Eccoci giunti a un nuovo episodio della serie sul futuro del monachesimo. In questo articolo, apparso su Rocca 11/2022, ci interroghiamo sulla crisi della vita religiosa e su cosa possa significare.
La vita religiosa, il “monachesimo” in senso lato, è in crisi? Guardando ai numeri, sembra un’ovvietà. Pur senza ricorrere a una quantità esaustiva di statistiche, alcuni dati sono molto eloquenti.
Dal 1965 al 2015 (ma la tendenza in seguito non è cambiata) i religiosi nel mondo sono calati del 39,58% e le religiose addirittura del 44,61%. Tutto ciò mentre il numero ufficiale di cattolici, per contro, raddoppiava, rendendo le percentuali appena citate molto più nette e “drammatiche”. In altre parole, prendendo l’esempio delle religiose, se nell’immediato dopo Concilio si registravano 1,54 donne che avevano preso i voti ogni mille cattolici, a cinque decadi di distanza si era scesi a 0,49 consacrate ogni mille fedeli.
Il calo dei preti, per contro, è molto più lieve su scala globale. Dal 1970 al 2020 si è passati da 419.728 a 414.065 su scala mondiale (–1,35%), che in proporzione al numero totale di cattolici significa da 0,64 preti su mille cattolici e cattoliche nel 1970 a 0,32 nel 2020.
Il fatto che i cattolici aumentino e che il numero di preti cali in maniera più lieve rispetto a quello di religiosi e religiose, rende difficile spiegare la crisi di questi ultimi e queste ultime solamente in termini di secolarizzazione. Senza dimenticare, ovviamente, che se si esaminano i dati relativi alla sola Europa, le statistiche si fanno ancor più chiare e nette.
Se si chiede cosa ne pensi a chi vive la vita religiosa, magari da decenni, è normale ricevere risposte difensive, che negano qualsiasi crisi di sostanza o di valori. Del resto è giusto (e molto umano) non scandalizzare e non predicare semplicemente rivoluzioni che costino sofferenze senza sbocco. Quando Lutero espresse le sue critiche radicali, di natura teologica, alla vita religiosa del suo tempo, lanciò di fatto un appello allo svuotamento di conventi e istituti religiosi. Ma coloro che “uscirono” trovarono attorno a sé una società cristiana, probabilmente molto più capace di accoglierli e attutire il peso di quello che, comunque, anche allora era un trauma esistenziale. Oggi, per contro, la società è molto più “impietosa”, da ogni punto di vista, e dunque chi abbandona la vita religiosa si trova innanzitutto a fare i conti con una forte impreparazione ad affrontare il mercato del lavoro e le sfide quotidiane della sussistenza. E quasi sempre – va detto con molta tristezza – viene abbandonato e stigmatizzato anche dalla chiesa di appartenenza. Finire per strada quando si hanno quarant’anni o più è un’esperienza difficilissima, anche quando la si sceglie con convinzione o perché si ritiene insopportabile la vita che si conduce. Ciò nonostante, e sebbene si ascoltino troppo poco le ragioni di chi “ha lasciato”, è evidente che i segnali di disagio siano ormai molto forti e vadano affrontati.
Un monaco e sociologo autorevole come Giovanni Dal Piaz ha parlato a più riprese della fase liminale in cui ci troviamo: le strutture e le forme della vita religiosa si trovano ormai in una crisi irreversibile, senza che però siano ancora chiare le nuove strutture e forme che l’anelito “monastico” può assumere per le donne e gli uomini di oggi. Credo che abbia colto pienamente nel segno. Per dirla altrimenti, malgrado il Concilio (che sulla vita religiosa ha comunque detto troppo poco), siamo in una fase di transizione fra modelli di vita religiosa che si può leggere in termini bergsoniani.
Come ho ricordato in contributi precedenti, infatti, Henri Bergson amava distinguere tra religione “statica” e “dinamica”. La prima sono quell’insieme di strutture, forme e regole che costruiamo per difenderci dalle paure che la vita presenta, dalla forza dirompente e dubitante del pensiero, e si sviluppa tramite dogmi e interdetti che cementano la connessione tra i singoli individui; la seconda, invece, è quel desiderio intimo e profondo di assecondare, senza alcuna paura, lo slancio vitale dello spirito, rompendo argini e accettando che sia lo spirito stesso a condurre a nuove forme, sempre in movimento.
