“Gesù di Nazareth invita gli esseri umani a realizzare l’umanità secondo Dio.

Bisogna essere assai limitati per ritenere che il cristianesimo si sia compiuto, che sia stato pienamente realizzato, nel IV secolo, secondo alcuni, nel XIII, secondo altri, nel XVI, secondo altri ancora.

In realtà il cristianesimo ha mosso solamente i suoi primi passi, e sono stati passi timidi nella storia del genere umano.

Molti insegnamenti di Gesù rimangono tuttora incomprensibili ai nostri orecchi.

E di fatto, mentre la freccia scoccata dal vangelo ha come bersaglio l’eternità, noi siamo ancora dei neanderthaliani dello spirito.”

Ho pensato a lungo come augurare buon Natale alle mie lettrici e ai miei lettori, al termine di un anno che ha messo tutti noi alla prova, per molti motivi.

Ovviamente al primo posto, per le proporzioni della sofferenza e del lutto che ha recato ovunque, è impossibile non citare il flagello della pandemia causata dal Covid-19, che ci vede ancora intenti, come uomini e donne e – alcuni di noi – come cristiani, a dare forma a risposte capaci di umanizzare il dolore, di aiutarci a uscire più forti (senza alcuna certezza di potercela fare) da un’esperienza più grande di ogni nostra hybris, di ogni nostra arroganza.

Per molte persone, poi, ci sono state probabilmente altre ragioni di sofferenza e forse anche di disperazione, per le disgrazie personalissime che la vita non risparmia a nessuno, e che poste nel quadro di un anno orribile per l’isolamento umano che siamo stati costretti a vivere, sono state per alcuni davvero insopportabili.

Infine ci sono state questioni più circoscritte, che hanno toccato direttamente solo alcuni di noi, come la triste vicenda di Bose, che non di meno sollevano grandi interrogativi riguardo a cosa sia possibile attenderci e sperare, se anche chi sembra un baluardo di vita umana e testimonianza evangelica sembra sprofondare in divisioni e tunnel senza luce, e chi è chiamato ad aiutare e vegliare sa solo ferire a colpi di autorità, magari e addirittura in nome di Dio.

E allora mi è venuto in mente il testo che apre questa mia riflessione, che ho tradotto diversi anni fa, di Aleksandr Vladimirovič Men’, prete ortodosso russo fatto uccidere, presumibilmente per ordine del KGB, a colpi d’ascia il 9 settembre del 1990, perché promotore di una vera e propria rinascita umana ed evangelica nel mondo intellettuale russo di fine anni ’80.

Padre Men’ sapeva che il cristianesimo è una forza pacificamente e mitemente sovversiva, e aveva ricevuto diversi avvertimenti perché cessasse di condividere quanto gli frullava nel cervello e ardeva nel cuore.

Egli sapeva anche, da vero intellettuale, che le critiche più radicali mosse al cristianesimo in epoca moderna, dagli Illuministi a Nietzsche, contenevano e contengono tuttora molta verità.

Eppure era abitato da un’incrollabile convinzione che la “freccia del vangelo scoccata” duemila anni fa fosse portatrice di eternità, di un amore più forte della morte, di un modo di vivere più grande della paura di morire o di essere privati della vita.

Il Natale cristiano è sempre una duplice memoria: da un lato del fatto che, con la nascita di Gesù a Betlemme, è stata scoccata una freccia che ha come bersaglio l’eternità; dall’altro, del fatto che quanto egli ha compiuto nella sua vita potrà compiersi anche nelle nostre, se sapremo attendere in maniera non passiva la signoria di Dio, ovverosia se raccoglieremo e faremo crescere in noi e attorno a noi, giorno dopo giorno, quei semi di verità e di riconciliazione sparsi ovunque, misteriosamente, che rappresentano le tracce, la scia di quella freccia.

Giustificare razionalmente il cristianesimo, quando dopo duemila anni gli esseri umani continuano a soffrire, a fare guerre, a opprimere i deboli,   a esaltare i “vincenti”, a volte può essere ridicolo. Testimoniare invece con le nostre vite che è possibile vivere altrimenti, dando un senso anche laddove sembra esserci null’altro che tenebra, è qualcosa che non fa ridere nessuno, ma che anzi semina speranza.

Si tratta di ricominciare, di riprendere, sentendoci umilmente, come diceva Aleksandr Men’, dei “neanderthaliani dello spirito”. Ed è questo che voglio augurare a tutti e a ciascuno. Nulla di più, nulla di meno.