Nel contributo precedente, oltre a esplorare le ragioni per cui gli esseri umani decidono di emettere dei voti, ho sottolineato come una simile prassi sia compatibile con il cristianesimo a due condizioni principali: che mai, in nome di un voto fatto a Dio, possa risultare possibile tradire l’amore di Dio per noi stessi e per il prossimo, e che ci si ricordi sempre della fondamentale asimmetria tra noi e il divino, che ci impedisce di presumere di poter essere totalmente padroni delle nostre vite.

Ho inoltre ribadito che il dedicare se stessi “a un obbligo speciale che va oltre le normali esigenze sociali o religiose” (dalla definizione di voto della Encyclopædia Britannica) per un cristiano avviene con le promesse battesimali, che già contengono la fondamentale “straordinarietà” della vita cristiana, in quanto vocazione a testimoniare l’amore misericordioso e riconciliante di Dio per tutto il mondo rivelato in Gesù di Nazareth.

Eppure, malgrado questi principi ben documentati anche nei testi che i cristiani ritengono normativi, fin dall’inizio vi è stata la tentazione in alcuni di volersi sentire “più cristiani degli altri”, in un certo senso migliori (o “più perfetti, espressione che già grammaticalmente è problematica), e di sancire tutto ciò mediante riti e/o voti.

Basti pensare alla tradizione antica della chiesa di Alessandria d’Egitto, in cui sorse la distinzione tra “credenti” – dotati della pístis, ossia la fede – e “gnostici” – cioè dotati della gnôsis, una conoscenza superiore. O alla chiesa siriaca, in cui già nel IV secolo esisteva una forma di speciale consacrazione con emissione pubblica di voti, con cui alcune donne e alcuni uomini diventavano “figli del patto”. Nel medioevo sarà il diritto della chiesa a ipotizzare (e di fatto a sancire) l’esistenza di diversi genera di cristiani.

Il monachesimo, sorto nel IV secolo in Egitto e diffusosi rapidamente in tutti i territori di espansione del cristianesimo, finirà poco per volta per accogliere la prassi dell’emissione di voti religiosi, che a seconda delle tradizioni assumeranno tratti e sfumature diversi ma tutto sommato abbastanza condivisi.

Nell’immaginario comune della cultura odierna, i voti pronunciati da una monaca o un monaco (e in tutto l’ambito della vita religiosa e “consacrata”) sono quelli di castità, povertà e obbedienza. Per quale ragione? E soprattutto: si tratta di realtà eloquenti solo per il monachesimo, oppure hanno una valenza antropologica universale?

Diversi esegeti hanno individuato la radice dei tre voti religiosi tradizionali nelle narrazioni delle tentazioni di Gesù. Al di là dei possibili collegamenti che si possono stabilire, è fondamentale cogliere come i vangeli ci raccontino che Gesù ha vissuto un tempo di preparazione alla propria vita pubblica, in cui si è esercitato ad acquisire il controllo sulle forze che impediscono all’essere umano di trasformare la propria vita conformemente ai valori che ritiene portanti, nonché a imparare a concentrarsi sulle forze benefiche che rendono possibile una vita riconciliata con sé stessi, il prossimo e il cosmo intero.

L’ascesi cristiana, come già si è visto, da un lato è stata ereditata dalle tradizioni filosofiche antiche, e dall’altro deve tenere conto del fatto che le stesse forze o facoltà che in alcune situazioni possono essere decisamente positive, in altre possono invece rappresentare un serio ostacolo allo sviluppo dell’eudaimonia umana. Perciò è necessario esercitarsi, per non essere puramente in balía del destino o della natura e cercare di vivere in maniera conforme ai valori che scegliamo. In fin dei conti è una questione di libertà.