Senza strutture e forme la gran parte di noi (non tutti) non riuscirebbe a vivere, e dunque è bene che ci siano. Ma prima o poi (a volte nell’arco di pochi decenni, altre volte di secoli) ogni struttura va in crisi. Nella vita religiosa sono palesemente in crisi l’autorità “sacrale” dei superiori, i voti (sia nel senso del loro contenuto specifico sia della loro definitività), e soprattutto la vita comune. Il risultato è che – mi perdonino le amiche e gli amici religiosi – nel tempo presente è rarissimo imbattersi in comunità religiose o singoli religiosi che non sembrino in qualche modo degli esseri umani “infantilizzati”, non pienamente sviluppati nella loro umanità.
La chiesa cattolica (e forse quasi tutte le chiese) non ha ancora realmente fatto i conti con l’autonomia della ragione sancita dal pensiero moderno, né con la rivoluzione sessuale degli ultimi cinquant’anni, e per ora si limita in larga misura a “difendersi dal mondo”, in palese controtendenza rispetto allo slancio – peraltro non presente allo stesso modo in tutti i testi del Vaticano II – della stagione conciliare. Così facendo, però, si rischia di ingabbiare l’anelito monastico umano, le sue intuizioni vitali e vivificanti, in realtà sempre più soffocanti e sempre meno umanizzanti.
Quali sono le sfide, allora? Innanzitutto cercare di capire in quale direzione muova lo spirito/Spirito, senza alcun timore. Il pensiero è un dono, anche se si esprime inevitabilmente sollevando interrogativi e costruendo mappe di territori inesplorati. Soprattutto, però, in quanto realtà dello spirito non può mai – per fortuna! – essere domato o spento.
Ma non ci si può limitare a pensare: bisogna anche sperimentare, ben consci che nel cammino di ricerca di nuove forme e strutture (pur sempre “provvisorie”, sia ben chiaro!) si commetteranno errori, come è accaduto sicuramente a ogni latitudine nel post-Concilio. Tali errori, però, non sono il segno della bontà perenne di quanto ci è già dato, quanto piuttosto della difficoltà intrinseca alla lunga epoca di transizione iniziata oltre due secoli fa con l’Illuminismo e rafforzata dalla mutata percezione della sessualità umana degli ultimi decenni.
Infine, è fondamentale che le chiese tutte riconoscano le radici della crisi della vita religiosa, e invece di stigmatizzare o trascurare tutti coloro che sono in profonda crisi al suo interno, diano vita a reti di ascolto e di accompagnamento sia dei singoli sia di istituzioni in cui sempre meno si riesce a vivere con serenità e umanità la chiamata evangelica. Chi ha dedicato una vita intera al monachesimo o ad altre forme di vita religiosa ed è riuscito a rimanere in qualche misura fedele alle proprie scelte, merita profondo rispetto e non va affatto giudicato se ormai – spesso non per ragioni di capricci personali, ma per la mancanza di vita e di potenzialità umane che ormai si respirano in istituzioni vetuste e morenti – non vede più un senso nel rimanere laddove ha dato tutta se stessa o se stesso per molti anni.
Invece di “pretendere” dai religiosi fedeltà assurde, quasi per una sorta di “santificazione per delega” (perché ci fa sempre molto comodo che siano gli altri a “fare sacrifici”…) a prezzo di enormi sofferenze, i laici dovrebbero dar vita insieme ai religiosi a comunità a vari livelli, in cui con vera solidarietà umana e cristiana sia possibile evitare transizioni drastiche tra “dentro” e “fuori”. Per essere chiari, non sto parlando di nuove comunità chiuse e in fin dei conti mortifere, come quelle proposte dal libro a mio avviso molto pericoloso di Rod Dreher, L’opzione Benedetto, bensì di reti di solidarietà in cui non vengano predefinite a priori le modalità e le intensità di una vita comune, ma venga offerto a ciascuno a e a ciascuna l’ascolto e gli strumenti necessari per una piena umanizzazione.
Per fare questo, bisogna riprendere gli elementi essenziali dell’anelito monastico, distinguendoli da ciò che è accessorio o addirittura superato o deleterio. Sarà quanto cercherò di fare nei prossimi contributi.
Sono un battezzato sposato e quindi inesperto se non dall’esterno del problema. Non frequento comunità di fede come le abbiamo conosciute ma ho imparato a considerare tali quelle che si impegnano per liberare l’uomo. Con tutta la provvisorietà e fluidità delle stesse. Si dirà: così si perde l’identità! Solo l’omogeneità di ispirazione (nel nostro caso evangelica) fa la comunità?
Inoltre credo che si sia attribuito al CV2 un portato rivoluzionario che non ha mai avuto. A proposito consiglio la lettura di un opuscolo di Capitini del 1966 Severità religiosa per il Concilio pressoché sconosciuto.