Propongo sul mio blog il secondo contributo dedicato al monachesimo e alla sua attualità, apparso sul numero 3/2022 di Rocca. Dopo aver spiegato nel primo contributo (ripreso in buona parte nell’articolo Un monachesimo per tutti pubblicato in queste pagine) come intenda riprendere altrimenti la vita religiosa ed eventualmente pubblicare un libro sull’argomento, passo qui in rassegna le ombre dell’immaginario monastico. A questo seguirà un prossimo contributo dedicato alle sue “luci”.

Come detto nel primo contributo di questa serie dedicata al monachesimo, per comprenderne grandezze e miserie, nodi irrisolti, corto circuiti e potenzialità, è necessario innanzitutto riprendere in maniera critica l’immaginario tradizionale ad esso collegato. “Monachesimo” è infatti una parola che evoca una molteplicità di immagini, emozioni e sentimenti, di tenore spesso contrastante e talvolta estremo, a seconda della cultura, del credo e delle esperienze personali di chi la sente proferire.

Sia che con questo termine si intenda più tecnicamente chi si vota alla stabilità in un determinato luogo per condurre una vita di lavoro e di preghiera in disparte, sia che in esso si includano tutte le forme di consacrazione mediante voti specifici (a partire dal XIII secolo rappresentati nell’Occidente cristiano dalla nota triade povertà – castità – obbedienza), l’immaginario che esso ha sempre suscitato è straordinario.

I “religiosi” sono amati e odiati, esempi come pochi di grandezza umana ma anche di miseria e fanatismo da far rabbrividire, probabilmente per il radicalismo collegato alle loro scelte di vita, che può declinarsi e svilupparsi in apertura illimitata o in ottusità e oscurantismi inenarrabili (o in una miscela di tutto ciò). Se infatti dei singoli o dei gruppi di uomini e di donne ritengono di avere scoperto qualche profonda “verità” sulla vita e sul mondo, la linea tra pura testimonianza e crociate verso l’esterno, tra semplice godimento o contemplazione di quanto si ritiene di avere scoperto e desiderio di trasmetterlo in maniera più o meno rispettosa agli altri, diventa spesso difficile da tracciare.

La ricerca e l’eventuale possesso di determinate virtù o facoltà, morali, spirituali e/o intellettuali, portano da sempre gli esseri umani alla tentazione di dividere l’umanità intera, la società e le stesse comunità primarie in cui vivono, in gruppi di “merito” o di “livello”, a stabilire gerarchie. Senza nulla togliere alla diversità di talenti e di carismi in seno a qualsiasi gruppo umano, tali divisioni rischiano spesso di fossilizzarsi fino a dar vita a gruppi separati, in cui al principio della responsabilità e delle capacità individuali si sostituisce quello dell’appartenenza a una “casta”. In ambito religioso, la categoria di “santità” conferisce alla tentazione appena descritta ulteriori elementi problematici, che René Girard ha sottolineato in maniera magistrale descrivendo il legame profondo e spesso invisibile tra violenza e sacro.

Non sorprende perciò che molto presto i cristiani abbiano iniziato a separare e sacralizzare alcune figure: gli anziani e i sovrintendenti delle loro comunità, trasformati in “sacerdoti” già sul finire dell’epoca neotestamentaria; i “figli del patto” nella chiesa siriaca del III secolo, che si votavano al celibato, all’astinenza da vino e carne e a indossare abiti speciali; gli “gnostici” nella chiesa alessandrina dei tempi di Clemente e Origene, ritenuti un gruppo di cristiani più evoluti rispetto a quelli dotati della sola “fede”; e quindi i monaci e le monache sorti nel deserto egiziano nel IV secolo e diffusisi in tutto il mondo cristiano allora conosciuto.

Lo stesso cristianesimo, perciò, nato dalla sostanziale desacralizzazione di qualsiasi autorità e figura umana da parte di Gesù di Nazareth, finì presto per restituire alle inevitabili declinazioni umane dell’autorità una strutturazione in livelli non solo funzionali o transitori, ma in una certa misura “eterni”, “sacrali” nonché “patriarcali”. E per autorizzare una divisione in “generi di cristiani”, del tutto incompatibile con la rivelazione cristiana e ciò nonostante addirittura sancita nel primo grande testo del diritto canonico occidentale: il Decretum Gratiani del xii secolo.

