, non tanto perché si tratti di questioni complicatissime e incomprensibili, quanto piuttosto per le molte ambiguità che avvolgono da sempre un termine infelice – fu fortemente voluto, tra la perplessità dei suoi stessi colleghi, dall’informatico americano John McCarthy negli anni ’50 – che oltre a non avere ancora trovato una definizione su cui si sia tutti concordi, è avvolto e intriso di problematiche filosofiche tutt’altro che secondarie.

Ne accenno solamente qualcuna: quale modello di intelligenza umana si vorrebbe simulare? Un’intelligenza puramente matematico-meccanico-computazionale, come quella dei padri dei test sull’intelligenza e della psicometria, oppure le intelligenze poliedriche e multiple ci cui parla (e che studia) da oltre trent’anni Howard Gardner? Una macchina si può definire “intelligente” solo se è antropomorfa, o molto semplicemente se è in grado di risolvere problemi, con aiuti più o meno sostanziosi da parte di noi umani? Soprattutto, però, qual è l’obiettivo dell’impresa dell’intelligenza artificiale: riprodurre interamente un essere umano mediante mezzi artificiali, oppure creare sistemi capaci di risolvere problemi che noi non saremmo in grado di affrontare da soli?

Dichiaro subito che non sono per nulla affascinato dalla hybris di chi vorrebbe ricreare l’umano in laboratorio. Per contro, sono dedito allo studio e alla realizzazione di tutto ciò che può contribuire a migliorare l’apprendimento umano, a farci vivere meglio e, soprattutto, a democratizzare il mondo in cui vivranno le giovani e i giovani di domani. Credo inoltre che non sia affatto salutare sviluppare sistemi di intelligenza artificiale che non rispondano al criterio etico fondamentale della “esplicabilità”, ovverosia che non ci mettano in condizione di comprendere il bene o il danno che stanno effettivamente recando alla società e in quali modi lo stiano facendo, perché in tal modo non lasciano uno spazio chiaro e decisivo all’iniziativa umana.

Mi occupo professionalmente da anni di uno dei rami dalla storia più lunga, ricca e complessa dell’intelligenza artificiale, che normalmente viene sintetizzato con l’acronimo AIED, che in inglese sta per “intelligenza artificiale applicata all’educazione”. Si tratta di un ramo molto specifico, spesso ben poco sognatore o delirante, della ricerca informatica, che si è posto costantemente il problema di comprendere l’apprendimento umano e le modalità per favorirlo, in dialogo costante con la psicologia, la pedagogia e le neuroscienze.

Per questo, una progettazione AIED realmente adeguata deve saper collegare i tre vertici di quello che Rose Luckin, una delle massime esperte mondiali in materia, ha definito il “triangolo d’oro” formato da sviluppatori di sistemi di intelligenza artificiale destinati al mondo dell’educazione, docenti e pedagoghi che ne fanno uso, e ricercatori accademici che ne studiano i presupposti e gli effetti.

Nel breve spazio di questa riflessione non è ovviamente possibile presentare in maniera approfondita tutto ciò che fino a oggi gli sviluppatori di sistemi informatici sono stati capaci di realizzare nel campo dell’AIED. Per questo mi sto dedicando a tempo pressoché pieno alla creazione di vari strumenti, da podcast divulgativi alla redazione di un manuale accademico, dalla creazione di corsi di aggiornamento per docenti e dirigenti scolastici a quella di più complessi master universitari dedicati a chiunque voglia occuparsi oggi di formazione. Quello che posso fare è tuttavia narrare alcune intuizioni soggiacenti all’intera parabola dell’AIED, che credo aiuteranno a capirne le ragioni e il potenziale per il mondo dell’educazione di domani.

La prima pietra miliare dell’applicazione dell’intelligenza artificiale al mondo della didattica e dell’apprendimento fu posta da uno dei massimi psicologi dell’educazione del XX secolo, l’americano Benjamin Bloom, il quale nel 1984 pubblicò un articolo in cui presentava i frutti delle ricerche compiute negli anni precedenti assieme ai suoi colleghi.

Scopo del suo articolo era mostrare quanto potesse migliorare l’apprendimento in una classe scolastica “tradizionale” (con un solo docente per una trentina di studenti, lezioni frontali e verifiche al termine di ogni sezione del programma) se durante il cammino di formazione venivano aggiunte delle tappe di verifica intermedie in cui dare feedback ai singoli studenti, avvalendosi al massimo di un ulteriore tutore di sostegno per l’intera classe. Per misurare i miglioramenti possibili, Bloom organizzò in realtà tre situazioni parallele: la classe “tradizionale”, quella con verifiche e feedback appena menzionati (metodo che Bloom stesso definisce di “apprendimento per padronanza”), e infine una situazione in cui ogni singolo studente poteva beneficiare di un vero e proprio tutore individuale in grado di verificarne costantemente il progresso e dare il feedback necessario all’acquisizione di una piena padronanza.

