Al cuore dell’anelito monastico si trova, come ho scritto nel mio ultimo contributo, la ricerca di un principio radicale con cui intrattenere una relazione privilegiata e unificante che consenta di dare forma alle nostre vite, creando i tempi e gli spazi necessari per una siffatta relazione trasformante.
Ma perché dare forma alle nostre vite e non vivere semplicemente lasciando che sia l’ineludibile alterità del mondo a plasmarci e modificarci in continuazione, accettandone la forza e la coercizione, e facendocene una ragione? In fondo nasciamo e viviamo la nostra prima infanzia in totale dipendenza dagli altri e dal mondo, e il mondo si prende cura di noi. Per non parlare del fatto che il nostro desiderio di trasformare il mondo o piegarlo ai nostri fini si rivela il più delle volte una pia illusione. Eppure, anche se non abbracciamo filosofie o religioni totalizzanti o in grado di proporre un télos, un punto di approdo molto chiaro per le nostre singole esistenze, cerchiamo tutte e tutti attivamente una qualche forma di benessere, di quiete, di felicità, di “realizzazione”, anche solo parziale e circoscritta.
I filosofi greci, per rispondere a questo interrogativo, che sicuramente è tra i più grandi delle nostre vite, coniarono il termine eudaimonía, che letteralmente significa “(vita secondo) uno spirito buono”. Platone, nelle Definizioni che tradizionalmente gli sono attribuite, definisce l’eudaimonia “il bene composto di tutti i beni, ciò che basta a una creatura per vivere bene, la perfezione in merito alle virtù”. Il suo più celebre discepolo, Aristotele, nell’Etica a Nicomaco spiega come sebbene tutti concordino sul fatto che l’eudaimonia sia il bene più grande per gli umani, regna per contro una certa divergenza di opinioni riguardo a cosa sia concretamente una buona vita: “Alcuni pensano che sia qualcosa di visibile e appariscente, come piacere o ricchezza o onore, altri un’altra cosa; anzi spesso è il medesimo essere umano che la intende diversamente: quando è ammalato, infatti, la intende come salute; come ricchezza quando si trova povero” (1095a22-25).
Tutto ciò credo che sia sufficiente non a sbarazzarsi della ricerca universale di realizzazione, di benessere, di felicità – di eudaimonia – quanto piuttosto di qualsiasi sua definizione univoca e valida per tutti. E infatti i grandi filosofi dell’antichità, a partire da quelli che ho appena citato, ritenevano malgrado quanto abbiamo appena visto l’eudaimonia l’orizzonte di senso fondamentale di ogni vita. E – visto che a noi interessa in maniera molto particolare – non si limitarono a riflessioni astratte, ma dedicarono uno spazio notevole alla definizione di quale potesse essere il cammino per giungere all’eudaimonia.
Sempre Aristotele, approfondendo gli spunti del suo maestro Platone, spiega come sia eudaimonica una vita caratterizzata da “attività dell’anima secondo la ragione e secondo la virtù” (1098a14-15). Detto altrimenti, realizziamo lo scopo ultimo delle nostre vite solo praticando quelle che lo stesso Aristotele chiama virtù etiche e virtù dianoetiche. Le prime (la giustizia/dikaiosýne su tutte, che si declina in coraggio, temperanza, generosità, magnanimità e mansuetudine) concernono l’uso della ragione nella vita pratica, lo sviluppo morale del nostro comportamento, mentre le seconde (arte/téchne, saggezza/phrónesis, intelligenza/noûs, scienza/epistéme, sapienza/sophía) sono l’utilizzo della ragione in sé, per realizzare il nostro desiderio di conoscere, comprendere, interpretare e trasformare il mondo.
L’anelito monastico, in quanto desiderio antropologico universale, si accompagna perciò sempre all’identificazione e la ricerca di una vita eudaimonica, realizzata, dotata di senso, compiuta, buona e in un certo senso felice, raggiungibile mediante lo sviluppo di tutta una serie di “virtù”, ovverosia di facoltà, forze, capacità, potenze, che riguardano la sfera del comportamento e dell’intelletto, la ragione pratica e quella più cognitiva o “contemplativa”.