Ammantatosi di un’aura di santità e sacralità, il monachesimo cristiano ha talvolta brillato per oscurantismo, intolleranza e violenza, dai tempi della crociata albigese del XIII secolo, che vide un innegabile coinvolgimento di molti domenicani nelle gravi violenze che la caratterizzarono, passando per il tristissimo e lunghissimo periodo dell’Inquisizione, fino ai casi più recenti dei francescani che benedivano i massacri perpetrati in Croazia dagli ustascia ai danni di ortodossi ed ebrei, o al fanatismo inveterato di alcuni gruppi monastici ortodossi, che esibiscono con orgoglio striscioni che recano la scritta “ortodossia o morte”, danno rifugio a militanti neonazisti e partecipano sia in Grecia sia in Russia a raid violenti contro esponenti del mondo LGBT+. Ma anche i “roghi della vanità” promossi nel XV secolo dai seguaci del Savonarola, con cui i religiosi usavano una tattica sinistra di vigilanza sulla popolazione per spingerla a convertirsi, non possono non far scendere qualche brivido lungo la schiena a noi tutti.

Non stupisce perciò che gli Illuministi abbiano speso parole ben poco lusinghiere nei confronti del monachesimo. Voltaire, ne L’uomo dai quaranta scudi (1768), cita la massima ben nota ai suoi tempi secondo cui «i monaci sono persone che si mettono insieme senza conoscersi, vivono senza amarsi e muoiono senza rimpiangersi»; ben più radicale e approfondita è tuttavia la critica mossa al monachesimo da Edward Gibbon, massimo storico inglese del Settecento, che in molti modi permea ancor oggi l’immaginario di tutti coloro che hanno una visione negativa della vita religiosa.

Il grande studioso britannico dedica infatti varie pagine della sua Storia della decadenza e rovina dell’impero romano in sei volumi al tema “Origine, evoluzione ed effetti della vita monastica”, in cui afferma che gli asceti «obbediscono, abusandone, ai rigidi precetti del Vangelo e sono animati da un entusiasmo selvaggio che vede l’uomo come un criminale e Dio come un tiranno». Per tale ragione, secondo Gibbons, oltre a dare vita a molte forme di fanatismo nel corso della storia, monache e monaci hanno sottratto energie preziose alla società tramite la loro fuga mundi, minando in maniera decisiva lo stesso Impero romano. 

Il radicalismo e il fanatismo delle religiose e dei religiosi cristiani sono stati infine denunciati nella cinematografia contemporanea da moltissime pellicole. In Simón del desierto Luis Buñuel narra con ironia la vacuità della sofferenza di un santone cristiano che decide di ritirarsi a vivere su una colonna nel deserto, come aveva fatto agli albori del cristianesimo Simeone lo Stilita. Alejandro Amenábar mostra in Agorà il fanatismo dei parabolani, gruppo di soli uomini che si votavano nei primi secoli in nome di Cristo alla cura dei malati e alla sepoltura dei morti, e che nel film del regista spagnolo sono i principali responsabili dell’orribile morte subita dalla filosofa Ipazia ad Alessandria d’Egitto. Stephen Frears e Peter Mullan raccontano gli orrori a cui venivano sottoposte le giovani madri o le semplici ragazze ritenute “pubbliche peccatrici” nei conventi irlandesi, rispettivamente in Philomena e in Magdalene. E si potrebbero citare molti altri esempi letterari e cinematografici di tenore analogo.

Certo, le deviazioni e gli eccessi di natura violenta non sono, come è noto, un tratto esclusivo del monachesimo cristiano: protagonisti di notevole fanatismo e violenza sono stati ad esempio di recente, in ambito buddhista, alcuni gruppi di monaci nello Sri Lanka e il “Movimento 969” in Myanmar. Il binomio apparentemente assurdo buddhismo – violenza fisica affonda le proprie radici in tempi antichi, e nel Giappone medievale fu addirittura coniato un termine, sōhei, che significa “monaco guerriero”, per parlare di organizzazioni analoghe all’Ordine teutonico cristiano.

Vorrei tranquillizzare chi si è allarmato leggendo queste cose: la prossima volta parlerò dell’immaginario positivo della vita religiosa. Cercherò inoltre di evidenziare cosa si possa imparare dalle luci e le ombre che il monachesimo ha disseminato nella sua lunga storia. Solo allora sarà possibile attualizzare e riprendere le sue più grandi intuizioni per le donne e gli uomini d’oggi.