Con questo articolo, apparso sul numero 8 di Rocca del 15 aprile 2021, inizia un cammino di collaborazione sul tema della comunità con il quindicinale della Pro Civitate Christiana di Assisi. Ringrazio di cuore Mariano Borgognoni, amico di vecchia data, per la fiducia e l’onore che mi ha voluto fare affiancandomi alle voci di grande valore che da sempre arricchiscono la rivista di cui di recente ha assunto la direzione.

Nel 1995 vedeva la luce un piccolo libretto, destinato a risultare decisamente profetico, del grande filosofo e politologo tedesco naturalizzato britannico Ralf Dahrendorf, uno dei più seri pensatori liberali dell’ultimo secolo. Dietro al titolo un po’ enigmatico di Quadrare il cerchio si celava un invito molto serio a ripensare i modelli di crescita economica, che rischiavano ormai di mettere in moto un “pericoloso concatenamento” che avrebbe finito per determinare “un processo non solo precario ma anche lungo” che avrebbe preparato l’umanità al “periodo più denso di minacce della sua storia”. Ma perché parole così gravi?

Dahrendorf riteneva miopi i grandi attori e commentatori politici ed economici del primo mondo, i quali si erano (e in molti casi continuano tuttora a farlo) lasciati inebriare da trent’anni almeno di forte crescita economica che aveva avuto benefici molteplici, tra cui: 1) la capacità di garantire una vita di qualità e in crescita quasi a tutti, 2) l’aver assicurato un passaggio “dallo status al contratto”, ovverosia permesso di uscire da una società tradizionale senza distruggere la coesione e la solidarietà e 3) l’avere sostanzialmente consentito alle società del primo mondo di essere democratiche.

Sono proprio questi fattori di successo a non permettere negli anni ’90 a molti liberali (e negli anni a venire a sedurre tristemente anche gran parte dell’area socialdemocratica) di vedere approssimarsi all’orizzonte la nube minacciosa rappresentata dal fatto che i paesi più ricchi “in un mercato mondiale in crescita dovranno prendere misure destinate a danneggiare irreparabilmente la coesione delle rispettive società civili“. Il grande pensatore tedesco, un po’ in controtendenza rispetto alla cultura a cui apparteneva, invitava perciò già allora a ripensare creativamente a forme di comunità, alla ricostruzione di legami sociali, per impedire alla società di disgregarsi, in preda a fattori di cui nessun singolo o gruppo di individui poteva ormai avere più il controllo.

Lo sviluppo della rete è parso a diversi intellettuali più ottimisti la risposta quasi magica ai bisogni di comunità postmoderni, in grado di soddisfare i nostri bisogni primari di socialità, di sicurezza e addiruttura di benessere psicologico, accompagnando e favorendo al tempo stesso l’imperativo mai messo in discussione della crescita economica. È la tesi, ad esempio, di un altro grande classico uscito negli stessi anni del libretto citato sopra di Dahrendorf, ovverosia Comunità virtuali: parlare, incontrarsi, vivere nel ciberspazio, pubblicato nel 1993 dal critico letterario americano Howard Rheingold, araldo dei “diritti di cittadinanza” garantiti a tutti da Internet.

Senza addentrarmi in approfondite analisi dei benefici e dei problemi creati dalla rete, mi limito solamente a sottolineare come, dal punto di vista dell’analisi critica delle comunità virtuali siano usciti studi di eminenti accademici provenienti dal cuore stesso della rivoluzione informatica che hanno mostrato come in realtà le relazioni sociali, in apparenza potenziate, siano state fatte decisamente pezzi da Internet. Su tutti consiglio Insieme ma soli di Shelly Turkle (Einaudi 2019), sociologa e psicologa della comunicazione di Harvard.

Infine ricordo il celebre monito espresso già vent’anni fa da Zygmunt Bauman nel suo Voglia di comunità (Laterza 2001), in cui il grande sociologo e filosofo polacco prendeva atto di un importante e crescente desiderio di comunità nella società postmoderna, ma metteva nel contempo in guardia contro il ricorso alla comunità per darsi false sicurezze di fronte ai meccanismi della globalizzazione.