Il risultato delle sue ricerche fu duplice: lo studente “medio” di una classe dove si praticava l’apprendimento per padronanza conseguiva risultati migliori dell’84% degli studenti in una classe tradizionale, mentre lo studente “medio” che aveva goduto di un tutore personale mostrava una padronanza degli argomenti superiore ad addirittura il 98% degli studenti in ambiente tradizionale. Oltre a questo, l’intervallo tra lo studente più forte e quello più debole al termine dell’esperimento risultava ridotto del 30% in situazione di apprendimento per padronanza e addirittura dimezzato in presenza di tutori individuali.

Da allora in poi, l’idea fondamentale dell’AIED è stata quella di creare e sviluppare sistemi in grado di ricreare su larga scala gli effetti sia dell’apprendimento per padronanza, sia ancor più del tutoraggio individuale, impresa che senza l’ausilio delle macchine sarebbe impossibile sia finanziariamente sia da un punto di vista delle necessarie risorse umane (basti pensare che oggi, in Italia, un lavoratore su 37 è insegnante, in situazioni molto più vicine a quella della classe tradizionale di Bloom che non a quella di un sostegno individuale a ogni discente!).

Accanto a questo, lo sviluppo sempre maggiore dei sistemi informatici in termini di velocità di raccolta ed elaborazione, ha consentito lo sviluppo di un secondo aspetto fondamentale: la raccolta di dati molto approfonditi che possono dare in tempo reale una visione molto dettagliata di come proceda realmente l’apprendimento tanto dei singoli quanto di intere classi. Grazie a queste fondamentali intuizioni e sviluppi, l’AIED è diventata capace di fornire preziosi strumenti di sostegno sia agli studenti, sia ai docenti, sia ai dirigenti scolastici di ogni grado e genere.

Agli studenti, in particolare ha fornito e sta sviluppando in maniera sempre più elaborata e interessante strumenti come le piattaforme intelligenti di tutoring, che consentono forme di apprendimento misto (in parte personale e asincrono, in parte collaborativo e sincrono) i cui risultati sono stati ampiamente studiati e confermati dalla scienza.

Ai docenti l’AIED cerca di dare – senza mai sostituirli! – un continuo aiuto affinché ogni singolo studente riceva un accompagnamento personalizzato nel preciso momento in cui ne ha bisogno; inoltre, l’interazione con sistemi informatici permette una costante raccolta di dati che potenziano la capacità analitica e di intervento dei docenti, consentendo loro di organizzare un intervento realmente differenziato e una progettazione universale dei cammini di apprendimento, ovverosia capace di utilizzare tutti i registri didattici necessari per raggiungere la sensibilità unica di ogni singolo discente.

Per quanto riguarda lo sviluppo professionale di chiunque sia dedito alla didattica, l’AIED può fornire direttamente strumenti come le applicazioni di intelligenza artificiale che aiutano a curare la preparazione e la presentazione dei materiali didattici, i sistemi di valutazione formativa e sommativa che possono (se usati con cognizione di causa e intelligenza) sia alleggerire sia migliorare l’opera di valutazione dei docenti, e le piattaforme per la comunicazione con studenti e genitori e l’organizzazione delle attività di classe.

Per quanto riguarda i dirigenti scolastici, infine, l’intelligenza artificiale consente oggi valutazioni di sistema che potrebbero risultare decisive, ad esempio, per la lotta alla dispersione scolastica e l’effettiva democratizzazione dell’educazione.

Vi stupirà, forse, che fino a questo punto non abbia citato ChatGPT e l’intelligenza artificiale generativa. Qui sta appunto la differenza tra la comunicazione attuale totalmente focalizzata su temi poco studiati e, per quanto nuovi e apparentemente “dirompenti”, non centrali al fine di un’applicazione seria e ponderata dell’intelligenza artificiale all’educazione (e non solo) e una divulgazione seria delle traiettorie a lungo termine dell’AIED. Non voglio tuttavia sottrarmi alla sfida posta dalle mode del momento.

Una delle domande più ricorrenti negli ultimi mesi nel mondo dei docenti è: “Ma ora come faremo a evitare di essere tratti in inganno dagli studenti, che invece di produrre elaborati che sono farina del loro sacco potranno ricorrere a strumenti sempre più sofisticati?”. Confesso, senza peli sulla lingua, che ritengo che un docente a cui vengono in mente dubbi di questo genere dovrebbe interrogarsi a fondo sulla propria professione e visione del mondo dell’educazione e della scuola. Perché molto probabilmente significa che ritiene l’apprendimento qualcosa che avviene principalmente tramite lezioni frontali e compiti a casa, o per lo meno che è ingabbiato in forme pedagogiche decisamente limitate, che giustifica con la magica litania dell’“esperienza”, che senza studio e aggiornamento, in realtà, il più delle volte è una cattiva consigliera.

Le nuove tecnologie manderanno sicuramente in crisi le abitudini inveterate. Ma questo non è un male, bensì un’occasione epocale per interrogarsi a fondo sulle nostre pratiche pedagogiche e su come renderle sempre più al servizio di chi dovrebbe esserne realmente al centro: lo studente e il suo apprendimento. La vera battaglia avrà luogo tra il potere che la tecnologia stessa – che non è mai neutra, ed è un errore grave pensare che lo sia – ha di cambiare il nostro mondo, e il nostro potere di indirizzare lo sviluppo tecnologico verso una piena umanizzazione della società piuttosto che verso una riduzione del nostro orizzonte umano e antropologico.