Nessuno nega che viviamo in un’epoca di transizione globale, avviata con la fine del dualismo USA-URSS, la dirompente ascesa della Cina e di alcuni paesi del Sud del Mondo che rappresentano, messi insieme, quasi 2 miliardi di abitanti.

L’interpretazione del cambiamento non è semplice, in quanto i vecchi paradigmi (la cui validità non è necessariamente scomparsa del tutto) non sono più adeguati, mentre i nuovi sono in fase di creazione e affinamento.

Buona parte di ciò che avviene in simili periodi della storia umana non è guidato dagli studi e la conoscenza storiografici, bensì dalla creazione di ideologie (non in senso puramente negativo, quanto piuttosto in quello dell’inglese discourse), che hanno il potere di rafforzare convinzioni (o crearne di nuove) mediante la forza del linguaggio come pratica sociale (Michel Foucault docet!).

Negli ultimi vent’anni, questo processo è stato sicuramente notevolmente rafforzato dalla creazione dei social media, che conferiscono ulteriore potenza al linguaggio (semplificato) e al presente, e rendono più opachi gli usi della parola “storia”.

Ecco allora che diventa popolare, in tutte le questioni complesse, riferirsi proprio alla “storia”, che è ormai quasi sempre declinata operando selezioni molto nette dal punto di vista temporale e dei materiali, guarda caso sempre funzionali a rafforzare le proprie convinzioni su chi avrebbe ragione e chi sarebbe invece nel torto.

Prendete i due maggiori conflitti che al momento toccano noi occidentali (mentre ce ne sono altri 118 nel mondo, nel momento in cui scrivo, che non affiorano mai nelle pagine dei nostri rotocalchi, e già questo dovrebbe farci riflettere…): quello tra Russia e Ucraina e quello tra Israele e Palestina. Come ha spiegato bene Alessandro Barbero, in entrambi i casi è molto facile individuare artificiosamente una data di inizio assoluto della conflittualità, a seconda delle simpatie di base e di ciò che si vuole provare. Così come è facile operare una “selezione della memoria”.

Nel linguaggio giornalistico odierno, si definisce “storia” questo genere di attività selettiva, ma lo è davvero?

La storia si basa su analisi di documenti variegati e complessi, molti dei quali diventano disponibili solitamente solo molti anni dopo che le persone in essi coinvolte sono morte. L’archivio Vaticano, ad esempio, è disponibile solo per la consultazione di documenti fino al 1958, e criteri analoghi si applicano a tutti i grandi archivi mondiali, con maggiori o minori limitazioni. Questo significa che, ad esempio, la stragrande maggioranza dei documenti relativi ai grandi conflitti in corso non sono disponibili praticamente quasi a nessuno.

Ma allora, mi direte, ci sono i fatti del tempo presente, che possono essere verificati! Ritengo che questa sia una delle più grandi distorsioni ideologiche dell’attuale occidente “liberale”, e vorrei spiegarlo.

Esistono indubbiamente eventi, che tuttavia non sono quasi mai totalmente separabili dalla loro interpretazione (cosa risaputa da chiunque abbia fatto qualche minimo studio di storia e storiografia…). Inoltre, anche i fatti, per costruire una teoria o un discorso, vanno selezionati. Non è quasi mai vero che i fatti si presentano a noi quasi obbligandoci a spiegarli tramite teorie: noi cerchiamo risposte a partire dalle domande che formuliamo. E infatti, come sa chiunque si sia occupato con un minimo di onestà di filosofia della scienza, è decisivo identificare con chiarezza le domande che intendiamo porre alla realtà per trovare risposte tramite metodi scientifici. La qualità della scienza dipende dalla qualità e l’onestà di fondo delle domande…

Quasi tutti i conflitti e le divisioni umani non nascono da risposte differenti alle medesime domande, bensì da domande differenti che non hanno mai avuto modo di essere realmente ascoltate dalla parte avversa. Perciò la costruzione della convivenza umana può passare unicamente da un processo di costruzione di discorsi almeno in parte comuni. Perché il linguaggio non è mai una pura descrizione del mondo, ma collabora attivamente alla sua costruzione.

Ecco allora che le celebri parole della canzone di De Gregori “la storia siamo noi” possono trovare un inveramento, nella misura in cui invece di subire passivamente le narrazioni dominanti, decidiamo di iniziare a costruirne di nuove, insieme a coloro che, in apparenza, stanno “dalla parte opposta”. Come hanno tentato di fare (con qualche successo) bianchi e neri in Sudafrica nell’era post apartheid.

Senza un atteggiamento di questo tipo, e se continueremo a investire in alleanze “contro” e in armamenti, saremo ineluttabilmente destinati a un futuro caratterizzato da conflitti ancora più dolorosi. Perché non è mai stato vero che “se vuoi la pace, devi preparare la guerra”. Se vuoi la pace devi costruire discorsi comuni, proprio con i “nemici”, e adoperarti per essere costruttore di ponti. A partire dai ponti linguistici.