Perché citare questi testi solo in parte collegati e apparentemente senza alcun legame con le esperienze di legami sociali e di comunità generate dalle esperienze religiose? Perché con questo contributo, e con altri che mi riprometto di proporre in avvenire, vorrei aiutare a mettere a fuoco il tema centrale della comunità oggi in ambito civile ed ecclesiale, e per poterlo fare ritengo necessario partire da una comprensione delle radici umane, antropologiche e sociali, del mondo in cui viviamo, segnato da rinnovati desideri di socialità e di incontro, da nuovi mezzi a disposizione, ma anche da vecchi e nuovi vicoli ciechi che rischiamo costantemente di imboccare.

Non siamo più infatti negli anni ’60, che videro il fiorire di moltissime forme di comunità, sia religiose sia secolari, sotto spinte di varia natura, pressochè tutte favorevoli. Non si vedono in giro molti “fondatori” di nuove esperienze di vita comune. La pandemia ci ha ulteriormente privati di contatti fisici con gli altri. E la rete è diventata il luogo più normale in cui cercare quelle “legature” (così chiamava Dahrendorf le relazioni sociali di cui abbiamo bisogno) necessarie a trovare un senso in un mondo globalizzato in cui pensiamo di sapere tutto ma in realtà abbiamo certezze tangibili su pochissime cose.

Inoltre è indubbio che le esperienze comunitarie di matrice religiosa in cui chi appartiene alla mia generazione è cresciuto, presentino ormai ovunque segni di grave crisi e di difficoltà talvolta estreme ad adattarsi al mondo e ai bisogni contemporanei. E questo vale sia per le forme tradizionali di vita religiosa, in calo ovunque nel mondo e in maniera decisamente sensibile in Europa, sia per le nuove aggregazioni di stampo anche laicale sorte prima e dopo il concilio Vaticano II.

Alla radice della crisi della vita comunitaria a cui ci è dato oggi di assistere vi è sicuramente un fondamentale dato culturale, ovverosia la fluidità del senso di appartenenza, che talvolta può essere anche profondo, ma che tende facilmente a raffreddarsi o a individuare nuovi obiettivi, idee o ideali. La modernità liquida di cui ha mirabilmente parlato Zygmunt Bauman in un altra sua celebre opera (Laterza 2002) è proprio questo: non è un calo di tensione morale o di valori, ma è l’impossibilità quasi fisiologica, nel mondo postmoderno, che tutti noi abbiamo di adattarci a contenitori rigidi e impermeabili, il nostro costante bisogno di disgregarci e riaggregarci, di fluire, confluire e defluire.

Le forme di aggregazione comunitaria che paiono funzionare sono perciò al momento, sia in ambito religioso sia secolare, quasi tutte “funzionali” e temporanee: il fare squadra per progetti a termine, senza legarci a vita a professioni o gruppi di persone, ci consente infatti di dedicarci con sincerità, anima e corpo, a realtà che ci interessano, ci convincono o che corrispondono seriamente al nostro personale impianto di valori, lasciando però aperta la porta all’alternativa, alla possibilità di un dopo e di un oltre, con un senso di respiro e di libertà di cui oggi quasi nessuno si sente di poter fare a meno.

La vera complicazione, però, data da questa situazione apparentemente ineluttabile, è che è difficile produrre conoscenza, riflessione, profondità, e perciò motivazioni adeguate e capacità di trasformare la realtà, senza un contesto relazionale di più ampio respiro e maggiore stabilità temporale. Perciò il compito di ripensare la comunità e le reti di significative interazioni sociali è assolutamente vitale nel mondo moderno, in moltissimi ambiti.

In campo sociale, ciò riguarda il ripensamento dei corpi intermedi: partiti, associazioni e organizzazioni storiche, sindacati, massacrati oltre il lecito dalla chimera di una democrazia diretta portata dalla rete. In campo ecclesiale, è necessaria una profonda revisione di tutta le forme tradizionali di vita comunitaria, all’insegna dell’onestà e, credo, di una certa laicità. Con questo intendo alludere alla capacità di affrontare il nodo delle forme organizzative, del governo e della gestione del potere nelle aggregazioni di matrice religiosa, senza sacralizzazioni, senza schieramenti contrapposti fra “tradizionalisti” e “innovatori”, fra “istituzionalisti” e “carismatici”, tenendo pienamente conto delle aspirazioni, delle ricchezze e delle fragilità dei singoli.