La castità, in questo senso, significa prendere atto del fatto che la libido sessuale è fonte sia di vita sia di morte, ed è dunque bene imparare a conoscerla e a incanalarla in direzioni realmente umanizzanti. La povertà significa prendere atto che il nostro desiderio di beni materiali, che fino a un certo punto può essere dettato dal bisogno di rendere meno incerta la vita sia nostra sia di quanti ci sono cari, si scontra con il desiderio analogo degli altri ed è perciò necessario controllare il nostro istinto di possesso. L’obbedienza, infine, funge da contraltare al desiderio di dominio degli esseri umani, che da un lato consente loro di trasformare le loro stesse vite e quelle altrui, ma che per contro può essere fonte di umiliazione, violenza e addirittura di morte per quanti incrociano il nostro cammino.

La risposta cristiana – in fin dei conti molto umana – consiste nel porre costantemente la presenza dell’altro, della sua dignità e inviolabilità, tra noi e i nostri istinti. Per cui ci si esercita alla castità per andare  verso l’altro nell’incontro amoroso rispettandone in pieno tempi, modi e sensibilità; ci si esercita alla povertà (ma sarebbe meglio dire alla condivisione) per impedire al nostro desiderio di possesso di sottrarre dignità e possibilità alla vita altrui, ma anche per cogliere la dimensione di dono presente in molti aspetti della vita; e ci si esercita all’obbedienza per imparare a tenere conto degli altri nei momenti – sempre necessari – in cui saremo chiamati a decidere e ad agire.

Come si giustifica il collegamento a voti e impegni più o meno pubblici di queste tre pratiche che sono fondamentali per ogni cristiano e comunque utili a ogni essere umano?

Guardando alle ragioni antropologiche soggiacenti all’emissione di un voto, sicuramente possiamo dire che così facendo è possibile ricordare e far penetrare in noi stessi in maniera più significativa valori fondanti, a partire dai quali trasformare le nostre esistenze; inoltre, la componente pubblica dei voti coinvolge anche gli altri nel nostro cammino di trasformazione, creando possibilità non trascurabili di sostegno.

Nel momento però in cui si invoca Dio – e in particolare il Dio di Gesù Cristo – per avallare la prassi dei voti, se da un lato si riconosce in lui la sorgente di ogni possibile ascesi e trasformazione interiore, non si possono dimenticare le condizioni di compatibilità che ho citato all’inizio di questo contributo. Altrimenti si finisce per scivolare in visioni religiose che, oltre a essere difficilmente compaginabili con la fede cristiana, sono disumanizzanti e deleterie per la ricerca di un’eudaimonia umana.

Per tale ragione, ritengo molto più percorribile la via di un impegno ascetico senza voti religiosi tradizionali, o al massimo dell’emissione di voti unicamente temporanei (ed eventualmente rinnovabili), rispetto all’attuale tradizione nella vita religiosa di impegni “definitivi”.

Con ciò non escludo che possano esistere persone in grado di vivere la castità come astinenza per tutta la vita e la condivisione come riduzione permanente ai limiti della sussistenza del possesso di beni materiali. (Mi restano forti dubbi riguardo al tema dell’obbedienza – a cui dedicherò ulteriori riflessioni – che non solo fatico, sulla scia di Lorenzo Milani, a ritenere una virtù, ma che penso sia in realtà un travisamento del concetto cristiano di sequela.) Tali persone, tuttavia, che sono in realtà molte meno di quelle attualmente presenti nelle varie forme di vita religiosa, rimangono un’eccezione da accogliere come tale e da non coltivare (salvo non si vogliano creare tante nuove vittime di un’errata concezione dell’ascesi cristiana).

L’eternità è propria di Dio, e nelle nostre vite può irrompere solamente come luce che ci consente non di guarire dalla nostra finitudine, ma di riconciliarci pienamente con la nostra finitudine. Se perciò l’ascesi, la contemplazione, le regole di vita, l’accompagnamento spirituale nei sensi definiti nell’itinerario che sto proponendo mi paiono elementi utili alla crescita innanzitutto umana ed eventualmente anche evangelica di ciascuna e ciascuno di noi, i voti vanno radicalmente ripensati, non per appiattirsi acriticamente sulla mens moderna, ma per consentire realmente una ricerca sana, per tutte e per tutti, di cammini di eudaimonia.