Se questo è vero, non è certo una sorpresa che, per attenerci alla sola tradizione cristiana, nel cristianesimo siano state le monache e i monaci dell’antichità ad aver ripreso e sviluppato queste intuizioni fondamentali raccontando della lotta per crescere nelle virtù e combattere i vizi – quella che Evagrio Pontico (345-399) chiamava la “vita pratica” – nonché dei livelli diversi di conoscenza e di comprensione/visione (in greco theoría, da cui la nostra parola “contemplazione”) a cui è possibile accedere allenando le potenzialità della nostra mente e del nostro intelletto (le virtù dianoetiche di Aristotele).
Il dato forse più interessante di questa ricerca, che la rende aperta a continue evoluzioni e scoperte per ogni singola persona e in ogni epoca, è il fatto che se è vero che l’eudaimonia si consegue esercitando le virtù morali e della ragione in sé, ciò non avviene quasi mai perché si sa fin dall’inizio dove si vuole (o si “deve”!) arrivare veramente. Il contenuto dell’eudaimonia, della vita realizzata, in fin dei conti è sempre davanti a noi, ancora da scoprire, in continua ancorché parziale evoluzione. Per dirla con Heidegger – che, ricordiamolo, credeva che la radice per comprendere il nostro essere fosse la presa d’atto della nostra finitudine, del nostro essere radicalmente limitati e mortali – la nostra verità non è dietro di noi, ma davanti, alla fine del nostro cammino: solo al termine della nostra vita sarà stato definito chi siamo veramente. Ma è un pensiero presente anche nella grande tradizione patristica – che per contro crede nella vita eterna – come ad esempio fa Massimo il Confessore (580-662), il quale scrive sintetizzando mirabilmente: “Ombra sono le cose dell’antica alleanza, immagine quelle della nuova. Verità è la condizione delle cose future”.
Perciò non sorprende che nella(e) tradizioni monastiche di ogni tempo e luogo, più che dilungarsi sui principi teorici (e le “verità”!) che dovrebbero guidare l’esercizio di ogni sorta di virtù, si preferisce sempre raccontare il cammino e i cammini, per aiutare chi seguirà tracciati analoghi ad avere delle mappe concettuali e pratiche utili a decifrare e decidere i passi successivi. Con la consapevolezza, però, che “la mappa non è mai il territorio” – meraviglioso aforisma di Alfred Korzybski (1879-1950), fondatore della semantica generale.
Il monachesimo è dunque un anelito verso l’eudaimonia, con la piena consapevolezza di quanto sia importante – e anzi fondamentale – guidare all’acquisizione di abilità, capacità, “competenze umane”, che pur non essendo prive di fondamenti teorici e di natura più speculativa, richiedono soprattutto una pratica riflessiva e una riflessione messa in pratica che si susseguono instancabilmente e ciclicamente. L’obiettivo? Consegnare a quanti praticano la disciplina spirituale una vera e propria “scatola degli attrezzi” che renda capaci di affrontare qualsiasi situazione trovandovi un senso e una direzione, anche quando si approda a terreni del tutto imprevisti o inimmaginabili e inimmaginati.
Quando nella vita religiosa, di cui il monachesimo è in certo qual senso sempre figura e matrice, si dimentica che la verità, compresa quella su noi stessi e sulle nostre vite, è essenzialmente escatologica, ci sta davanti e, pur risultando determinante, è una realtà viva e in movimento, molto facilmente si diventa dei pericolosi fanatici, che brandiscono verità posticce in maniera insipiente senza ispirare nessuno, ma anzi compiendo danni a valanga.
Se invece si sa accettare che il principio radicale che consente di dare forma alle proprie vite è vitale proprio perché creativo, vivo e in movimento, allora si può diventare monache e monaci, religiosi e religiose, capaci di affrontare qualsiasi situazione, crisi e cambiamento. E si può diventare fari per tutte e tutti coloro che ci vivono accanto, che incrociano i nostri cammini zigzaganti di cercatori di un senso capace di vivificare, di uno “spirito buono”. Di eudaimonia.